lunedì 25 giugno 2012

Il lavoro langue, la scrittura no: intervista ai “Lavoricidi” marchigiani


Lì per lì non ci fai caso, ma da un certo punto di Lavoricidi in poi diventa chiaro: tra i quindici racconti contenuti nel libro edito da ComunicationProject c'è un filo conduttore. In carne e ossa, anche se, molto probabilmente, sotto pseudonimo. Si tratta nientepopodimeno che di Alfonso (o Lucio o Filippo o quel che è) Maria Marzi, il raccomandato figlio di papà per antonomasia che riesce a piazzarsi sempre, e bene, al posto di almeno uno dei personaggi raffigurati lungo le circa 170 pagine che compongono il volume scritto dallo ZaratanClan, un collettivo di autori marchigiani genericamente giovani. Alcuni di loro, in effetti, si possono definire tali anche ai fini fiscali. Altri, invece, lo sono di certo nella passione che ci mettono nel narrare le assurdità di un mercato del lavoro che li risbatte ai margini senza tanti perché e neanche un grazie e nell'orgoglio con il quale si scuotono di dosso la patente di sfigato o, peggio, di bamboccione, usando armi possibili solo a gente dotata di cervello e istruzione (più che qualificata): l'ironia.
A loro ho già dedicato un post a metà lettura, in preda a una crisi di empatia (e di nervi) per ogni singola parola trapassatami sotto la pelle fino a quel momento. Come mi ero ripromessa già allora, però, Lavoricidi meritava qualcosa di più che il semplice commento accorato di una malcapitata giornalista freelance con la luna storta. Ed è così che li ho contattati e li ho intervistati. Le risposte sono tutte di Jonathan Arpetti, uno dei curatori dell'intero progetto. Fa eccezione la risposta sulla scuola, che è invece di Laura Crucianelli, brillante insegnante precaria, che è riuscita a dare un nome (anzi: più d'uno, con tanto di maiuscola iniziale) all'ansia... buona lettura.

Dopo gli affetti (traballanti), il lavoro (in grosso affanno): chi di voi ha avuto l'idea del secondo romanzo collettivo?
Francesca Riccioni, curatrice di Lavoricidi con me e Paolo Nanni, fondatori dello ZaratanClan. Insieme, abbiamo portato avanti il progetto, curando ogni aspetto, dalla scelta degli spunti veri da rendere narrativa, al montaggio dei brani, fino ai crossover, ossia i personaggi legati a più storie.

Ecco perché Alfonso Maria Marzi ricorre più volte insieme con altri elementi come l'assurda notizia di cronaca del suicida disoccupato vestito da ufficiale nazista... come avete fatto però a dividervi i temi, visto che i racconti non sono tutti autobiografici?
Dal punto di vista pratico, la formula più usata è stata interagire attraverso social network e skype. Ogni autore ha messo sul piatto diverse proposte, che sono poi state selezionate e catalogate. Alcuni, vivendoli, hanno scritto dei propri disagi; per il resto, noi curatori abbiamo dato la massima libertà di scelta tra tutto il materiale pervenuto.

Come sta andando la promozione? So che siete stati al Salone del Libro di Torino: che impatto ha avuto il vostro libro su un pubblico non marchigiano?
La promozione sta andando direi in modo spedito: ognuno dei quindici autori agisce sul proprio territorio di residenza organizzando eventi e presentazioni, mentre per quanto riguarda la condivisione on line abbiamo creato un sito/blog, poi una pagina facebook che quotidianamente aggiorniamo con foto, post sull’argomento lavoro e non solo, e recensioni. Per quanto riguarda la presentazione al salone del libro di Torino, siamo stati ospiti nello stand della regione Marche e il pubblico, non solo marchigiano, ha risposto molto bene.

Quindi anche qui nelle Marche state suscitando qualche reazione?
Sì: molti giornalisti e blogger ci contattano per interviste e recensioni, dal momento che il tema che abbiamo affrontato, nel contesto attuale di profonda crisi economica in cui viviamo, si presta per approfondimenti e riflessioni.

Tu personalmente avevi partecipato anche al primo progetto di romanzo collettivo?
Sì, sempre con Paolo Nanni ho ideato e curato Affetti collaterali, uscito per la Pendragon quasi in contemporanea a Lavoricidi.

La qualità della scrittura è alta: qualcuno di voi si è occupato dell'editing?
In prima battuta ce ne siamo occupati io e Paolo, poi il testo è stato revisionato totalmente da Marta Tadolti, bravissima editor e redattrice della Comunication Project che ha pubblicato il volume.

Quanto vi è costato parlare del disastro sociale e psicologico che stanno vivendo due intere generazioni? Nel tuo racconto concludi che non vorrai mai più essere disturbato per cose simili. Immagino sia una provocazione, però non avresti tutti i torti...
Diciamo che ci è venuto abbastanza naturale. Con questo romanzo abbiamo cercato di dar voce a chi sta invischiato davvero in questo disastro sociale, ma non abbiamo voluto farne un testo di denuncia politica, o un saggio sulle problematiche del lavoro, bensì abbiamo voluto condividere delle storie vere (rese narrativa) nella speranza di scatenare dibattiti costruttivi.
Quello che scrivo nel mio racconto è naturalmente una provocazione… per cercare in qualche modo di sdrammatizzare. Se ci sarà di nuovo l’occasione, non mi tirerò certo indietro.

Buono a sapersi... Ho trovato particolarmente brillanti i racconti sulla scuola: a mio avviso, valgono molto di più di qualsiasi inchiesta giornalistica sul precariato che affligge (in verità non da adesso: in questo caso la crisi c'entra poco) schiere di insegnanti. Secondo voi, perché i media (nella maggior parte dei casi) non sanno fare altrettanto? Voglio dire: perché di solito, soprattutto in tv ma non solo, vanno per la maggiore solo i casi umani?
(risposta di Laura Crucianelli) In realtà un po' "caso umano" mi ci sono sempre sentita, salvo poi, con l'arrivo della crisi, scoprirmi all'improvviso la più fortunata tra i precari perché almeno, dipendendo dallo Stato, seppur a corrente alternata, ho più garanzie di chi lavora nel privato. La tv cerca di ricreare, secondo me, un certo grado di immedesimazione attraverso le lacrime. Io penso sia più produttivo, anche se più faticoso, usare l'arma dell'ironia e a volte del sarcasmo. Perché toccano non la pancia, che subito si affama di altri "dolori", ma la testa. Che eventualmente torna sopra alla questione, si pone domande, cerca, per quel che può, soluzioni.

Purtroppo non sono dotata di smartphone, quindi non ho potuto apprezzare anche i video: a chi è venuta l'idea multimediale? L'ho trovata davvero intelligente e molto contemporanea.
L’idea del QRcode è di Carmelita Tesone, anche lei membro dello ZaratanClan e autrice di un brano sia in Lavoricidi che in Affetti collaterali. In un romanzo, crediamo sia un’idea originale e i molti consensi a riguardo, ci stanno dando ragione.

Per una non-marchigiana come me che vive qui dal 2005 non è stato molto consolante rendersi conto una volta di più quanto si stia avvicinando la prossima emigrazione in Germania... il vostro lavoro è un esempio positivo del contrario: quanta forza state traendo l'uno dall'altro per restare nella vostra terra?
Per quanto mi riguarda non ho mai messo in cantiere un trasferimento in Germania e credo neanche i miei colleghi di scrittura. Vogliamo restare nella nostra terra e viverla nel miglior modo possibile. Quest’esperienza è stata utile, prima di tutto, per conoscerci e condividere le nostre esperienze… e poi se è vero che l’unione fa la forza…

Già: se il detto è vero, come spesso accade con le perle di saggezza popolare, resterò qui aspettando che “passi la nottata”. Perché dovrà passare, prima o poi.
Grazie allo Zaratan Clan e buona fortuna. A voi, a me e all'Italia intera.  

venerdì 22 giugno 2012

Contro il rammollimento W Zygmunt Bauman


Difficile non smarrire la motivazione, con questo caldo, poi.
Per fortuna ho giornate piene, anche di idee. Poi domenica dovrei mostrare a Daniele e Demetrio il mio lavoro su Nino e Bice, di cui lo scatto scartato sopra è una traccia.
Sto diventando una maga nel lavoro gratuito e volontaristico. E d'altra parte non vedo che cos'altro potrei fare, a parte scendere in spiaggia e andare a nuotare.
Come invidio i nostri gatti, anche se l'afa ha rammollito anche loro un pochino.
A proposito di rammollimento, sarà il caso che mi alzi da questa postazione e vada a fare qualcosa di pratico, tipo buttare la spazzatura, comprarmi il giornale e il thè verde. Poi stiro i vestitini che avevo a Bibbiena, gli stessi che probabilmente sfoggerò per la prossima recita sociale.
Però che bello ascoltare il pianoforte a coda, ieri sera, e cogliere nel mio obiettivo gli sguardi concentrati delle musiciste. In quei momenti, non m'importa di nulla, ma solo di scattare al momento giusto.
E' proprio così che bisognerebbe vivere: in un eterno (anche se illusorio: quanto m'è piaciuta l'intervista a Zygmunt Bauman sul Venerdì della scorsa settimana) presente pieno di significato.
Nonostante tutto, non dispero, perché ho l'impressione di aver fatto qualche progresso, almeno nella maggiore capacità di evitare molestie e inutili contrattempi. Speriamo bene, va.

giovedì 21 giugno 2012

Fortuna e amicizia: questi sì che sono bei premi!



FairyRain è una blogger (ma soprattutto una persona) davvero gentile: per la seconda volta ha deciso di assegnare ben due premi a Madamatap e i suoi deliri. Il primo è quello sopra riportato, contrassegnato dalla coccinella porta-fortuna. E di quest'ultima ce n'è molto bisogno, nel mondo non solo virtuale.
Voglio perciò ringraziarla seguendo fedelmente la prima delle tre regole previste per gli insigniti da cotanto onore. Le altre due sono: 2) scrivere tre cibi che si amano particolarmente; 3) elencare dieci blog meritevoli del medesimo premio.

CIBI:
pizza
spaghetti alle vongole
gelato

BLOG
Standing in the Rainbow 
Minime Storie (me la canto e me la suono...)
Tracce e Sentieri
Babysnakes
Tartarugosa
Agorà di Cult
Itaca
Loretta Emiri
Lavoricidi
Coatesa sul Lario



Il premio Liebster, invece, va al blog preferito.
Anche in questo caso bisogna ringraziare chi ce l'ha assegnato (grazie, FairyRain!!), poi copiare e incollare il logo del medesimo (fatto!), avvisare i blog premiati (lo faccio tra poco), infine assegnarlo ad altri cinque blog che hanno meno di 200 iscritti.
Ecco, anch'io su questo fronte non so nulla, per cui mi limito a ri-segnalare alcuni dei blog sopra riportati:

Standing in the Rainbow 


Minime Storie (me la canto e me la suono...)

Tracce e Sentieri


E stop... grazie ancora!

venerdì 15 giugno 2012

Arrivederci a presto, piccionaia


La luce era proprio così, probabilmente stava per piovere un'altra volta. Una primavera più piovosa di questa credo di non averla mai vissuta da quando abito nella "torre", ossia in un appartamento ricavato dalla piccionaia, molto probabilmente. Dopo aver letto La piazza del diamante, peraltro, ho anche capito meglio come fossero fatti i ricoveri casalinghi di questi volatili così prolifici.
E dire che l'attico oggi è uno status symbol. Il nostro, comunque, non lo è, non foss'altro perché non abbiamo neanche un balconcino. No, è una vera e propria piccionaia dalla visuale privilegiata (questo sì) sulle magnifiche colline del fermano. Lo sanno anche le rondini, del resto, che ogni anno tornano a fare il nido sulle grondaie che circondano l'intero perimetro dell'appartamento, facendo un gran fracasso ogni volta che partono e atterrano.
Tutto molto poetico, vero? Diciamo soprattutto che sono una fonte di simpatica distrazione per gli abitanti umani, ma ancora di più per i nostri amati quattrozampe. Nel lavoro che sto loro dedicando, infatti, c'è più di uno scatto che li ritrae intenti a scrutare gli acrobatici voli. E insomma, quassù non ci si annoia, tutto sommato. Però ogni tanto un viaggetto ci vuole, perché altrimenti ci si dimentica che esiste un resto del mondo al di fuori dell'incantevole balcone (metaforico, metaforico) marchigiano.
Sono davvero curiosa di visitare Bibbiena e dintorni, una zona della Toscana a me sconosciuta, benché abbia studiato a Pisa in anni pleistocenici.
E mi domando anche come mi comporterò, se in scioltezza o con quel misto di timidezza e imbarazzo che provo ormai quasi sempre in società. Alle brutte, ci ricaverò il prossimo post.
Ma ora via: è il momento di preparare il piccolo bagaglio e di scegliere il giusto abbinamento di calzature-orecchini-trucco per prepararsi alla recita.
Arrivederci a presto, colline e piccionaia.

mercoledì 13 giugno 2012

Una di Chieti. Per tutta la vita

Fotografie di Demetrio Mancini per il suo libro Liberi da contratto
premiato dal progetto ITAca di Giovanni Marrozzini

Ho appena dato un'occhiata al libro autoprodotto di Demetrio Mancini, il mio amico grafico che condivide con me la passione per la fotografia.
Sono rimasta colpita dalla citazione iniziale, tratta da Thomas Carlyle, che colpevolmente non ho mai letto (diciamolo, non ne so un fico secco): "Felice colui che ha trovato il suo lavoro. Non chieda altra felicità".
Giustissimo. E io, tutto sommato, sono tra i fortunati che il lavoro della propria vita l'ha trovato. Perché non sono particolarmente felice, però?
Beh, chi segue questo blog conosce la risposta, però, a ben guardare, finché avrò un tetto e un po' di denaro da parte, non ho veri motivi per essere triste. E infatti ho scritto non-felice, che è diverso da dire triste. Mi sto incartando? Un po', forse. Però la differenza c'è e ve la mostro.
Qualche sera fa Sfaccendato mi ha detto una frase destinata, credo, a restare negli annali della nostra storia: "Da quando ti conosco non sei cambiata". Non si riferiva tanto al mio aspetto (benché, in cuor mio, femminilmente, spero sempre di mostrare la solita decina d'anni di meno cui ero abituata prima del quarantennale), quanto piuttosto al mio modo di fare. Ai tempi del mio contratto di sostituzione maternità al Sole 24 Ore, in effetti, mi era stato predetto che, prima o poi, sarei stata normalizzata, il che avrebbe implicato l'adozione metaforica (mica tanto) di tailleur grigi e scarpette con tacco, un po' come le hostess dell'Alitalia ai tempi d'oro. L'aneddoto è contenuto anche nel racconto intitolato E dopo, che ho da poco ripubblicato nella sezione ad hoc in alto, a destra della rubrica "Gli Sfaccendati".
Per non ripetermi, dico solo che, alla fine, la previsione non si è avverata ed eccomi qua, a distanza di svariati anni, a dirmi che, tolta la presente incertezza, doveva per forza andare così. E la conferma me l'ha data lo sguardo di mio marito ancora più delle sue parole.
Ieri, poi, a pranzo ha aggiunto una chiosa davvero tranciante: "No, non sei cambiata: sei rimasta una di Chieti". Ho sorriso divertita. In un certo senso è vero. Sono e resterò per tutta la vita una donna del centro-sud, provinciale e quieta (pur se molto polemica e pungente, in certi frangenti). Il che implica la mia totale (e probabilmente durevole) estraneità alla carriera. E stop.
Resta pur sempre il fatto che finché potrò cercherò di arrabattarmi come posso con le mie amate parole, puntando il più possibile sulla qualità e sulla valorizzazione di ciò che ritengo significativo. Per me, innanzitutto, ma anche per le persone che idealmente potrebbero riconoscervisi.
Perché, poi, riesca a passare dalla non-felicità ad almeno una quasi-felicità, beh, qualche soldo in più potrebbe farmi comodo. Ci riuscirò? Chissà. Magari comincio a partecipare ai quiz in tv, come mi consiglia sempre mia madre. In tutti i casi, spero di ricordarmi sempre da dove vengo e chi sono diventata, in maniera che possa ogni volta specchiarmi in qualcuno per cui, nonostante rughe, acciacchi e fallimenti, ho ancora stima.
E' l'unica vera speranza che ho, forse ancora più importante dell'agognata e chimerica felicità.
E voi in cosa sperate?

lunedì 11 giugno 2012

Sui "Lavoricidi" marchigiani e il destino

La copertina di Lavoricidi, del collettivo Zaratan


Leggo e non riesco a credere ai miei occhi, mentre la tipa (m'era venuto fuori un refuso con la o al posto della i. Appropriatissimo) ansima in Je t'aime Moi mon plus. L'Italie è proprio un paese di merde se costringe intere generazioni a studiare senza costrutto.
Ma questo già si sa: ormai se ne parla fin troppo e in modo che più scontato non si può.
Invece in Lavoricidi c'è la vita vera di quindici giovani e non nati e cresciuti nella stessa zona in cui il destino (beffardo? ma no) mi ha portato. Le Marche basse sono atrocemente belle e come tutte le creature troppo desiderate sanno essere davvero crudeli con chi vorrebbe restarci e magari non limitarsi a contemplarne le forme seducenti.
Non l'ho ancora finito e questa non è recensione (ma la scriverò, va scritta, questo è sicuro), tuttavia qualcosa devo dirla e pure con una certa urgenza.
Ho infatti avuto un'illuminazione. Inquietante e raggelante.
Non potrò mai trovare alcunché qui, anche ammettendo che mi metta a cercare un'occupazione alternativa al mio freelancing poco incisivo.
Inconsciamente dovevo averlo già capito ed è ben per questo motivo che il più possibile mi tengo lontana dalle inserzioni. Leggendo il libro del collettivo Zaratan, però, ne ho avuto la certezza assoluta.
Sapete perché? Perché sono vecchia e troppo formata.
La prima caratteristica fa sì che non mi possano proporre neanche uno stage (come scrive la bravissima Diletta Fabiani, una delle autrici dei quindici "Lavoricidi" in salsa marchigiana, va detto alla francese: Serge Gainsbourg sarebbe fiero della mia pronuncia). La seconda spiega invece perché le aziende locali alle quali mi sono proposta come blogger aziendale non abbiano neanche per un minuto preso in considerazione il mio cv.
Perché se a giovani laureati, come tali sono la maggioranza dei protagonisti dei racconti (dell'orrore) raccolti nel doloroso volume, propongono 400-500 euro di paga, quando va bene, per mansioni che ne richiederebbero cinque volte tanto (almeno) e se qualcuno di loro arriva a cancellare dal curriculum di essere in possesso di laurea pur di lavorare come commessa in una grande catena, io dovrei, intanto, farmi un lifting e/o ritoccare l'anno di nascita e in secondo luogo dovrei andare a scuola di dialetto e impararlo bene (benissimo) per farmi accettare come un'indigena.
Non aggiungo altro.
No. Un'ultima cosa debbo dirla.
La creatività aiuta assai a sopportare frustrazioni macrocosmiche come quelle narrate dai miei amici (in spirito) marchigiani. Finora ho letto testi di buona (in qualche caso buonissima) letteratura, quindi, vi prego, finché potete, fate le commesse, i camerieri, i venditori porta a porta, ma continuate a scrivere.
Continuiamo a scrivere.
Un giorno qualcuno di voi (noi?) passerà alla storia.
Direte voi: una magra (magrissima) consolazione per chi non sa più come arrivare a fine mese, ma ognuno ha un suo destino e tutto sommato, a guardarlo da fuori, nessuno di voi ne ha uno banale.
Coraggio.

giovedì 7 giugno 2012

Pratiche di resistenza (disadattata) ai cafonacci

Carlo Verdone in Troppo forte
E fu così che mi alzai dal lettino di legno pesante (quelli di metallo sono arrivati qualche anno più tardi) e andai a dire al bagnino se per cortesia potevano abbassare un po' il juke-box perché non riuscivo a sentire la musica proveniente dalle mie cuffiette. Doveva trattarsi del walkman arancione, plasticato, non di quello dal design più elegante che utilizzavo ancora a inizio 2000. Ero molto giovane e molto polemica, insomma, e quando potevo, cioè quando le giornate non erano troppo calde, scendevo in spiaggia con la maglietta del Manifesto, quella con il neonato che dormiva beato e la scritta "la rivoluzione non russa" stampata sotto l'immagine.
Mi sentivo in lite con il mondo intero? Ma no: solo con i frequentatori del lido El Pareso, Francavilla al Mare, al confine con Pescara, il regno di Gomorra, come ebbe a dire mia sorella non più di tre-quattro anni fa.
Eppure, in un certo senso, quel posto è rassicurante: nonostante sia trascorso poco più di un quarto di secolo dalla prima volta che ci siamo capitati, la mia famiglia d'origine ed io, e benché oggi si sia in preda di una crisi più nera dell'abbronzatura di molti dei suoi avventori, lì sembra che il tempo non sia mai passato. E nemmeno il mio atteggiamento ostile, aggiungerei, e quel perverso (ma sì, è così) masochismo che ci fa tornare tutti là di anno in anno, benché sia chiaro che l'antipatia sia reciproca. Poi, certo, l'ombrellone a pochi metri dal mare, che in certi giorni ha una luce e una chiarezza che sembra di essere ai Caraibi, ci fa dimenticare tutto il resto. Fino al successivo "Vingenzo al bar" gracchiato dall'altoparlante, oppure, più spesso, al nuovo avviso "C'è da sposhtare urgendemende la mercedes parcheggiata in doppia fila", oltre, naturalmente, al silenzio squarciato dall'immancabile juke-box, che da una cert'ora del pomeriggio, negli ultimi anni, perennemente acceso quand'ero adolescente, avvilisce timpani e morale di chi vorrebbe giusto un po' di pace. E però, come dicevo, anche la famiglia Cicalini è preda dei cliché: perché tutte le volte che uno di noi è accolto (bastonato) dal fracasso, si domanda come sia possibile. Com'è che di anno in anno continua a esserci così tanta gente che si affolla nello stretto piazzale antistante la concessione senza tenere in alcun conto delle auto già posteggiate? E com'è che nessuno chiama direttamente il carro-attrezzi anziché ricorrere ai gestori dei due stabilimenti confinanti? E perché il juke-box è sempre a quei decibel da discoteca? E com'è che tutti i bagnanti (TUTTI) canticchiano a memoria le orribili melodie urlate dal dannato aggeggio? Perché siamo gli unici che non si mettono a ballare sul lettino? Le risposte sono molteplici, alcune più sociologiche, altre più freudiane.
Tra quelle del primo tipo, la più lampante e tautologica, direi anzi, "eziologica" è: perché, oltre a essere in Italia, qui siamo neanche a Francavilla, bensì direttamente nel regno dei cafoni.
Questi ultimi una volta li chiamavamo i rozzi, con la bella o aperta, alla chietina maniera. Mi piaceva in particolare come pronunciava la parola il nostro amico Marco M., con la sua voce fortemente nasale. In seguito, abbiamo preso a definirli cafonacci, istruiti in ciò da mio padre, che ha la seguente teoria: cafonaccio si diventa, ma già da bambini si è cafoncini, poi crescendo ci si trasforma in cafoni, infine invecchiando si acquisisce lo status definitivo.
E dire che appena sbarcata a El Paraculo, come l'aveva ribattezzato sempre il nostro amico Marco M. (un freddurista davvero unico), avevo anche provato a fare amicizia con i cafoncini-cafoni. Sì, perché ai tempi era una graziosa quattordicenne, facile preda dell'occhiale da sole a specchio a caccia.
E qui si entra nel regno delle spiegazioni psicologiche al nostro perdurante ritornare a Gomorra. Per darvene la sintesi più efficace, ricorro nuovamente a mia sorella e al bisogno familiare di scegliere le soluzioni più "scrause" per sentirci più vicini al popolo. Al popolino. Perché chi ci crediamo di essere, noi piccolo-borghesi di una cittadina del centro-sud, per disprezzare chi sta più in basso di noi? Starne a contatto, anzi, ci dà la misura della nostra superiorità e la conferma che mai, MAI, potremo scendere a quel livello.
Eppure. Eppure bisogna stare attenti. E secondo me io l'ho scampata bella, ma un po' ho rischiato, e precisamente proprio l'anno in cui siamo arrivati là.
Ma mi sono ripresa in fretta, favorita anche da mia sorella, ben più avanti nel processo di de-scrausamento. Grazie a lei, infatti, già alle medie avevo appreso che la giacca di jeans senza maniche che a me tanto piaceva, era un chiaro simbolo di rozzezza o rozzeria (un'altra parola molto in voga ai tempi), e che mai, MAI, avrei dovuto indossarne una. Il liceo classico ha fatto il resto: nel giro di un inverno mi sono trasformata in una disadattata, anche se per la presa di coscienza definitiva della mia attuale condizione ho impiegato tutti gli anni intercorsi da allora.
All'inizio del processo, dunque, ero troppo apertamente ostile, il che mi permise, sì, di tenere a debita distanza il grosso degli habituè balneari, però in cambio finii per condannarmi a una sorda e annoiata solitudine nelle giornate più belle dell'anno e della vita, tutto sommato.
Ogni tanto, certo, era possibile riderne insieme, come quella volta che, di ritorno dalla spiaggia, mi sentii apostrofata da un gruppo di operai in pausa pranzo, nel ristorante sull'angolo della stradina che mi avrebbe ricondotta a casa. "Valendino, valendino, valendino", ebbe a pronunciare una voce da baritono e di una lentezza messicana, mentre passavo con la mia maglia a metà coscia (le mie odiate cosce) a pochi metri da loro.
Con mia madre e mia sorella ci ridemmo su e ancora oggi, quando rivanghiamo l'episodio, ci affiora una risata. E però, continuo a non capire. A non capire perché in tutti questi anni non abbiamo cambiato stabilimento. Sarebbero bastati pochi metri. Perché pure alla Siesta, dove di certo non c'è un circolo di intellettuali, però si sta meglio, se non altro perché il juke-box non è mai così alto.
Forse, però, una ragione c'era. Eccola l'illuminazione. Perché potessi finalmente scriverne, a futura memoria. Mia e della mia famiglia, i miei veri fan. Gli unici, forse, per cui accetto giusto un pizzico di scrausamento pur di passare un po' di tempo con loro.
Però, cari genitori, ve lo dico da adesso: per quanto mi riguarda, mai più a pranzo al Paraculo. Citando un anziano ex bagnante di origine foggiana, trasmigrato allo stabilimento fighetto poco più a sud dopo aver subito una grave offesa dai cafonacci gestori, pure io "indietro non torno".