giovedì 26 luglio 2012

L'arte di ascoltare non s'impara con uno stage

Morsicati dalla crisi

L'astinenza da computer è salutare, salvo poi essere costretti, dopo vari giorni di interruzione, a doversi districare tra centinaia di mail per la maggior parte inutili.
Tra tutte, merita il palmares dell'inanità quella che mi ha girato, con grande gentilezza, una giovane donna conosciuta lo scorso anno proprio in questo periodo. 
Come ho già avuto modo di dire in più occasioni, quando ci si lamenta della propria condizione di simil-sfaccendamento con gli estranei, è piuttosto facile suscitare un misto di tenerezza-solidarietà-disagio, forieri, quasi sempre, di ulteriori frustrazioni. Il punto è però sempre il solito: ce la siamo cercata, perciò prendiamoci il consiglio, la segnalazione non richiesta e andiamo avanti.
In questo caso specifico, si trattava dell'offerta di una Ong della zona (il nome non è importante) che cercava un addetto alla comunicazione che avesse una laurea in materie simil-giornalistiche e conoscenze del mondo del volontariato. Avrebbe dovuto insospettirmi il periodo previsto per l'incarico, ossia sei mesi, e il compenso "da concordare", ossia non pre-determinato come dovrebbe accadere quando si parla di lavoro. 
Si trattava, insomma, di uno stage, che per le leggi vigenti non può durare oltre i sei mesi - se non vado errata e salvo, immagino, trovare gabole per rinnovarlo sotto altro nome - in cui il fortunato, se sta andando tutto bene, riceverà almeno un rimborso spese. 
In tempi di magra, naturalmente, si accetta anche quest'ultimo, soprattutto se si è giovani e si vuole arricchire il proprio curriculum. La stessa Ong, peraltro, non è direttamente responsabile della miopia di una legislazione che abbatte le ambizioni dei neolaureati con la passione per la cooperazione internazionale: è probabile che i soldi di cui dispone siano pochi e che rischi di saltare essa stessa da un momento all'altro, perciò meglio un lavoretto (stage) a ciascuno anziché un singolo addetto stampa da stipendiare o fatturare con tanto di contributi e altri inaccollabili fardelli fiscali. 
Parafrasando il Maestro astigiano, sì ma intanto così va il mondo e non ci si può fare nulla. 
Almeno, finché la barca non affonderà del tutto. E non è escluso che ci sia qualcuno che prema davvero verso il default finale, anche se non ho mai creduto nelle forze del male o in altre sciocchezze dietrologiche.
Il mio senso del dovere assai spiccato, tra l'altro, mi ha spinto comunque a contattare la suddetta Ong per accertarmi se l'offerta fosse ancora aperta. Sono stata trattata con molta educazione e direi umanità ed è già qualcosa: spero a questo punto che il ragazzo che sta svolgendo il periodo di prova (sì, l'offerta era scaduta) riesca a strappare qualcosa di meglio di un rimborso spese, che di solito si aggira sui 500 euro al massimo. Perché il lavoro va pagato (è un mio mantra, ormai), anche se durasse una manciata di minuti.
Ho raccontato l'aneddoto a una mia carissima amica sessantenne, insegnante, pensione (spero per lei) garantita: ha vari nipoti di 25 anni circa alle prese con continui lavoretti, come molti di quella generazione. Ho sperato che capisse (e forse l'ha fatto, ma chissà) che cosa può significare per una professionista di 41 anni dover (eventualmente) concorrere con i neolaureati o poco più per le medesime posizioni. 
Ho rischiato - in sostanza - di ripetere lo stesso errore che ha spinto la mia conoscenza a girarmi l'inutile (e un po' umiliante: lo riconosco) annuncio. Per fortuna abbiamo cambiato argomento e so per certo di esserle stata di qualche utilità almeno come ascoltatrice. 
Sì, perché per comunicare qualcosa bisogna saper ascoltare, ma - mi domando - quanti di questi ragazzini concentrati a sfangarla con l'ennesimo stage hanno poi davvero voglia di mettersi nei panni della realtà che dovrebbero propagandare? Quanti dei giovani e giovanissimi impiegati chissà con quale inquadramento nelle agenzie interinali o nei call center hanno voglia di sopportarsi le magagne di chi arriva ai loro sportelli o alle loro orecchie quando sanno anche loro di rischiare di ritrovarsi dall'altra parte in un battito ciglia?
Agli albori del lavoro temporaneo, prima di passare la selezione per la scuola di giornalismo, ho fatto la stagista per una filiale della Manpower a Firenze. Un giorno entrò un uomo sui 50 anni o poco più, occhialuto e distinto. Si capiva da come se ne stava impettito davanti a me, all'epoca 28 enne, che era teso e seccato di essere stato costretto a cercare lavoro con il curriculum che aveva, lungo come un romanzo breve.
Glielo presi dalle mani, forse gliene strinsi una per congedarlo e poi risposi alla domanda del capo filiale su chi fosse la persona appena uscita. Risultato? Quei fogli finirono in pezzettini: il tipo, disse il capetto dai capelli brizzolati, un quarantenne che si piaceva molto, era "troppo vecchio".
Ci rimasi malissimo. Ed è da allora, o forse da sempre, chi lo sa, che guardo con molta diffidenza le persone arrivate, quelle che sanno sempre tutto e quelle che se capitasse a loro di essere trattate così forse non reggerebbero e si sparerebbero (mi verrebbe, con rabbia, da aggiungere magari) un colpo in testa.
In definitiva, meglio tenersi i momenti "down" per sé, evitandosi la vera o pelosa compassione, e continuare a lottare, giorno dopo giorno per restare a galla. Di più. Per preservare la propria dignità, l'unica vera risorsa che non ha bisogno di essere pagata.

domenica 22 luglio 2012

Che bananastici nipoti, sulla mia country road




"Cartonito non ci piace". Lo ha detto spesso mio padre nei giorni che abbiamo trascorso insieme (almeno durante le ore meridiane) con i nipoti. Parole pronunciate al vento, naturalmente: un nonno, per natura, non può fare altro che soccombere alla dolce tirannia di creature ben al di sotto della maggiore età, peraltro anche per via del saggio proverbio "chi è causa del suo mal pianga se stesso".
Sì, perché è stato proprio il suddetto nonno a introdurre nella casa di Francavilla al Mare la tv dallo schermo ultrapiatto dotata di digitale terrestre. E quelle piccole, tenere e innocenti faccine non ne avevano praticamente mai avuta una, cresciuti come sono stati (fino a questo momento. Sul futuro ho qualche dubbio, a questo punto) a dvd, frammenti di Youtube, libri e musiche stralunate.
Perciò, caro nonno, beccati Cartonito (che poi non si scrive così, lo so) e le avventure di B1 e B2 e di quell'imbroglione di Rat, che in ogni episodio se ne inventa una nuova per complicare, giusto un pochino, la trama.
Sapete che vi dico? Alla fine le ho trovate veramente "bananastiche", come continuavano a ripetermi quei due citandomi la pubblicità del cartone animato. L'episodio che linko sopra, però, non l'ho ancora visto, quindi non posso giurare sulla sua rappresentatività come puntata-tipo.
In ogni caso, mentre andavano in onda le avventure delle Banane in pigiama, bisognava stare attenti a non passare davanti all'apparecchio e a usare un tono della voce appropriato. Diversamente, dal divano composto di due poltroncine letto (una delle quali è stato mio giaciglio sabbioso della notte), arrivavano mugugni ben più accesi della debole protesta del nonno per l'impossibilità di vedersi un tg in santa pace. E d'altra parte, l'attualità è talmente deprimente che tutto sommato non è stata una grande perdita (neanche per il nonno, ci posso giurare) restare leggermente indietro. 
Risolte alcune difficoltà tecniche, peraltro, è stato possibile piazzarli anche davanti al computer per i più tradizionali dvd con il panda Po e il cattivo Shen e la famiglia di Barbapapà fino a un paio d'anni fa vera e unica passione dei due fratellini. Il cartone che ho portato io, invece, stavolta non è stato troppo apprezzato e oggi che l'ho rivisto con calma ne ho capito meglio il perché. Qualcosa mi dice, però, che già l'anno prossimo il maggiore potrebbe rivalutarlo. Sto parlando de I sospiri del mio cuore, che parla di una storia d'amore pre-adolescente mescolata alla passione per la musica e la scrittura, dei due giovanissimi protagonisti. Roba poco interessante alla loro età.
Comunque sia, tolte le ore serali e notturne, in cui, però, dormono anche gli adulti - se va tutto bene - l'oretta e poco più passata davanti ai cartoni è l'unica pausa di relax per tutti i presenti in quel momento tra le pareti domestiche. Bisogna perciò assolutamente approfittarne per: 1) andare alla toilette; 2) leggere una paginetta di giornale o di libro; 3) lavare i piatti/scrollare la tovaglia; 4) bere il caffè; 5) scambiare quattro chiacchiere con la nonna o la sorella su un qualunque argomento che non riguardi - almeno non necessariamente - i piccoli, adoratissimi occhioni rapiti. Se si prende il ritmo, devo dire, ci si riesce e poi la seconda parte della giornata scorre rapidamente verso la cena, altro momento critico nell'organizzazione velleitariamente militaresca delle baby-vacanze. Se però capita qualche avvenimento inconsueto - tipo l'arrivo di Cicchitti, il tuttofare della famiglia Santurbano-Cicalini, e il suo compare falegname, piombati in casa intorno alle due e mezzo, per fortuna non durante le bananastiche banane, per rimontare la serranda schiantatasi esattamente all'inizio delle ferie della famiglia di mia sorella - allora le cose si complicano un po'. Tra le risa dei genitori, con mio grande sollievo. 
Non so come, sono riuscita a intrattenere il maggiore con la costruzione di un treno e l'osservazione della vista dall'altro balcone, non quello sulla soglia del quale lavorava il falegname. Il minore, invece, si distrae più facilmente, ma al contempo è più capace di starsene per i fatti suoi a dialogare con pupazzi e altri personaggi immaginari.
Fatto sta che alla fine ha pure chiesto al falegname chi era la capa di casa sua, scatenando risate generali, e di sottrarre (prima che glielo ristrappassi dalle mani) il compenso destinato al suddetto sottoposto della propria moglie, com'è giusto che sia (si scherza, ovviamente).
Alla fine riesco a trascinarli fuori e li porto al mare. 
Sono stanca e accaldata. Ed è lì, nel piazzale antistante lo stabilmento del Paraculo, che ho un piccolo mancamento. 
Stavolta la scena è mia. In men che non si dica, mi ritrovo seduta su un lettino con le gambe verso lo schienale, mentre un tipo mi dice con gentilezza di chiudere gli occhi e di respirare. A quel punto sto già meglio, ma mi rendo conto che ormai ci sono e devo fare la mia parte fino in fondo. Così bevo anche acqua e zucchero, mormorando un "che figura" mentre guardo i nipoti con un mezzo sorriso per accertarmi che non siano rimasti sconvolti dalla scenetta della zia. Quei due, a dire il vero, stanno chiacchierando animatamente con un amichetto per cui quasi quasi ci resto male.
Dopodiché ringrazio tutti, mi alzo e vado a raccontare al cellulare allo Sfaccendato lontano quel che mi è appena successo. I piccoli sono stati accompagnati dal nonno dell'amichetto a giocare a biliardino.
Il mio soccorritore mi si avvicina e mi offre un ghiacciolo.
Non avendo riscosso granché successo con il coniuge lontano che minimizza, tento di impietosire mia madre, che arriva, in effetti, quando ormai sono già con la palla in mano sulla riva, tra i nipoti che s'inseguono buttandosi in acqua. 
Anche in quel caso nessuna pietà per la malcapitata zia che dentro di sé riflette su quanto sia cambiata dalla sceneggiata di molti anni prima, quella che, parzialmente, ha determinato varie scelte, non tutte opportune, del proprio avvenire.
E' tutto passato. Tutto sepolto. Quella lei non c'è più.
Ed è così bananastico rendersene conto che vorrei urlarlo al mondo.
Di questo devo ringraziare anche quei due meravigliosi piccini, così paurosamente facili da amare. 
Il giorno dopo ho compiuto 41 anni e benché fossi distrutta dallo scarso sonno e dall'avvicinarsi della scadenza del mio mandato di zia-baby sitter, ho partecipato con una gioia lucidamente infantile alla caccia al tesoro che hanno organizzato con la complicità di mio cognato, annientato anch'egli da una stanchezza di certo maggiore della mia, non foss'altro per la più lunga frequentazione con il sangue del suo sangue, un impegno a vita ben più oneroso di un incarico alla Banca mondiale.
Dopo la partenza dei nipoti, mi sono goduta ancora un po' la compagnia dei genitori finché non è arrivato anche il mio turno di prendere la via di casa. 
Sono - lo ammetto - ancora un po' stanca per le giornate francavillesi, ma so di aver vissuto intensamente ed è quello che mi preme di più. E benché anch'io, come nella traduzione di Country Roads, la canzone di John Denver che fa da colonna sonora al film d'animazione sopra citato di Yoshifumi Kondo su sceneggiatura di Hayao Miyazaki (il grande autore de "La città incantata" e il Castello errante di Howl, per citarne solo due), molto probabilmente non tornerò mai più nella mia terra se non per sporadiche visite come quella appena trascorsa, so che porterò sempre con me il ricordo di quel che sono stata, anni e anni fa: una bambina molto amata che ha imparato ad amare anche grazie al molto (forse troppo, chissà) amore ricevuto. 
Arrivederci a presto, mia country road. E grazie di tutto.


domenica 15 luglio 2012

E meno male che siamo Sfaccendati

La domenica è un giorno di festa anche per gli Sfaccendati? Ma sì che lo è, perché non dovrebbe esserlo?
D'altra parte, a giudicare dalla scarsità dei bagnanti stamattina sulla riviera di Porto San Giorgio, comincio a pensare che di gente non in vacanza ce ne sia davvero molta in giro, checché ne dicano i servizi sui tg e sui giornali (ma che pena i poveri stagisti/cronisti locali mandati a fare domande alla commessa di turno in pausa pranzo al mare: non vorrei proprio essere al loro posto). Saranno al lavoro, direte voi? Può darsi, considerata la tradizione degli italiani di ammassarsi tutti ad agosto sulle spiagge nazionali o negli aeroporti per località più in, ma a sentire Rai, Ibrahim o Birahim, se la memoria non mi inganna, senegalese ultracinquantenne diventato ormai un amico di famiglia, di affari se ne fanno davvero pochi e non perché i potenziali clienti delle sue borse taroccate (o vere, chi lo sa: bisognerebbe chiederlo ai grandi marchi che fingono disappunto per la contraffazione delle loro griffe milionarie) siano tutti al lavoro.
In ogni caso, gli Sfaccendati veri si riconoscono anche dalla loro capacità di dare una mano, sempre e comunque, a chi si trova più o meno sulla stessa barca.
Quel che manca, almeno per ora, non è il cibo né un tetto, ma solo una reale, concreta e lucida (magari anche ludica, come stavo freudianamente scrivendo) prospettiva futura, ma per il resto la giornata scorre, piena, anzi direi zeppa, di cose da fare. 
Però non tutti possono capirlo, meno che mai chi ha un lavoro più o meno sicuro e un reddito continuativo. Meglio, quindi, evitare inutili fraintendimenti e tenersi per sé le eventuali ansie e/o frustrazioni con chi non è in grado di comprendere. Ogni tanto, certo, qualcosa ci sfugge e allora si resta male se qualcuno ci propone di chiedere una mano all'Fnsi, ossia la federazione nazionale della stampa, preposta a erogare, per tre volte al massimo nella vita, donazioni da 1.500 euro l'una ai giornalisti indigenti, dietro presentazione di lettera e comprovate pezze d'appoggio del proprio status di poveracci.
A parte la comprensibile ritrosia a mostrarmi come tale, obiettivamente non credo che 1.500 euro mi risolverebbero il problema di cui sopra. Però me la sono cercata, quindi mi becco anche il deprimente consiglio, ma mi riprometto, non a caso digitandolo e sparandolo in rete, di non cedere mai più alla mia naturale propensione di mostrarmi per quella che sono con chi non mi conosce né gli interessa farlo. 
Fine della storia. 
Del resto, questo spazio racconta già abbastanza, forse molto più di quanto io stessa riesca a immaginare. 
Tra uno sfaccendamento e l'altro, per esempio, ho montato la galleria fotografica di cui ho fatto cenno nel precedente post:



Ieri c'è stato il bis, meritevole anch'esso di montaggio ad hoc, un altro lavoro gratuito che farò con grande partecipazione e impegno.
Domani, però, mi aspetta un'altra incombenza, emotivamente molto intensa. E naturalmente gratuita anch'essa. Perché l'amore (anche quello per i consanguinei...) mal si concilia con il denaro.
Oltretutto, sarò ripagata (e moltissimo) da affetto, risate, creatività ed energia. Tutti beni che non si comprano proprio per il loro inestimabile valore.
E se un domani dovessi essere meno Sfaccendata, beh, almeno mi consolerò ripensando a giorni magici come quello narrato nella galleria sopra linkata.
E agli altri vissuti canticchiando "il coccodrillo come fa".
Non c'è nessuno, ma proprio nessun adulto bene inserito nel mondo, che lo sa.

lunedì 9 luglio 2012

Ridere e andare. Oltre la nostalgia

Fin dentro all'anima

Nel profilo di Blogger ho scritto, già tempo fa, di essere una "paolocontiana di ferro". A parte la cacofonia della definizione, resta però vero che lo sono. Altro che se lo sono. E mi stupisco anche di scoprire sempre nuovi dettagli sul percorso musicale del Maestro astigiano che me lo rendono ancora più simpatico.
Per la precisione: più mi accorgo delle analogie tra il suo modo di suonare e quello di Duke Ellington e più capisco quanta strada sia passata sotto i sandali della sua vita.
Pur essendo cresciuto a pane, latte e jazz, infatti, il Paolo per eccellenza  non si è mai considerato un purista del genere, al punto che agli esordi, anzi, tutto si sarebbe detto fuorché che jazzava.
O meglio: jazzava assai al liceo e nel tempo libero, ma al grande pubblico si è mostrato innanzitutto come cantautore. L'ennesimo, aggiungerei, com'era costume a cavallo tra i Sessanta e i Settanta.
Poi, però, la fama è arrivata e con essa la possibilità di fare sempre di più come gli pareva.
Se mai virata più decisa verso il Cane giallo della musica c'è stata, forse la si può ravvisare nell'album "Novecento", il secolo nato insieme con il jazz, per così dire.
E tuttavia, conoscendolo almeno un po', sono sicura che continua a non sentirsi affatto uno jazzman, bensì, forse, "uno che suona" e "che canta" alla maniera degli stralunati chansonnier di Francia, alla Gainsbourg più che alla Aznavour, direi, visto quanto il Maestro stesso ha dichiarato in più di un'intervista.
Ma com'è che m'è venuto in mente tutto questo?
Perché in questi giorni ho realizzato una piccola, artigianale, ma molto partecipata galleria fotografica sul saggio di Sfaccendato e i suoi compagni di Accademia musicale. Come colonna sonora, ho scelto vari brani del Paolo nazionale e uno di Tom Waits, che, guarda caso, può ricordare il primo (la Russian dance che ho usato come commento alle fotografie del sosia sangiorgese dell'artista americano non è troppo diversa da Ludmilla, a pensarci bene).
E poi, la notte della notte bianca, non potendo dormire, mi sono messa ad ascoltare in cuffia Gong-oh, l'ultima raccolta del Nostro, come spesso faccio quando voglio rilassarmi.
Ed ecco che si è compiuto l'ennesimo incanto: ho capito, più profondamente, "Una faccia in prestito", il brano dell'album omonimo degli anni Novanta, in cui il Maestro si approssimava all'età anziana.
"Ho nostalgia di un golf, di un dolcissimo golf di lana blu", dice a un certo punto.
Per la prima volta ho visto quel golf e ho sentito tutta la malinconia della vita che se ne va e del futuro in scadenza.
E tuttavia non ero triste né forse lo era, almeno non del tutto, il Maestro che infatti nel testo aggiunge "Non piangere coglione, ridi e vai".
Quel maglione non c'è più né mai ci sarà, ma starsene dietro le quinte "ingolfato di swing e di lacrime" a qualcosa gli è servito: da quel giorno niente è più stato lo stesso e Paolo lo sa.
Niente resta uguale, ma tutti i tasselli, prima o poi, tornano al loro posto.
Perciò niente lacrime, almeno non troppe.
Rido, sì, e vado.
A Francavilla al Mare, tra i cafonacci, ma per una buonissima (e dolcissima) causa.
Buoni giorni d'estate a voi e buon ascolto:




giovedì 5 luglio 2012

Coltivare l'anima, tutta la vita


Dev'essere la canicola di questi giorni, fatto sta che sono solo le 22.30 ma a me sembrano le quattro del mattino. Oggi, nella piccola città in cui sono venuta a vivere ormai oltre sette anni fa, è ricominciato il mercatino del giovedì, pieno di cianfrusaglie, vestitini, orecchini (ci sono anche le due belle ragazze da cui prendo qualcosa ogni anno: fanno collane di stoffa e perline davvero molto graziose) e fumetti.
E io, naturalmente, ho già comprato. Parlo di un Dago vecchio con i disegni di Alberto Salinas, il primo (vero) disegnatore del giannizzero nero, del rinnegato veneziano con il corpo scultoreo segnato da ferite non solo fisiche. E pure una pizza fritta (rigorosamente salata) accompagnata da una birretta.
Però ero disorientata: quest'anno è letteralmente volato: come dicono quasi tutti gli adulti e immagino ancora di più gli anziani, dopo una certa età gli anni accelerano. Non so perché, parlando con Teresa e Piergiorgio, il secondo incontrato per caso (ma chissà), è venuto fuori l'argomento morte e il nonsenso sotteso, soprattutto per atei/agnostici come me (e forse anche loro).
Teresa ricordava la rabbia della sua adorata figlia Lisetta, oggi più che adulta, quando realizzò che sì, accidenti, un giorno sarebbe diventata polvere anche lei come tutti gli altri, come i morti ammazzati dalla daga di Cesare Renzi, condannato a non trovare pace per la strage dei suoi cari e costretto per via della stessa a errare ramingo per tutto il mondo, con un grumo nero al posto del cuore.
Sentendola raccontare l'aneddoto, mi è tornato in mente quando è successo a me di prendere consapevolezza del nostro destino inevitabile, una sera tardi, guardando la tv. Atterrita, sono corsa da mia madre e ne ho cercato l'abbraccio con occhi persi: "Dobbiamo morire", le dissi. Non credo che potrò mai dimenticare la serietà della risposta, priva di retorica e di facile rassicurazione. Da quel momento in poi, credo, è finita definitivamente la mia fanciullezza.
Poi, certo, si ritorna a vivere giorno dopo giorno, dimenticandosi dell'orologio (pure di quello biologico nel mio caso), però da allora mi è rimasto da sempre un fondo di malinconia misto a irrequietezza per il non compiuto, il non risolto, il non pieno nelle mie giornate. Ed è anche un po' per questo che detesto perdere tempo. Ogni minuto, ogni incontro, ogni esperienza significativi vanno presi al volo. E non per un superomistico bisogno di superare se stessi, bensì per il motivo contrario: un giorno non potremo più farlo e allora a cosa è servito rinunciarvi in partenza?
Molte volte mi sono rimproverata di aver avuto paura della vita, del successo, della carriera. In parte lo credo tuttora, ma non m'importa più. Almeno, non quanto m'interessa essere in grado di riconoscermi nello specchio, nonostante il tempo e i segni che vanno sedimentandosi sul mio corpo.
Quel che conta di più, però, è la mia anima e la mia volontà di lasciarla libera di esprimersi. E mi conforta assai constatare che quasi allo scadere del quarantesimo, tolto il sonno che mi sta vincendo, mi sento addosso un'energia mai provata prima. Più matura, forse, più consapevole, meglio, comunque con un qualcosa che mai avrei immaginato in quei caldissimi giorni di inizio luglio di un anno fa, quando mi aggiravo con la Nikon sulle spiagge facendo finta di essere una reporter.
Ma ora è il caso di farla finita qui: prima di passare al delirio pre fase rem (?).
Buonanotte.

lunedì 2 luglio 2012

La cancion del Disoccupao



Com'è facilmente intuibile, non conosco lo spagnolo né tanto meno il portoghese. Però all'indomani della sconfitta (una vera e propria Guernica) dell'Italia, non riesco più a trattenermi.
Chiarisco subito: ho visto la finale e ho anche sperato che gli azzurri si ripigliassero dopo i primi due goal, negando, forse, anch'io, come molti altri connazionali, l'evidenza. E però, suvvia, perdere contro i cugini (una faccia una razza: sfido chiunque a distinguere spagnoli e italiani) fa meno male che contro i crucchi, verso i quali, peraltro, non ho affatto rancore, vista la parentela acquisita con un'amabilissima famiglia tedesca.
D'altra parte, il massacro subito è effettivamente una metafora di quel che come Paese stiamo rischiando attualmente. Lo stanno dicendo in tanti, quindi stop.
E tuttavia mi auguro ardentemente che, tolti gli imbecilli che hanno sventolato bandiere con la svastica (a Roma) e gli assaltatori del maxischermo del Duomo (a Milano), tutti gli altri da oggi ci ridano su e tornino a fare... a fare che cosa? 
Ad attendere che i tempi cambino, provando ancora un po' a non smarrire la stima negli altri e soprattutto in se stessi, un bene prezioso e raro per chi non lavora o lavoricchia. Per chi, insomma, è nella condizione di sfaccendamento.
A questo proposito, merita una menzione speciale il mio Sfaccendato coniuge, dalla grande verve creativa nonché profetica. Solo lui, infatti, è in grado di prepararsi a eventi sgradevoli, quale poi si è effettivamente rivelata la visita degli zii del Nord, improvvisandoci su una canzone.
In genere, Sfaccendato ruba sigle di telefilm o brani pop per prendere per i fondelli qualcuno particolarmente meritevole di dileggio. Stavolta, invece, è ricorso all'incipit del Cacao meravigliao di Renzo Arbore per parlare di se stesso e di sua madre in un colpo solo. Perché, per Sfaccendato, la colpa dello sgradevolissimo scambio tra lui e la zia Ritin ("Michael Jackson nell'ultimo periodo", cit), è tutta di sua madre, la grandissima Marisa. O Marisao.
La musica do Brazil, poi, con la saudade e tutto il resto, è la perfetta metafora del tono a dire di Sfaccendato lamentoso con cui la sua genitrice racconta ai parenti delle sventure lavorative dei figli (e delle nuore). "Son tanto malcontenti, tanto tanto tanto. E invece quanto vorrei che avessero tutti e quattro il loro bel lavoro nel loro bell'ufficio...". Il tutto detto con afflizione e struggimento. Un atteggiamento che manda in bestia Sfaccendato e fratello soprattutto quando siamo presenti anche io e mia cognata. Invece io, di solito, ci rido su, stimolata anche dalle occhiatacce fulminanti che le manda Sfaccendato. 
E però, davanti ai parenti, è più difficile sdrammatizzare: di qui la presa in giro preventiva, della sua propria condizione e della mamma.
Immaginate a questo punto l'inizio della canzoncina di Arbore e cantateci su (insieme con me) le seguenti parole:

Sao come se fa un disoccupao
cun tantu malconcenci
e un po' di Marisao...

Ecco. Così bisognerebbe sempre (comunque il più possibile) vedere il mondo e le nostre personali sfighe.
Perciò, forza italiani, quelli comuni, quelli che non sanno immaginarsi da vecchi, e avanti così.
Con meno malconcenci e un po' di fiduciao.

lunedì 25 giugno 2012

Il lavoro langue, la scrittura no: intervista ai “Lavoricidi” marchigiani


Lì per lì non ci fai caso, ma da un certo punto di Lavoricidi in poi diventa chiaro: tra i quindici racconti contenuti nel libro edito da ComunicationProject c'è un filo conduttore. In carne e ossa, anche se, molto probabilmente, sotto pseudonimo. Si tratta nientepopodimeno che di Alfonso (o Lucio o Filippo o quel che è) Maria Marzi, il raccomandato figlio di papà per antonomasia che riesce a piazzarsi sempre, e bene, al posto di almeno uno dei personaggi raffigurati lungo le circa 170 pagine che compongono il volume scritto dallo ZaratanClan, un collettivo di autori marchigiani genericamente giovani. Alcuni di loro, in effetti, si possono definire tali anche ai fini fiscali. Altri, invece, lo sono di certo nella passione che ci mettono nel narrare le assurdità di un mercato del lavoro che li risbatte ai margini senza tanti perché e neanche un grazie e nell'orgoglio con il quale si scuotono di dosso la patente di sfigato o, peggio, di bamboccione, usando armi possibili solo a gente dotata di cervello e istruzione (più che qualificata): l'ironia.
A loro ho già dedicato un post a metà lettura, in preda a una crisi di empatia (e di nervi) per ogni singola parola trapassatami sotto la pelle fino a quel momento. Come mi ero ripromessa già allora, però, Lavoricidi meritava qualcosa di più che il semplice commento accorato di una malcapitata giornalista freelance con la luna storta. Ed è così che li ho contattati e li ho intervistati. Le risposte sono tutte di Jonathan Arpetti, uno dei curatori dell'intero progetto. Fa eccezione la risposta sulla scuola, che è invece di Laura Crucianelli, brillante insegnante precaria, che è riuscita a dare un nome (anzi: più d'uno, con tanto di maiuscola iniziale) all'ansia... buona lettura.

Dopo gli affetti (traballanti), il lavoro (in grosso affanno): chi di voi ha avuto l'idea del secondo romanzo collettivo?
Francesca Riccioni, curatrice di Lavoricidi con me e Paolo Nanni, fondatori dello ZaratanClan. Insieme, abbiamo portato avanti il progetto, curando ogni aspetto, dalla scelta degli spunti veri da rendere narrativa, al montaggio dei brani, fino ai crossover, ossia i personaggi legati a più storie.

Ecco perché Alfonso Maria Marzi ricorre più volte insieme con altri elementi come l'assurda notizia di cronaca del suicida disoccupato vestito da ufficiale nazista... come avete fatto però a dividervi i temi, visto che i racconti non sono tutti autobiografici?
Dal punto di vista pratico, la formula più usata è stata interagire attraverso social network e skype. Ogni autore ha messo sul piatto diverse proposte, che sono poi state selezionate e catalogate. Alcuni, vivendoli, hanno scritto dei propri disagi; per il resto, noi curatori abbiamo dato la massima libertà di scelta tra tutto il materiale pervenuto.

Come sta andando la promozione? So che siete stati al Salone del Libro di Torino: che impatto ha avuto il vostro libro su un pubblico non marchigiano?
La promozione sta andando direi in modo spedito: ognuno dei quindici autori agisce sul proprio territorio di residenza organizzando eventi e presentazioni, mentre per quanto riguarda la condivisione on line abbiamo creato un sito/blog, poi una pagina facebook che quotidianamente aggiorniamo con foto, post sull’argomento lavoro e non solo, e recensioni. Per quanto riguarda la presentazione al salone del libro di Torino, siamo stati ospiti nello stand della regione Marche e il pubblico, non solo marchigiano, ha risposto molto bene.

Quindi anche qui nelle Marche state suscitando qualche reazione?
Sì: molti giornalisti e blogger ci contattano per interviste e recensioni, dal momento che il tema che abbiamo affrontato, nel contesto attuale di profonda crisi economica in cui viviamo, si presta per approfondimenti e riflessioni.

Tu personalmente avevi partecipato anche al primo progetto di romanzo collettivo?
Sì, sempre con Paolo Nanni ho ideato e curato Affetti collaterali, uscito per la Pendragon quasi in contemporanea a Lavoricidi.

La qualità della scrittura è alta: qualcuno di voi si è occupato dell'editing?
In prima battuta ce ne siamo occupati io e Paolo, poi il testo è stato revisionato totalmente da Marta Tadolti, bravissima editor e redattrice della Comunication Project che ha pubblicato il volume.

Quanto vi è costato parlare del disastro sociale e psicologico che stanno vivendo due intere generazioni? Nel tuo racconto concludi che non vorrai mai più essere disturbato per cose simili. Immagino sia una provocazione, però non avresti tutti i torti...
Diciamo che ci è venuto abbastanza naturale. Con questo romanzo abbiamo cercato di dar voce a chi sta invischiato davvero in questo disastro sociale, ma non abbiamo voluto farne un testo di denuncia politica, o un saggio sulle problematiche del lavoro, bensì abbiamo voluto condividere delle storie vere (rese narrativa) nella speranza di scatenare dibattiti costruttivi.
Quello che scrivo nel mio racconto è naturalmente una provocazione… per cercare in qualche modo di sdrammatizzare. Se ci sarà di nuovo l’occasione, non mi tirerò certo indietro.

Buono a sapersi... Ho trovato particolarmente brillanti i racconti sulla scuola: a mio avviso, valgono molto di più di qualsiasi inchiesta giornalistica sul precariato che affligge (in verità non da adesso: in questo caso la crisi c'entra poco) schiere di insegnanti. Secondo voi, perché i media (nella maggior parte dei casi) non sanno fare altrettanto? Voglio dire: perché di solito, soprattutto in tv ma non solo, vanno per la maggiore solo i casi umani?
(risposta di Laura Crucianelli) In realtà un po' "caso umano" mi ci sono sempre sentita, salvo poi, con l'arrivo della crisi, scoprirmi all'improvviso la più fortunata tra i precari perché almeno, dipendendo dallo Stato, seppur a corrente alternata, ho più garanzie di chi lavora nel privato. La tv cerca di ricreare, secondo me, un certo grado di immedesimazione attraverso le lacrime. Io penso sia più produttivo, anche se più faticoso, usare l'arma dell'ironia e a volte del sarcasmo. Perché toccano non la pancia, che subito si affama di altri "dolori", ma la testa. Che eventualmente torna sopra alla questione, si pone domande, cerca, per quel che può, soluzioni.

Purtroppo non sono dotata di smartphone, quindi non ho potuto apprezzare anche i video: a chi è venuta l'idea multimediale? L'ho trovata davvero intelligente e molto contemporanea.
L’idea del QRcode è di Carmelita Tesone, anche lei membro dello ZaratanClan e autrice di un brano sia in Lavoricidi che in Affetti collaterali. In un romanzo, crediamo sia un’idea originale e i molti consensi a riguardo, ci stanno dando ragione.

Per una non-marchigiana come me che vive qui dal 2005 non è stato molto consolante rendersi conto una volta di più quanto si stia avvicinando la prossima emigrazione in Germania... il vostro lavoro è un esempio positivo del contrario: quanta forza state traendo l'uno dall'altro per restare nella vostra terra?
Per quanto mi riguarda non ho mai messo in cantiere un trasferimento in Germania e credo neanche i miei colleghi di scrittura. Vogliamo restare nella nostra terra e viverla nel miglior modo possibile. Quest’esperienza è stata utile, prima di tutto, per conoscerci e condividere le nostre esperienze… e poi se è vero che l’unione fa la forza…

Già: se il detto è vero, come spesso accade con le perle di saggezza popolare, resterò qui aspettando che “passi la nottata”. Perché dovrà passare, prima o poi.
Grazie allo Zaratan Clan e buona fortuna. A voi, a me e all'Italia intera.