giovedì 21 giugno 2012

Fortuna e amicizia: questi sì che sono bei premi!



FairyRain è una blogger (ma soprattutto una persona) davvero gentile: per la seconda volta ha deciso di assegnare ben due premi a Madamatap e i suoi deliri. Il primo è quello sopra riportato, contrassegnato dalla coccinella porta-fortuna. E di quest'ultima ce n'è molto bisogno, nel mondo non solo virtuale.
Voglio perciò ringraziarla seguendo fedelmente la prima delle tre regole previste per gli insigniti da cotanto onore. Le altre due sono: 2) scrivere tre cibi che si amano particolarmente; 3) elencare dieci blog meritevoli del medesimo premio.

CIBI:
pizza
spaghetti alle vongole
gelato

BLOG
Standing in the Rainbow 
Minime Storie (me la canto e me la suono...)
Tracce e Sentieri
Babysnakes
Tartarugosa
Agorà di Cult
Itaca
Loretta Emiri
Lavoricidi
Coatesa sul Lario



Il premio Liebster, invece, va al blog preferito.
Anche in questo caso bisogna ringraziare chi ce l'ha assegnato (grazie, FairyRain!!), poi copiare e incollare il logo del medesimo (fatto!), avvisare i blog premiati (lo faccio tra poco), infine assegnarlo ad altri cinque blog che hanno meno di 200 iscritti.
Ecco, anch'io su questo fronte non so nulla, per cui mi limito a ri-segnalare alcuni dei blog sopra riportati:

Standing in the Rainbow 


Minime Storie (me la canto e me la suono...)

Tracce e Sentieri


E stop... grazie ancora!

venerdì 15 giugno 2012

Arrivederci a presto, piccionaia


La luce era proprio così, probabilmente stava per piovere un'altra volta. Una primavera più piovosa di questa credo di non averla mai vissuta da quando abito nella "torre", ossia in un appartamento ricavato dalla piccionaia, molto probabilmente. Dopo aver letto La piazza del diamante, peraltro, ho anche capito meglio come fossero fatti i ricoveri casalinghi di questi volatili così prolifici.
E dire che l'attico oggi è uno status symbol. Il nostro, comunque, non lo è, non foss'altro perché non abbiamo neanche un balconcino. No, è una vera e propria piccionaia dalla visuale privilegiata (questo sì) sulle magnifiche colline del fermano. Lo sanno anche le rondini, del resto, che ogni anno tornano a fare il nido sulle grondaie che circondano l'intero perimetro dell'appartamento, facendo un gran fracasso ogni volta che partono e atterrano.
Tutto molto poetico, vero? Diciamo soprattutto che sono una fonte di simpatica distrazione per gli abitanti umani, ma ancora di più per i nostri amati quattrozampe. Nel lavoro che sto loro dedicando, infatti, c'è più di uno scatto che li ritrae intenti a scrutare gli acrobatici voli. E insomma, quassù non ci si annoia, tutto sommato. Però ogni tanto un viaggetto ci vuole, perché altrimenti ci si dimentica che esiste un resto del mondo al di fuori dell'incantevole balcone (metaforico, metaforico) marchigiano.
Sono davvero curiosa di visitare Bibbiena e dintorni, una zona della Toscana a me sconosciuta, benché abbia studiato a Pisa in anni pleistocenici.
E mi domando anche come mi comporterò, se in scioltezza o con quel misto di timidezza e imbarazzo che provo ormai quasi sempre in società. Alle brutte, ci ricaverò il prossimo post.
Ma ora via: è il momento di preparare il piccolo bagaglio e di scegliere il giusto abbinamento di calzature-orecchini-trucco per prepararsi alla recita.
Arrivederci a presto, colline e piccionaia.

mercoledì 13 giugno 2012

Una di Chieti. Per tutta la vita

Fotografie di Demetrio Mancini per il suo libro Liberi da contratto
premiato dal progetto ITAca di Giovanni Marrozzini

Ho appena dato un'occhiata al libro autoprodotto di Demetrio Mancini, il mio amico grafico che condivide con me la passione per la fotografia.
Sono rimasta colpita dalla citazione iniziale, tratta da Thomas Carlyle, che colpevolmente non ho mai letto (diciamolo, non ne so un fico secco): "Felice colui che ha trovato il suo lavoro. Non chieda altra felicità".
Giustissimo. E io, tutto sommato, sono tra i fortunati che il lavoro della propria vita l'ha trovato. Perché non sono particolarmente felice, però?
Beh, chi segue questo blog conosce la risposta, però, a ben guardare, finché avrò un tetto e un po' di denaro da parte, non ho veri motivi per essere triste. E infatti ho scritto non-felice, che è diverso da dire triste. Mi sto incartando? Un po', forse. Però la differenza c'è e ve la mostro.
Qualche sera fa Sfaccendato mi ha detto una frase destinata, credo, a restare negli annali della nostra storia: "Da quando ti conosco non sei cambiata". Non si riferiva tanto al mio aspetto (benché, in cuor mio, femminilmente, spero sempre di mostrare la solita decina d'anni di meno cui ero abituata prima del quarantennale), quanto piuttosto al mio modo di fare. Ai tempi del mio contratto di sostituzione maternità al Sole 24 Ore, in effetti, mi era stato predetto che, prima o poi, sarei stata normalizzata, il che avrebbe implicato l'adozione metaforica (mica tanto) di tailleur grigi e scarpette con tacco, un po' come le hostess dell'Alitalia ai tempi d'oro. L'aneddoto è contenuto anche nel racconto intitolato E dopo, che ho da poco ripubblicato nella sezione ad hoc in alto, a destra della rubrica "Gli Sfaccendati".
Per non ripetermi, dico solo che, alla fine, la previsione non si è avverata ed eccomi qua, a distanza di svariati anni, a dirmi che, tolta la presente incertezza, doveva per forza andare così. E la conferma me l'ha data lo sguardo di mio marito ancora più delle sue parole.
Ieri, poi, a pranzo ha aggiunto una chiosa davvero tranciante: "No, non sei cambiata: sei rimasta una di Chieti". Ho sorriso divertita. In un certo senso è vero. Sono e resterò per tutta la vita una donna del centro-sud, provinciale e quieta (pur se molto polemica e pungente, in certi frangenti). Il che implica la mia totale (e probabilmente durevole) estraneità alla carriera. E stop.
Resta pur sempre il fatto che finché potrò cercherò di arrabattarmi come posso con le mie amate parole, puntando il più possibile sulla qualità e sulla valorizzazione di ciò che ritengo significativo. Per me, innanzitutto, ma anche per le persone che idealmente potrebbero riconoscervisi.
Perché, poi, riesca a passare dalla non-felicità ad almeno una quasi-felicità, beh, qualche soldo in più potrebbe farmi comodo. Ci riuscirò? Chissà. Magari comincio a partecipare ai quiz in tv, come mi consiglia sempre mia madre. In tutti i casi, spero di ricordarmi sempre da dove vengo e chi sono diventata, in maniera che possa ogni volta specchiarmi in qualcuno per cui, nonostante rughe, acciacchi e fallimenti, ho ancora stima.
E' l'unica vera speranza che ho, forse ancora più importante dell'agognata e chimerica felicità.
E voi in cosa sperate?

lunedì 11 giugno 2012

Sui "Lavoricidi" marchigiani e il destino

La copertina di Lavoricidi, del collettivo Zaratan


Leggo e non riesco a credere ai miei occhi, mentre la tipa (m'era venuto fuori un refuso con la o al posto della i. Appropriatissimo) ansima in Je t'aime Moi mon plus. L'Italie è proprio un paese di merde se costringe intere generazioni a studiare senza costrutto.
Ma questo già si sa: ormai se ne parla fin troppo e in modo che più scontato non si può.
Invece in Lavoricidi c'è la vita vera di quindici giovani e non nati e cresciuti nella stessa zona in cui il destino (beffardo? ma no) mi ha portato. Le Marche basse sono atrocemente belle e come tutte le creature troppo desiderate sanno essere davvero crudeli con chi vorrebbe restarci e magari non limitarsi a contemplarne le forme seducenti.
Non l'ho ancora finito e questa non è recensione (ma la scriverò, va scritta, questo è sicuro), tuttavia qualcosa devo dirla e pure con una certa urgenza.
Ho infatti avuto un'illuminazione. Inquietante e raggelante.
Non potrò mai trovare alcunché qui, anche ammettendo che mi metta a cercare un'occupazione alternativa al mio freelancing poco incisivo.
Inconsciamente dovevo averlo già capito ed è ben per questo motivo che il più possibile mi tengo lontana dalle inserzioni. Leggendo il libro del collettivo Zaratan, però, ne ho avuto la certezza assoluta.
Sapete perché? Perché sono vecchia e troppo formata.
La prima caratteristica fa sì che non mi possano proporre neanche uno stage (come scrive la bravissima Diletta Fabiani, una delle autrici dei quindici "Lavoricidi" in salsa marchigiana, va detto alla francese: Serge Gainsbourg sarebbe fiero della mia pronuncia). La seconda spiega invece perché le aziende locali alle quali mi sono proposta come blogger aziendale non abbiano neanche per un minuto preso in considerazione il mio cv.
Perché se a giovani laureati, come tali sono la maggioranza dei protagonisti dei racconti (dell'orrore) raccolti nel doloroso volume, propongono 400-500 euro di paga, quando va bene, per mansioni che ne richiederebbero cinque volte tanto (almeno) e se qualcuno di loro arriva a cancellare dal curriculum di essere in possesso di laurea pur di lavorare come commessa in una grande catena, io dovrei, intanto, farmi un lifting e/o ritoccare l'anno di nascita e in secondo luogo dovrei andare a scuola di dialetto e impararlo bene (benissimo) per farmi accettare come un'indigena.
Non aggiungo altro.
No. Un'ultima cosa debbo dirla.
La creatività aiuta assai a sopportare frustrazioni macrocosmiche come quelle narrate dai miei amici (in spirito) marchigiani. Finora ho letto testi di buona (in qualche caso buonissima) letteratura, quindi, vi prego, finché potete, fate le commesse, i camerieri, i venditori porta a porta, ma continuate a scrivere.
Continuiamo a scrivere.
Un giorno qualcuno di voi (noi?) passerà alla storia.
Direte voi: una magra (magrissima) consolazione per chi non sa più come arrivare a fine mese, ma ognuno ha un suo destino e tutto sommato, a guardarlo da fuori, nessuno di voi ne ha uno banale.
Coraggio.

giovedì 7 giugno 2012

Pratiche di resistenza (disadattata) ai cafonacci

Carlo Verdone in Troppo forte
E fu così che mi alzai dal lettino di legno pesante (quelli di metallo sono arrivati qualche anno più tardi) e andai a dire al bagnino se per cortesia potevano abbassare un po' il juke-box perché non riuscivo a sentire la musica proveniente dalle mie cuffiette. Doveva trattarsi del walkman arancione, plasticato, non di quello dal design più elegante che utilizzavo ancora a inizio 2000. Ero molto giovane e molto polemica, insomma, e quando potevo, cioè quando le giornate non erano troppo calde, scendevo in spiaggia con la maglietta del Manifesto, quella con il neonato che dormiva beato e la scritta "la rivoluzione non russa" stampata sotto l'immagine.
Mi sentivo in lite con il mondo intero? Ma no: solo con i frequentatori del lido El Pareso, Francavilla al Mare, al confine con Pescara, il regno di Gomorra, come ebbe a dire mia sorella non più di tre-quattro anni fa.
Eppure, in un certo senso, quel posto è rassicurante: nonostante sia trascorso poco più di un quarto di secolo dalla prima volta che ci siamo capitati, la mia famiglia d'origine ed io, e benché oggi si sia in preda di una crisi più nera dell'abbronzatura di molti dei suoi avventori, lì sembra che il tempo non sia mai passato. E nemmeno il mio atteggiamento ostile, aggiungerei, e quel perverso (ma sì, è così) masochismo che ci fa tornare tutti là di anno in anno, benché sia chiaro che l'antipatia sia reciproca. Poi, certo, l'ombrellone a pochi metri dal mare, che in certi giorni ha una luce e una chiarezza che sembra di essere ai Caraibi, ci fa dimenticare tutto il resto. Fino al successivo "Vingenzo al bar" gracchiato dall'altoparlante, oppure, più spesso, al nuovo avviso "C'è da sposhtare urgendemende la mercedes parcheggiata in doppia fila", oltre, naturalmente, al silenzio squarciato dall'immancabile juke-box, che da una cert'ora del pomeriggio, negli ultimi anni, perennemente acceso quand'ero adolescente, avvilisce timpani e morale di chi vorrebbe giusto un po' di pace. E però, come dicevo, anche la famiglia Cicalini è preda dei cliché: perché tutte le volte che uno di noi è accolto (bastonato) dal fracasso, si domanda come sia possibile. Com'è che di anno in anno continua a esserci così tanta gente che si affolla nello stretto piazzale antistante la concessione senza tenere in alcun conto delle auto già posteggiate? E com'è che nessuno chiama direttamente il carro-attrezzi anziché ricorrere ai gestori dei due stabilimenti confinanti? E perché il juke-box è sempre a quei decibel da discoteca? E com'è che tutti i bagnanti (TUTTI) canticchiano a memoria le orribili melodie urlate dal dannato aggeggio? Perché siamo gli unici che non si mettono a ballare sul lettino? Le risposte sono molteplici, alcune più sociologiche, altre più freudiane.
Tra quelle del primo tipo, la più lampante e tautologica, direi anzi, "eziologica" è: perché, oltre a essere in Italia, qui siamo neanche a Francavilla, bensì direttamente nel regno dei cafoni.
Questi ultimi una volta li chiamavamo i rozzi, con la bella o aperta, alla chietina maniera. Mi piaceva in particolare come pronunciava la parola il nostro amico Marco M., con la sua voce fortemente nasale. In seguito, abbiamo preso a definirli cafonacci, istruiti in ciò da mio padre, che ha la seguente teoria: cafonaccio si diventa, ma già da bambini si è cafoncini, poi crescendo ci si trasforma in cafoni, infine invecchiando si acquisisce lo status definitivo.
E dire che appena sbarcata a El Paraculo, come l'aveva ribattezzato sempre il nostro amico Marco M. (un freddurista davvero unico), avevo anche provato a fare amicizia con i cafoncini-cafoni. Sì, perché ai tempi era una graziosa quattordicenne, facile preda dell'occhiale da sole a specchio a caccia.
E qui si entra nel regno delle spiegazioni psicologiche al nostro perdurante ritornare a Gomorra. Per darvene la sintesi più efficace, ricorro nuovamente a mia sorella e al bisogno familiare di scegliere le soluzioni più "scrause" per sentirci più vicini al popolo. Al popolino. Perché chi ci crediamo di essere, noi piccolo-borghesi di una cittadina del centro-sud, per disprezzare chi sta più in basso di noi? Starne a contatto, anzi, ci dà la misura della nostra superiorità e la conferma che mai, MAI, potremo scendere a quel livello.
Eppure. Eppure bisogna stare attenti. E secondo me io l'ho scampata bella, ma un po' ho rischiato, e precisamente proprio l'anno in cui siamo arrivati là.
Ma mi sono ripresa in fretta, favorita anche da mia sorella, ben più avanti nel processo di de-scrausamento. Grazie a lei, infatti, già alle medie avevo appreso che la giacca di jeans senza maniche che a me tanto piaceva, era un chiaro simbolo di rozzezza o rozzeria (un'altra parola molto in voga ai tempi), e che mai, MAI, avrei dovuto indossarne una. Il liceo classico ha fatto il resto: nel giro di un inverno mi sono trasformata in una disadattata, anche se per la presa di coscienza definitiva della mia attuale condizione ho impiegato tutti gli anni intercorsi da allora.
All'inizio del processo, dunque, ero troppo apertamente ostile, il che mi permise, sì, di tenere a debita distanza il grosso degli habituè balneari, però in cambio finii per condannarmi a una sorda e annoiata solitudine nelle giornate più belle dell'anno e della vita, tutto sommato.
Ogni tanto, certo, era possibile riderne insieme, come quella volta che, di ritorno dalla spiaggia, mi sentii apostrofata da un gruppo di operai in pausa pranzo, nel ristorante sull'angolo della stradina che mi avrebbe ricondotta a casa. "Valendino, valendino, valendino", ebbe a pronunciare una voce da baritono e di una lentezza messicana, mentre passavo con la mia maglia a metà coscia (le mie odiate cosce) a pochi metri da loro.
Con mia madre e mia sorella ci ridemmo su e ancora oggi, quando rivanghiamo l'episodio, ci affiora una risata. E però, continuo a non capire. A non capire perché in tutti questi anni non abbiamo cambiato stabilimento. Sarebbero bastati pochi metri. Perché pure alla Siesta, dove di certo non c'è un circolo di intellettuali, però si sta meglio, se non altro perché il juke-box non è mai così alto.
Forse, però, una ragione c'era. Eccola l'illuminazione. Perché potessi finalmente scriverne, a futura memoria. Mia e della mia famiglia, i miei veri fan. Gli unici, forse, per cui accetto giusto un pizzico di scrausamento pur di passare un po' di tempo con loro.
Però, cari genitori, ve lo dico da adesso: per quanto mi riguarda, mai più a pranzo al Paraculo. Citando un anziano ex bagnante di origine foggiana, trasmigrato allo stabilimento fighetto poco più a sud dopo aver subito una grave offesa dai cafonacci gestori, pure io "indietro non torno".

mercoledì 6 giugno 2012

Coming out



E no, che avete capito?
Almeno fino a prova contraria, non ho cambiato preferenze talamiche. E' solo che ho deciso di non nascondermi più, almeno non del tutto. Perché, come sostiene giustamente mia madre, è pur vero che le parole mascherano, assai più di quanto possa sembrare persino a me stessa.
In ogni caso, credo che sia giusto metterci almeno il nome (per la faccia, beh, accontentatevi del disegnaccio nuovo scelto come intestazione e della fotografia di me treenne) soprattutto perché ogni tanto parlerò di cose serie. Perché il non-lavoro, pur se affrontato con scioltezza non pedante, è pur sempre faccenda che fa rabbrividire. In alcuni casi, a dire il vero, fa proprio morire e anche se non ho intenzione di unirmi alle giaculatorie neomelodiche sullo Stato assente e il governo ladro, è pur vero che bisogna avere rispetto di chi soffre per i continui respingimenti oltre i confini delle assunzioni. Un problema che, come ho già avuto modo di dire nel primo post della rubrica "Gli Sfaccendati", non riguarda solo i giovani e i giovanissimi, ma ahimè anche molti quarantenni e cinquantenni. Di qui la mia decisione di non parlare solo dei coniugi Sfaccendati per eccellenza, bensì anche degli altri.
Nelle storie di cui verrò a conoscenza userò naturalmente sempre il mio tipico tono di leggera ironia (beh, certe volte scivolo nel sarcasmo, lo riconosco) verso un Paese tanto bello quanto fragile, in tutti i sensi.
Però di ogni parola che scriverò mi prenderò tutta la responsabilità, per rispetto verso il mestiere che malamente - e raramente - ancora esercito e soprattutto per un senso civico radicato come una quercia secolare. Su quest'ultimo aspetto, peraltro, non ho alcun merito particolare, dal momento che mi è stato insufflato nel sangue direttamente alla nascita. E se non ci credete, beh, provate a seguirmi e ve ne accorgerete.
Alla prossima.

lunedì 4 giugno 2012

Sfaccendati di tutto il mondo (?), uniamoci

Niente da fare? Quasi quasi mi faccio uno shampoo
Uno passa l'infanzia a sognare di diventare grande, immaginando di trasformarsi un domani in un giocatore di basket o in un macchinista di treni (ho in mente due persone precise che hanno espresso questi propositi giusto ieri) e poi si ritrova a dover elemosinare un lavoretto qualsiasi, più per sentirsi occupati che per l'aspettativa di una possibile remunerazione.
Meglio non aggiungere altre parole onde evitare accuse di sterili piagnistei.
Leggiucchiando poco fa "Il faro" di mio cognato Massimo, però, m'è caduto l'occhio sulla storia di una sua amica che ha subito un ingiusto licenziamento, ma che poi, al dunque, ha preferito tirarsi indietro di fronte alla prospettiva di una causa, di certo lunga (questo è sicuro) e chissà se fruttuosa.
Perché il problema di chi ha contratti instabili (e basta con la parola precario, peggio che mai se declinato con la K) o inesistenti è ottenere adeguato risarcimento per eventuali ingiustizie subite.
Se per esempio, come temo, la mia unica (piccola) fonte di reddito dovesse venir meno con l'esaurirsi dell'attuale mese, con chi potrei prendermela? Proprio con nessuno, non avendo alcun contratto (Kontratto?) né lettera d'incarico. Né, d'altronde, la ragazzina che ha preso il mio posto (ignoro a quale compenso e con quante altre mansioni aggiunte) nella gestione del prodotto editoriale elettronico in bilico può fare molto davanti alla parola magica "crisi" (quante potenziali K fungibili con la C), probabile causa del mancato rinnovo del suo rapporto a termine, in corso ormai almeno da un paio d'anni, dopo un periodo da stagista neolaureata, un privilegio, ormai, per una grossa quantità di giovanissimi e giovani come lei.
Ed è ben per questo che lo scorso inverno non ho disdegnato di fare la custode (... K?) per una mostra né mi sembrerà degradante tra qualche settimana occuparmi di schede elettorali per due giorni e mezzo.
Insomma: gli Sfaccendati si arrangiano come possono.
C'è tuttavia un però inaccettabile: nessuno, sottolineo, NESSUNO, si può permettere di mancarci di rispetto, facendoci sentire peggio che paria.
Se mi sono proposta di scattare foto per un giornaletto locale di nessun pregio, per esempio, non vuol dire che non merito neanche un "no, grazie" via email. Se poi lo stesso direttore del cosiddetto mensile prende a pretesto un refuso - coperto da un'orrida pecetta - lasciato dalla grafica su un redazionale (inutilmente lecchino) per non pagarle diversi mesi di lavoro, beh, no, in quei casi qualcosa bisogna fare.
E se proprio non gli si vuole fare causa per paura che la spesa non valga l'impresa, una rappresaglia alternativa (taglio gomme auto? imbrattamento dei pacchi dei giornali scovati negli androni dei palazzi?) non ci starebbe male.
In definitiva, ho preso una decisione per la presente rubrica: visto che a essere Sfaccendati siamo tanti (ma tanti tanti), ogni volta che potrò allargherò il resoconto delle giornate di lavoro in ribasso e creatività in rialzo (un prezioso antidoto per non soccombere alla depressione) a tutti gli altri non-lavoranti o lavoricchianti con cui avrò modo di entrare in contatto.
Perché finché avrò voglia e tempo di scrivere, insomma, non mi resta che scrivere.
Per me (di certo) e per interposta persona.
E a chi tornerà da queste parti, grazie del vostro sostegno.