domenica 15 aprile 2012

Di Mercè Rodoreda e dei grazie che riscattano


Di questa dedica lasciata sulla balaustra del parco pubblico poco distante da casa mia mi ha colpito in particolare la chiusa: il simbolo "minore" seguito dal 3 su Facebook (ignoro se succeda anche su Twitter: proverò) si trasforma in un cuore. Da quando l'ho imparato, alla mia veneranda età, lo uso spesso perché trovo carino lanciare cuoricini a chi mi dimostra affetto e/o benevolenza.
Al di là della mia preoccupante inclinazione ad abitudini adolescenziali, mi sono fermata a scattare la foto anche per una ragione un po' meno leggera. Nella testa mi risuonavano le parole de La piazza del diamante, il bellissimo libro di Mercé Rodoreda, che ho terminato di leggere ieri pomeriggio mentre fuori imperversava la tormenta.
Era un pezzo che non m'immergevo per così tante ore nella lettura, un piacere che ho relegato sempre di più alle mezz'ore serali o ai viaggi in treno, l'unico luogo in cui non mi sento mai in colpa per essermene restata incollata alla pagina per tutta la durata del viaggio.
E invece, per apprezzare al meglio la potenza narrativa della scrittrice spagnola protagonista della guerra civile di Spagna e per tal motivo esule dalla sua patria per circa vent'anni, bisogna darsi tempo spegnendo, o sospendendo, tutto il resto.
Negli anni più tranquilli, la sua Natàlia-Colombeta diventa una donna malinconica, "una lagna", scrivono nella traduzione italiana. Quanto mi piacerebbe sapere qual è il termine catalano usato dalla scrittrice, che adotta un linguaggio fintamente semplice, per riprodurre il modo di parlare di una persona di scarsa cultura.
Nella post-fazione, il traduttore dice di aver dovuto parzialmente modificare il flusso joyciano in cui si esprimeva la Rodoreda accrescendo ancora di più la mia curiosità di sapere che effetto mi avrebbe fatto leggerla in lingua (se conoscessi il catalano, naturalmente).
Nelle sue giornate "sfaccendate", Colombeta va spesso al parco e stringe amicizia con alcune signore, convincendole di nutrire una struggente nostalgia per i colombi che abitavano nella soffitta della sua prima casa coniugale. Invece è tutt'apparenza, ma alla protagonista del romanzo non importa e lascia che lo credano pure.
E poi la svolta. La figlia minore, Rita, fierissima e bella, si sposa e la notte dopo la festa, Colombeta si sveglia presto e raggiunge la piazza del Diamante, quella in cui aveva conosciuto il suo futuro primo marito Quimet. E qui succede qualcosa di sconvolgente, per lei e anche per me.
Non scendo nei dettagli, a beneficio degli eventuali lettori (direi meglio lettrici: sono sicura che solo le donne e pochi, sparuti uomini siano in grado di apprezzare fino in fondo la Rodoreda), ma posso assicurarvi che l'immedesimazione tra i fatti che vi si raccontano e le vite di chi pensa di trascinarsi dentro macigni poco digeribili è garantita. Se non ho pianto è solo perché poco sopra avevo letto quel passaggio sul diventare "una lagna", una propensione tipica di chi crede di vivere una maturità frustrata.
A differenza di Via delle camelie, l'altro, intenso, stratificato romanzo della scrittrice di Barcellona, qui il lieto fine è più chiaro ed è forse questa la ragione del grande successo che La piazza del diamante ha riscosso in patria e in molti altri Paesi al di fuori del nostro (da quel che ho capito, dell'esistenza della Rodoreda in Italia ci siamo accorti tardi).
In ogni caso, non si tratta di una chiusa sdolcinata o buonista, bensì soltanto di una pacificazione molto realistica e probabilmente anche parziale.
Ecco, a me basterebbe qualcosa del genere.
E della foto in alto condivido, profondamente, quella dedica insieme così antica e moderna a una tale "Giulia" (ho scattato due immagini scegliendo per questo post quella orizzontale: il nome era molto in basso, e nell'altro formato mi sapeva troppo di lapide).
Chissà chi ne è l'autore. Me lo immagino molto giovane e molto romantico.
Anche Colombeta riceve molti grazie dal suo secondo marito, ma di quanto sia stata fortunata lei a incontrarlo non sembra avvedersene fino alla svolta cui ho fatto cenno.
Bisognerebbe sempre ricordarsi di ringraziare le persone che ci vogliono bene, cogliendo i doni che ci fanno con lucida e aperta gratitudine. Chi ne è capace senza affettazione, infatti, ha già compreso di non essere, né ora né mai, il centro del mondo, ma di essere veramente importante per qualcuno.
E non c'è nient'altro che conti di più.

venerdì 13 aprile 2012

Transito vietato alle piccinerie di provincia


Quando meno la vorresti, eccola là, più puntuale della morte. Sto parlando della molestia, difficile da schivare tanto più se si materializza in un essere umano in carne e ossa, che si fa trovare nello stesso posto e alla stessa ora in cui ci sei anche tu.
L'ho visto già prima di varcare la soglia di un noto negozio di borse & affini del centro storico della mia città natale. Ho anche fatto la tipica faccia di chi non ha voglia di chiacchiere da bar, nell'attimo in cui la molestia personificata guardava verso di me. Purtroppo, non ha sortito effetto né io potevo evitare di entrare, dal momento che ero in compagnia di mia madre, desiderosa di ricevere un mio parere sul regalo alternativo che stava per farsi mostrare.
Così mi sono diretta verso la Molestia con il passo un po' molle di chi va al patibolo.
In un certo senso, però, sapere di avere un luogo in cui avrei successivamente depositato l'inutile dialogo (parola poco calzante, al contrario dell'aggettivo) mi sollevava un pochino dal senso di ambascia.
Ma non facciamola più lunga. Di seguito, le testuali parole dello sgradito scambio di vocaboli:
"Ho versato 21 anni di contributi"
"Buon per te"
"Eh, ma ormai non servono più a niente..."
"?"
"Mi ero già fatto i calcoli: tra 14 anni, a 54 anni, sarei andato in pensione e avrei lasciato il posto a mio figlio che allora avrà 21 anni. Perché anche se non c'è più questa possibilità, poi si sa che si fa lo stesso"
"..."
"Ma adesso, con la riforma... Anch'io dovrò ricorrere a un fondo privato"
"Va bene, dai, magari poi non è detto"
"Comunque adesso mi godo ancora qualche giorno di vacanza e mia moglie, che non vedo mai, e mio figlio"
"Infatti, fai bene. Io invece sono qui con mia mamma che ha appena compiuto 70 anni e..."
"Settant'anni? Ma chi l'avrebbe mai detto? Ma complimenti"
"Del resto è una questione di genetica"
(mi indico sorridendo in modo fintamente mondano)
"E quelli sono i tuoi genitori, scusami, non li avevo visti"
(la madre della Molestia mi si avvicina e molto educatamente mi saluta: mai vista pettinatura più scolpita della sua)
"E lei ha qualche anno più dei settanta..."
"Complimenti, non è cambiata per niente. Anche tuo padre"
Per farla breve, questo mio compagno di classe (perché di ciò si trattava) saluta con la sua tipica galanteria manierosa mia madre e si trattiene ancora un momento con i negozianti per allietarli, probabilmente, con l'illustrazione di qualche piano pensionistico a loro vantaggio (era sabato santo: sai che bellezza passarlo così), mentre mia madre ed io ci allontaniamo allungando l'andatura, io sentendomi un po' come Moretti quando lascia Panarea un attimo dopo essere sbarcato dall'aliscafo in "Caro Diario".
C'è un sottotesto chiaro, probabilmente, solo all'unica persona che legge questo blog che conosce anche la Molestia formato liceo classico: quest'ultima a scuola era una capra, un po' perché non studiava, un po' perché, in fondo in fondo, nutriva un non malcelato disprezzo nei confronti di chi lo faceva, ottenendo, magari, buoni risultati in materie poco pratiche come la storia (peggio, la filosofia: ma ammetto che non ci capivo un'acca neanche io, per quanto mi sforzassi di leggerne l'enigmatico manuale) o l'italiano.
Ai tempi, peraltro, la sua svogliatezza venne ripagata con bocciature in materie veramente improbabili: educazione fisica (giuro!) e storia dell'arte, quest'ultima, devo dirlo, per pura antipatia personale del prof nei suoi confronti del tutto fuori luogo, dal momento che non facevamo assolutamente nulla, il che ha finito per crearmi un forte rimpianto per le lacune mai colmate in una delle materie che amo di più.
E insomma, so per certo che il mio compagno ci teneva a mostrarmi tutti i suoi successi come a dirmi: vedi? tu eri tanto brava e adesso non sei nessuno, mentre io sono ricco e affermato.
No, non è una mia proiezione per via delle solite insicurezze che effettivamente a tratti mi angosciano non poco. Conosco la faccia di questo ex ragazzo imbolsito precocemente e le cattiverie di cui era capace. Le tipiche cattiverie dell'adolescenza che mi sono portata dietro per anni, prima di convincermi che dovevo fregarmene e pure alla grande.
Quel che mi sconcerta è che, nonostante tutti i mutamenti che pure saranno intervenuti nella sua vita, comunque dovesse darsi un tono, buttandomi in faccia la sua infantile rivalsa antropologica.
Davvero, se gli fosse toccato di andare in pensione a 54 anni, come a tanti delle generazioni passate, sarei stata felice per lui, se questo era, è, il suo orizzonte di vita.
Meno capisco il discorso sull'ereditarietà del posto di lavoro. Anzi, direi che un po' mi fa orrore, considerato il modo in cui starà crescendo suo figlio e il "trotismo" dilagante.
E tuttavia, l'aspetto vieppiù triste di questo episodio è il senso d'immobilismo che mi restituiscono persone così, simbolo di una terra, di un paese, ostile al diverso, al nuovo, allo straniero, esattamente come venticinque anni fa, quando ho preso a scalpitare per il desiderio di conoscere il mondo.
Ammetto di non essere andata molto lontano: Molestia, hai ragione tu: non ho combinato granché, ma la testa non si è mai più richiusa né mai sarà possibile.
E se anche un giorno dovessi venirti a chiedere delucidazioni sui fondi pensione, beh, di sicuro troverò un'altra maniera per mettere alla berlina la tua noiosa piccineria di provincia.

giovedì 12 aprile 2012

Impiegati-Stakanov o emuli di Kafka?


Leggevo giusto stamattina che i dipendenti del Comune in cui abito sono dei gran lavoratori: la scoperta è stata resa possibile dal provvedimento anti-assenteismo voluto dall'ex ministro Brunetta, mio simile (per una questione di centimetri, non per altro).
Buon per noi semplici cittadini, verrebbe da dire a caldo. A freddo, però, ci si accorge che l'organico del suddetto Municipio andrebbe rafforzato di almeno un centinaio di persone, dal momento che gli attuali assunti sono costretti a fare spesso straordinari.
Ora, non posso essere sicura che sia vero: non c'è nessun impiegato che ammetterebbe mai di non aver nulla da fare, ma d'altro canto, se l'articolo si basava su dati certi, è altrettanto probabile che qualche carenza ci sia davvero. Il sindaco, in tutti i casi, ha già detto che di prendere qualcun altro non se ne parla. E pazienza.
Però una riorganizzazioncina la riterrei opportuna, onde evitare demenzialità come quella documentata dall'immagine in alto.
Si tratta del dettaglio di una lettera speditaci dal Comune che sarebbe piaciuto a Stakanov, con la quale ci si informava come saldare il debito per le tarsu (il balzello sulla spazzatura) mai versato da quando abitiamo dove abitiamo.
Nulla da discutere su questo: The Sfaccendatis' pagano tutto fino all'ultimo centesimo. Anzi, sono stati loro stessi ad autodenunciarsi al suddetto iper-indaffarato municipio quando hanno ricevuto l'avviso di pagamento.
Però, mi domando, perché spedire testi così? Perché illuderci che avremmo potuto rateizzare il debito?
Siamo certi, in altri termini, che l'impiegato autore di cotanto prodotto letterario lavori bene?
Oddio, magari proprio perché è pieno fino al collo di incombenze, non ha avuto il tempo di sistemare il pro-forma che si spedisce in casi del genere. Però qualcosa, detto apertis verbis, mi fa dubitare del contrario, non foss'altro perché ho visto in faccia gli addetti all'ufficio tributi.
Ma Lombroso non aveva sempre ragione, suvvia, e d'altra parte anche Franz Kafka faceva l'impiegato durante il giorno ed è probabile che al lavoro avesse una faccia poco allegra (e non molto sveglia).
In tutti i modi, alla scadenza mancano ancora due settimane. Dopodiché, mi voglio augurare che la faccenda si chiuda qui. Se non dovesse essere, una letterina la scriverò io (tanto sono Sfaccendata) per pregare il Comune di verificare che le ore trascorse sul posto di lavoro dai propri dipendenti coincidano veramente con efficienza. Brunetta o non Brunetta, casse municipali piene o vuote, la crescita (e la ripresa) passa anche da queste piccole cose.

martedì 10 aprile 2012

La vittoria nella vita


Scombussolata come posso essere solo dopo qualche giorno in terra natale, butto giù questo post per fissarlo, se possibile, per sempre. O almeno finché esisterà questa piattaforma di blog (ho scoperto da poco di aver perso tutti i post scritti su splinder. E pazienza: nulla è eterno).
Sono state giornate intense. Prevedevo la commozione generale, ma l'autenticità di quei momenti mi ha ripagato completamente della tensione dei giorni precedenti alla partenza. Una tensione difficile da sciogliere non appena varcata la soglia della casa dei miei genitori, come probabilmente mi capitava quando ero più giovane e la vita mi pareva ancora carica di molte promesse. Ma siccome so di essere letta proprio dalle persone che mi vogliono più bene, preciso che nessuno di loro è responsabile dei miei stati d'animo. Certo, vorrei che fossero fieri di me come un tempo, quando prendevo trenta agli esami o mi facevo strada (almeno così sembrava) nel lavoro.
Però il mio nervosismo e la conseguente difficoltà di prendere sonno per i primi due giorni, proprio in quel letto che prima mi pareva l'unico giaciglio in cui potessi veramente riposare, ha a che fare solo con l'incertezza del presente, contro cui continuo a lottare con tutte le mie forze.
Passata la Pasqua e lo scambio dei regali, per fortuna, i nodi si sono allentati e sono stata invasa da una grande tenerezza.
Trascrivo perciò di seguito le parole che mia sorella ha dedicato a mia madre, mutuate da Daisaku Ikeda, un autore che non conosco:

"Il desiderio di ripagare i debiti di gratitudine è un'energia infinita che ci spinge a crescere e migliorare più di qualunque cosa. La vittoria nella vita appartiene alle persone capaci di ripagare i debiti di gratitudine".

Mai frase mi ha illuminato di più negli ultimi tempi.
E chissà che i vuoti e gli "sfaccendamenti" del mio presente non mi stiano semplicemente dando la preziosa occasione di compiere, almeno in parte, la missione "vittoriosa".
Preferisco quest'ultima parola a "vincente", un aggettivo utilizzato accanto a "generazione" da un'ennesima agenzia interinale che ho scoperto con mia sorella dietro l'angolo di casa dei nostri genitori.
Ma oggi non voglio polemizzare né intristirmi.
Con il cuore ancora colmo di affetto e natura (che bei posti abbiamo visto ieri nella gita di Pasquetta! Io c'ero già stata una vita fa, perciò era come vederli per la prima volta) e un forte desiderio di dormire per riandare con la testa al recentissimo passato, prometto di fare il più possibile per crescere davvero usando la mia energia nel modo indicato da Daisaku (e da mia sorella).
A tutti i miei cari, grazie di tutto quello che mi date.
In un certo senso, credo che il miracolo della Pasqua, della rinascita intendo, si sia compiuto anche per me. Ed è solo merito vostro.

giovedì 5 aprile 2012

Da Sarajevo all'Aquila, ricordare per rinascere


Stamattina l'organizzatore di una conferenza stampa ha sottolineato la doppia ricorrenza che cade proprio in questi giorni. La prima era l'oggetto dell'incontro con i giornalisti: l'assedio di Sarajevo, cominciato il 6 aprile di vent'anni fa. Ai tempi avevo la metà degli anni che ho oggi, un'età già abbastanza adulta, certo, ma non così ragguardevole da permettermi di capire con sufficiente chiarezza quel che stava succedendo a poche centinaia di chilometri da noi. Negli anni successivi, ho in parte colmato le lacune sulla guerra che ha dilaniato la federazione jugoslava, nostra dirimpettaia, ma confesso di aver rimosso gli aspetti più crudi di quella immane tragedia. Ed è per questo che sono grata a questa piccola mostra locale, ricca di fotografie, disegni, cartine e contributi video di quei giorni. Anche se farò fatica a leggermi tutto, più che altro per la quota di dolore contenuta in ogni goccia di sangue versata da innocenti civili, so che lo sforzo della memoria è un esercizio importante per ogni ogni essere umano che voglia sentirsi veramente tale.
Similmente, sto cercando di non rimuovere la ferita provocatami dall'altro evento assai più recente che ha colpito la mia terra natale solo tre anni fa, ieri per la storia, e meno di ieri per la paura che ho provato quando ho realizzato dove fosse l'epicentro che ha fatto tremare (eccome!) anche la casa in cui abito tuttora. 
Non sono mai andata di persona a vedere le tendopoli né le macerie dell'Aquila, ma ieri, guardando le fotografie dei bombardamenti a Sarajevo, non ho potuto fare a meno di collegare i due fatti.
Di quanta violenza è capace l'uomo e quanto può essere forte la risposta della natura ai nostri tentativi di dominarla. 
Davanti all'urgenza della storia, le vite dei singoli non contano più, se non per essere annoverate nel computo di sopravvissuti e vittime. 
Dall'altra parte, ho considerato, le emergenze producono un effetto narcotizzante sulle difficoltà del proprio presente: finché c'è da aiutare chi sta peggio, si riesce a non pensare più (almeno non troppo) ai sogni mai realizzati o alle altre frustrazioni della quotidianità. 
In quegli anni, gli italiani partiti alla volta di Sarajevo sono stati tantissimi, lo stesso è successo all'Aquila tre anni fa. In quei momenti, chi aiuta si sente più vivo, ma bisogna stare attenti a non scambiare l'eccitazione prodotta dal caos cooperante con la normalità. Prima o poi si deve tornare a casa, lasciando sole quelle persone ferite, fisicamente e moralmente. Quanta solitudine si può provare una volta a casa? E quanta ne avranno provata gli aiutati una volta rimasti soli? 
Ho letto che molti bosniaci di nuova generazione, magari molti di quei bambini che hanno disegnato l'assedio e l'esplosione delle bombe di cui ho visto qualche esempio alla mostra, sono andati a vivere all'estero. Non ce l'hanno fatta a restare in una ex città multi-culturale, smembrata insieme con il resto della ex Jugoslavia dalla diplomazia come ultima soluzione per porre fine alla pulizia etnica. 
Qualcosa di simile, temo, faranno anche i futuri adulti aquilani che hanno raffigurato le case crollate nei loro disegni infantili. A distanza di tre anni, il centro storico è ancora pressoché disabitato e gli abitanti che ne sono fuoriusciti ora abitano più o meno tutti in quartieri nuovi senz'anima. Ce la faranno, gli aquilani del futuro a riprendersi la città? Perché sui miei coetanei, purtroppo, ho qualche dubbio.
E tuttavia, forse, proprio l'essere ancora in buona parte in una condizione d'emergenza, potrebbe spingerli all'azione più di quanto non sappiano fare gli italiani di altre parti della Penisola, schiacciata da una crisi epocale, che spero (sinceramente) di poter raccontare ai miei nipoti (lo dico come zia) e ai loro figli come di un periodo lontanissimo, come il Klondike di Paperone.
Speriamo.
E' questa la mia preghiera laica di Pasqua. Una preghiera un po' sotto-tono, ma pronunciata come se fossi un fuocherello che cova sotto la cenere. Per rinfocolarlo, per fortuna, ci vuole poco.
Buone rinascite (incendiate come un'alba sull'Adriatico e un tramonto in Montenegro!), amici. 

martedì 3 aprile 2012

Sensi di colpa e caffè


Squilla il telefono di casa.
Da qualche tempo non è più il trillo querulo del precedente apparecchio, ma una musichetta melodiosa, un po' meno ansiogena.
Come da copione, però, tocca a me rispondere per via dell'ossessione dello Sfaccendato per i seccatori. Evidentemente non è per me, ma sulla lapalissiana constatazione non sembra essere dello stesso avviso il tipo all'altro capo (ma i fili del telefono esistono ancora?). "Il signor XXXX?", sento rispondere al mio "Pronto?". E io, di rimando, con un tono abbastanza sfottente: "Eeeeh, no... Un momento, prego".
Nel passare il cordless allo Sfaccendato, avevo già capito che sarebbe andata a finire nel solito modo.
Perché una persona che non capisce al volo, sentendo la mia voce (un po' meno di testa di quella di Ilaria D'Amico, per intendersi), di aver a che fare con una donna e non con un "signor tal dei tali", tanto sveglio non dev'essere.
Difatti.
"Sì, sono io.... sì, quell'annuncio è mio, ma l'ho messo molto tempo fa... precisamente di che cosa ha bisogno? Sì, capisco, ma non credo che un caffè insieme faccia la differenza... beh, se non mi spiega prima che tipo di figura le serve, le farei solo perdere tempo... Beh, insomma, un'idea ce l'avrà... ah, vabbè, ho capito. Non credo che faccia per me... a provvigioni non lavoro. Arrivederci". Clic.
Se c'è una cosa che manda al manicomio lo Sfaccendato, sono i sedicenti imprenditori che non ti sanno dare neanche uno straccio di delucidazione su quello che vogliono. Non si tratta di sapere per filo e per segno che cosa, eventualmente, si andrebbe a fare per loro, quanto di capire con minore vaghezza in che settore si collochi la mansione prospettata. Insomma: a un aspirante macellaio non si direbbe mai prima prendiamoci un caffè che poi, a sorpresa, ti faccio vedere i quarti di bue che dovrai tagliare.
Perché quando il lavoro è un po' meno materiale l'approccio dovrebbe essere diverso?
Oltretutto, allo Sfaccendato è già capitato di bere qualche caffè con soggetti del genere e di imbarcarsi in progetti naufragati al primissimo scoglio (senza riceverne, ovviamente, neanche il rimborso della benzina), per questo adesso è più che prevenuto. Buttata giù la metaforica cornetta (quant'erano belli i telefoni di una volta con la ghiera da far girare), Sfaccendato mi ha detto, sconsolato: "Cose così non posso raccontarle a nessuno, tanto meno a mia madre che mi direbbe pruaaaaaaa", che sarebbe "prova" nell'imitazione mantovanesca, con annesso starnazzamento delle braccia, che è solito destinarle.
Non ci libereremo mai del senso di colpa familiar-genetico? Forse no. Però bisogna buttarlo fuori, svelarsi almeno un po'. Almeno credo. Se dovessi cambiare idea, chiuderò la rubrica e tornerò a recitare anche su questo spazio. 
Perché scrivo questo? 
Perché mi sto accorgendo che un risata amara, a volte, può spegnere il sorriso più di un pianto. 
Staremo a vedere.
A tutti voi buona Pasqua, anzi, buone rinascite.

lunedì 2 aprile 2012

I have (?) a swedish dream... ma a Sambuceto non ci vado


Non avrei voluto farlo, ma lo scrupolo di coscienza ha spinto anche me a mandare il curriculum per un "posto" alla nascente Ikea di San Giovanni Teatino, a due passi dalla casa dei miei genitori.
Dopo aver compilato il modulo online e aver fissato i miei occhi in quelli del direttore delle risorse umane, non ci avevo più pensato. Fino a qualche giorno fa, quando ho beccato su "La Repubblica" (che non leggevo da secoli) un pezzo di Giuseppe Caporale che raccontava la seguente storia: il tizio (e il suo staff) che sta impazzendo dietro i trentamila curricula ricevuti per ridurli ai 200 circa necessari, quello che ho guardato intensamente per capire, lombrosianamente, se mi potevo fidare, ha scritto una lettere aperta a un non meglio identificato politico locale per domandargli di non fare inutile pressing per piazzare i suoi protetti. Insomma, stop alle raccomandazioni, avrebbe detto il responsabile HR dell'Ikea, faremo una selezione come dio comanda.
E speriamo. Non tanto per me, che sono fuori tempo massimo per fare la magazziniera o la cassiera, ma per l'esile fettina di prescelti privi di sponsor.
Perché, diciamolo, un simile assalto a una catena di mobiletti simil fai-da-te, molto amati dai gggiovani, non sarebbe stato possibile in epoca di vacche grasse.
E infatti, al contrario di quanto ho letto poco fa su un articolo di una web tv abruzzese, dubito analogamente che i candidati siano tutti di primo pelo (io non lo sono di certo, per esempio).
D'altra parte i "vecchietti" si auto-annienteranno da sé, raccomandazioni o non raccomandazioni: sempre che non abbiano mentito compilando il form, per esempio dove ti chiedono quante ore sei disposto a lavorare, comprese, naturalmente, quelle del fine settimana. Io sono stata onesta (ed è per questo che non mi chiameranno mai): dovendo viaggiare, visto che sono anni che non abito più vicino ai miei genitori, dovrò pur vedere mio marito (e i miei gatti) ogni tanto. Anche perché, naturalmente, i posti di cui abbisogna il nordico marchio di scaffalature, sono tutti a tempo determinato. Quindi è piuttosto improbabile che dall'oggi al domani ci si trasferisca tutti a Sambuceto, uno dei posti più brutti al mondo.
Insomma, vedremo. Se mai dovessero contattarmi, lo saprete. Salvo, naturalmente, sperticarmi in lodi e blandizie varie se alla fine mi assumessero per davvero e non come semplice mulettista, bensì come RESPONSABILE (senti che megalomania) dell'intero capannone blu e giallo.
Quant'è bello spararla grossa. Sì, fa sentire molto meglio.