mercoledì 1 agosto 2012

Dedicato ai migranti italiani e a quelli che, a fatica, restano ancora qui



Chissà se Paolo è andato a lavorare in Svizzera, alla fine. E chissà se a Priscilla rinnoveranno lo stage in una prestigiosa agenzia del centro di Milano.
Salita sul treno per la grande metropoli del Nord, non avevo granché voglia di intrecciare conversazioni, meno che mai sul lavoro. Lì per lì, dunque, scoprire che il mio posto era giusto affianco ai due giovani viaggiatori partiti varie ore prima di me da Foggia, non è che mi facesse proprio piacere.
Con ostinazione, mi sono ficcata nelle orecchie gli auricolari e ho ascoltato, forse Paolo Conte (è piuttosto probabile), ma può essere anche Mark Knopfler (e d'altra parte non cambio la playlist da secoli... beh, non è proprio vero, visto che da pochissimo ci ho aggiunto le dieci puntate di "Alle otto della sera" dedicate, indovinate un po'? Ma ovviamente al Maestro!).
Fatto sta che dopo un po' non ne potevo più di assordarmi e poi, comunque, i due ragazzi non sembravano affatto antipatici. E infatti non mi sbagliavo.
Priscilla, 27 anni circa, è laureata in Sociologia e dopo vario peregrinare tra Roma e Milano, ha scelto la seconda nella speranza di avere qualche sbocco in più. Per fortuna, la città le piace, più della capitale sicuramente, anche se avrebbe preferito restare all'università a fare il dottorato. Ascoltandola parlare della sua interessantissima (anche se un pizzico inquietante) tesi di laurea su una catena di hotel specializzata in funerali con annessi e connessi che sta facendo grande business a Milano e dintorni, mi rendevo sempre più conto di avere vicino una persona fuori dal comune. In un certo senso, mi ricordava me gli ultimi anni dell'università, prima della "grossa crisi", con le stesse ambizioni fondate su impegno e (perché non dirlo) intelligenza, ma con qualche disillusione in più sulle speranze di vederle realizzate.
Paolo, invece, era leggermente più grande di lei e di sicuro ancora meno fiducioso. Studente lavoratore, come la sua giovane conterranea era un po' pentito di aver scelto una facoltà debole, di tipo umanistico (come li capisco!), ma fino a poco tempo prima era riuscito comunque a restare nella sua terra, convinto della necessità di lavorare a casa propria per non sottrarre ulteriori risorse a una zona storicamente già ferita da oceaniche emigrazioni. Finché un giorno, chissà perché (è ironico) è cominciato il mobbing che alla fine l'ha spinto a rassegnare le dimissioni. Da un contratto un tantino anomalo. E sì, perché Paolo si è a un certo punto accorto che, oltre a essere pagato in ritardo, non c'era traccia di contributi versati e altri piccoli optional che tanto fanno la felicità dei lavoratori dipendenti (gli autonomi, invece, ci hanno rinunciato ormai da un pezzo). Avendone chiesto spiegazione, il giovane foggiano, piccole esperienze di cooperativa alle spalle e anni di praticantato nel negozio di famiglia, si è condannato all'uscio. E all'emigrazione verso il Nord, dove, per sua fortuna, vive una sorella. Da lei fa base ogni volta che lo chiamano per un colloquio. Fino a quel viaggio, però, non ne aveva cavato granché. Solo una sfilza di colloqui per mansioni commerciali, spesso a provvigione, nessuna assunzione probabile. Il giorno dopo il viaggio in treno in cui l'ho incontrato, ne avrebbe avuto un altro che non lo entusiasmava assai, però, come diceva a Priscilla, ossessionandola forse un po', a trent'anni non sei più un ragazzo e devi trovare uno sbocco. Uno qualsiasi. Per forza. Tanto, al limite, sarebbe potuto restare per qualche tempo dalla sorella e poi, un giorno, chissà. Poco prima di arrivare a Milano, gli squilla il cellulare. Capisco che ha bisogno di una penna per appuntarsi qualcosa. Gliela allungo, un po' trepidante anch'io, come pure Priscilla con la quale scambio un'ansiosa occhiata. Trecento fiorini svizzeri a settimana? Sinceramente non ricordo più la cifra ripetuta ad alta voce davanti alle facce sorprese delle sue dirimpettaie, la giovane e la vecchia (per scherzo, a un certo punto, Paolo mi ha chiesto se doveva darmi del lei. Ho finto di mandarlo a quel paese).
Chiude la conversazione e alza su di noi uno sguardo ridente, di puro stupore. L'hanno chiamato dalla Svizzera per fissargli un colloquio per il giorno successivo a quello milanese. Gli hanno già parlato di guadagno, di contratto, l'importante è che sia un frontaliero. Paolo, da quel che ho capito, lo è, quindi chissà se adesso è lì a rifarsi di tutte le frustrazioni accumulate in un Paese che, a essere bello è bello, ma è troppo crudele con troppi figli suoi.
Con questo mi riallaccio, esplicitamente, al piccolo, affettuoso dibattito avuto con mia madre su Facebook a proposito dell'idea non proprio positiva che ho della terra, amatissima, che mi ha visto nascere.
La crisi è anche in Spagna, anche in Germania, dappertutto. Anche all'estero licenziano e mettono alla porta molta gente. Però basta varcare il confine settentrionale della Penisola per rendersi conto delle differenze.
E basta parlare con chi sta vivendo situazioni di stallo analoghe a ragazzi come Paolo e Priscilla, ma anche a persone più grandi di loro come noi coniugi Sfaccendati e molti altri come noi: in Germania, ad esempio, si assume ancora senza fare questioni di età (dietro, naturalmente, un po' di formazione) e chi perde il lavoro ha qualche aiuto dallo Stato. Da noi il Welfare lo fanno i nonni, i genitori nel caso dei due foggiani trentenni. E questo non è giusto. No che non lo è. Priscilla per il suo stage prende 250 euro al mese: alla sua età, molti dei sessantenni e settantenni di oggi erano padri e madri da tempo. E a questo proposito, solo da noi si diventa genitori sempre più tardi: nel nord Europa nascono più figli semplicemente perché li si mettono al mondo prima, come imporrebbe l'orologio biologico. Poi, certo, ci sono ragioni individuali e sociali che tengono molte donne italiane lontane il più a lungo possibile dalla maternità: Priscilla, per esempio, magari adesso non avrebbe voglia di fare la mamma, presa com'è dal suo legittimo desiderio di affermazione professionale, ma quando ho accennato alle difficoltà delle mie amiche quarantenni con figli piccoli, spaventate dall'eccesso di smog che assedia grandi e piccini, e del loro desiderio, proprio per questa ragione, di fuggire dalle metropoli, ho colto un lampo di malinconia nei suoi grandi occhi chiari.
In Germania le piste ciclabili abbondano e l'aria è spesso assai più respirabile, nonostante il clima ostile.
Insomma, è una questione di scelte, purtroppo non solo personali.
Siamo condizionati, nel bene e nel male, dal luogo in cui nasciamo. Paolo ama la sua terra, e anche Priscilla, lo si intuiva da come le si illuminava la faccia parlando di casa sua. Però, da noi, chi emigra non può più tornare indietro, e non solo perché ha trovato (speriamo per loro e per tutti gli altri che stanno chiudendo la valigia in questo momento) una collocazione professionale migliore, ma anche perché non si riconoscerà più, almeno non del tutto, in quelli che sono rimasti in patria, che sia un piccolo paese del sud o lo Stivale tutto intero.
E sapete perché non vi si riconoscerà più? Perché, tornando indietro, ritroverà le medesime, stanche anomalie di un Paese che non vuole crescere, non quanto a Pil, bensì a benessere collettivo, in una parola a civiltà. Inevitabile sarà la rabbia (i primi tempi) e la malinconia (andando avanti negli anni) che li risospingerà verso la patria adottiva, nel Nord (Europa) oppure verso l'Africa, per quelli di loro che avranno compiuto la scelta più ardita convertendosi, magari, alla ristorazione italiana dopo una vita sui libri, o ancora verso la cosiddetta Cindia, per quelli dotati di spirito più pratico.
Temo, ahimè, che non ci sia scelta. Non molta, comunque.
E tuttavia, nonostante la mia età non più verde, io sono ancora allo stadio della rabbia, un sentimento che mi fa tutt'oggi dire che non siamo degni, come popolo, del nostro grande passato. Lo dimostra anche la vicenda di Milano e della riapertura della zona C alle auto per la vittoria di un'azienda privata di posteggio, raccontata dall'Amaca di Michele Serra qualche giorno fa e che ha scatenato il dibattito (ripeto, affettuoso) tra mia madre e me.
Ne sono convinta, cara mamma: persino Gesù, su questa vicenda meneghina e in generale sul futuro negato a schiere di giovani italiani, avrebbe qualcosa da ridire. Forse, chissà, andrebbe dai potenti anziani che ci hanno reso schiavi e che non vogliono proprio saperne di schiodare e li scaccerebbe via come i mercanti dal tempio. Sì, forse interverrebbe, non foss'altro perché anche lui è stato vittima della gerontocrazia. Solo che adesso lo crocifiggerebbero ancora prima, visto che sarebbe fuori tempo massimo per il contratto di formazione (oggi detto di apprendistato) di ben quattro anni.
Quest'ultima, naturalmente, è una piccola provocazione, ma a chi ha solo la voce, la tastiera e un po' di cultura non resta che usarle come può. Soltanto così continuerà a resistere e a sognare la riscossa, almeno morale, della nostra amata-odiata Italia. Anche se non sembra, insomma, io ci credo ancora.
E voi?

giovedì 26 luglio 2012

L'arte di ascoltare non s'impara con uno stage

Morsicati dalla crisi

L'astinenza da computer è salutare, salvo poi essere costretti, dopo vari giorni di interruzione, a doversi districare tra centinaia di mail per la maggior parte inutili.
Tra tutte, merita il palmares dell'inanità quella che mi ha girato, con grande gentilezza, una giovane donna conosciuta lo scorso anno proprio in questo periodo. 
Come ho già avuto modo di dire in più occasioni, quando ci si lamenta della propria condizione di simil-sfaccendamento con gli estranei, è piuttosto facile suscitare un misto di tenerezza-solidarietà-disagio, forieri, quasi sempre, di ulteriori frustrazioni. Il punto è però sempre il solito: ce la siamo cercata, perciò prendiamoci il consiglio, la segnalazione non richiesta e andiamo avanti.
In questo caso specifico, si trattava dell'offerta di una Ong della zona (il nome non è importante) che cercava un addetto alla comunicazione che avesse una laurea in materie simil-giornalistiche e conoscenze del mondo del volontariato. Avrebbe dovuto insospettirmi il periodo previsto per l'incarico, ossia sei mesi, e il compenso "da concordare", ossia non pre-determinato come dovrebbe accadere quando si parla di lavoro. 
Si trattava, insomma, di uno stage, che per le leggi vigenti non può durare oltre i sei mesi - se non vado errata e salvo, immagino, trovare gabole per rinnovarlo sotto altro nome - in cui il fortunato, se sta andando tutto bene, riceverà almeno un rimborso spese. 
In tempi di magra, naturalmente, si accetta anche quest'ultimo, soprattutto se si è giovani e si vuole arricchire il proprio curriculum. La stessa Ong, peraltro, non è direttamente responsabile della miopia di una legislazione che abbatte le ambizioni dei neolaureati con la passione per la cooperazione internazionale: è probabile che i soldi di cui dispone siano pochi e che rischi di saltare essa stessa da un momento all'altro, perciò meglio un lavoretto (stage) a ciascuno anziché un singolo addetto stampa da stipendiare o fatturare con tanto di contributi e altri inaccollabili fardelli fiscali. 
Parafrasando il Maestro astigiano, sì ma intanto così va il mondo e non ci si può fare nulla. 
Almeno, finché la barca non affonderà del tutto. E non è escluso che ci sia qualcuno che prema davvero verso il default finale, anche se non ho mai creduto nelle forze del male o in altre sciocchezze dietrologiche.
Il mio senso del dovere assai spiccato, tra l'altro, mi ha spinto comunque a contattare la suddetta Ong per accertarmi se l'offerta fosse ancora aperta. Sono stata trattata con molta educazione e direi umanità ed è già qualcosa: spero a questo punto che il ragazzo che sta svolgendo il periodo di prova (sì, l'offerta era scaduta) riesca a strappare qualcosa di meglio di un rimborso spese, che di solito si aggira sui 500 euro al massimo. Perché il lavoro va pagato (è un mio mantra, ormai), anche se durasse una manciata di minuti.
Ho raccontato l'aneddoto a una mia carissima amica sessantenne, insegnante, pensione (spero per lei) garantita: ha vari nipoti di 25 anni circa alle prese con continui lavoretti, come molti di quella generazione. Ho sperato che capisse (e forse l'ha fatto, ma chissà) che cosa può significare per una professionista di 41 anni dover (eventualmente) concorrere con i neolaureati o poco più per le medesime posizioni. 
Ho rischiato - in sostanza - di ripetere lo stesso errore che ha spinto la mia conoscenza a girarmi l'inutile (e un po' umiliante: lo riconosco) annuncio. Per fortuna abbiamo cambiato argomento e so per certo di esserle stata di qualche utilità almeno come ascoltatrice. 
Sì, perché per comunicare qualcosa bisogna saper ascoltare, ma - mi domando - quanti di questi ragazzini concentrati a sfangarla con l'ennesimo stage hanno poi davvero voglia di mettersi nei panni della realtà che dovrebbero propagandare? Quanti dei giovani e giovanissimi impiegati chissà con quale inquadramento nelle agenzie interinali o nei call center hanno voglia di sopportarsi le magagne di chi arriva ai loro sportelli o alle loro orecchie quando sanno anche loro di rischiare di ritrovarsi dall'altra parte in un battito ciglia?
Agli albori del lavoro temporaneo, prima di passare la selezione per la scuola di giornalismo, ho fatto la stagista per una filiale della Manpower a Firenze. Un giorno entrò un uomo sui 50 anni o poco più, occhialuto e distinto. Si capiva da come se ne stava impettito davanti a me, all'epoca 28 enne, che era teso e seccato di essere stato costretto a cercare lavoro con il curriculum che aveva, lungo come un romanzo breve.
Glielo presi dalle mani, forse gliene strinsi una per congedarlo e poi risposi alla domanda del capo filiale su chi fosse la persona appena uscita. Risultato? Quei fogli finirono in pezzettini: il tipo, disse il capetto dai capelli brizzolati, un quarantenne che si piaceva molto, era "troppo vecchio".
Ci rimasi malissimo. Ed è da allora, o forse da sempre, chi lo sa, che guardo con molta diffidenza le persone arrivate, quelle che sanno sempre tutto e quelle che se capitasse a loro di essere trattate così forse non reggerebbero e si sparerebbero (mi verrebbe, con rabbia, da aggiungere magari) un colpo in testa.
In definitiva, meglio tenersi i momenti "down" per sé, evitandosi la vera o pelosa compassione, e continuare a lottare, giorno dopo giorno per restare a galla. Di più. Per preservare la propria dignità, l'unica vera risorsa che non ha bisogno di essere pagata.

domenica 22 luglio 2012

Che bananastici nipoti, sulla mia country road




"Cartonito non ci piace". Lo ha detto spesso mio padre nei giorni che abbiamo trascorso insieme (almeno durante le ore meridiane) con i nipoti. Parole pronunciate al vento, naturalmente: un nonno, per natura, non può fare altro che soccombere alla dolce tirannia di creature ben al di sotto della maggiore età, peraltro anche per via del saggio proverbio "chi è causa del suo mal pianga se stesso".
Sì, perché è stato proprio il suddetto nonno a introdurre nella casa di Francavilla al Mare la tv dallo schermo ultrapiatto dotata di digitale terrestre. E quelle piccole, tenere e innocenti faccine non ne avevano praticamente mai avuta una, cresciuti come sono stati (fino a questo momento. Sul futuro ho qualche dubbio, a questo punto) a dvd, frammenti di Youtube, libri e musiche stralunate.
Perciò, caro nonno, beccati Cartonito (che poi non si scrive così, lo so) e le avventure di B1 e B2 e di quell'imbroglione di Rat, che in ogni episodio se ne inventa una nuova per complicare, giusto un pochino, la trama.
Sapete che vi dico? Alla fine le ho trovate veramente "bananastiche", come continuavano a ripetermi quei due citandomi la pubblicità del cartone animato. L'episodio che linko sopra, però, non l'ho ancora visto, quindi non posso giurare sulla sua rappresentatività come puntata-tipo.
In ogni caso, mentre andavano in onda le avventure delle Banane in pigiama, bisognava stare attenti a non passare davanti all'apparecchio e a usare un tono della voce appropriato. Diversamente, dal divano composto di due poltroncine letto (una delle quali è stato mio giaciglio sabbioso della notte), arrivavano mugugni ben più accesi della debole protesta del nonno per l'impossibilità di vedersi un tg in santa pace. E d'altra parte, l'attualità è talmente deprimente che tutto sommato non è stata una grande perdita (neanche per il nonno, ci posso giurare) restare leggermente indietro. 
Risolte alcune difficoltà tecniche, peraltro, è stato possibile piazzarli anche davanti al computer per i più tradizionali dvd con il panda Po e il cattivo Shen e la famiglia di Barbapapà fino a un paio d'anni fa vera e unica passione dei due fratellini. Il cartone che ho portato io, invece, stavolta non è stato troppo apprezzato e oggi che l'ho rivisto con calma ne ho capito meglio il perché. Qualcosa mi dice, però, che già l'anno prossimo il maggiore potrebbe rivalutarlo. Sto parlando de I sospiri del mio cuore, che parla di una storia d'amore pre-adolescente mescolata alla passione per la musica e la scrittura, dei due giovanissimi protagonisti. Roba poco interessante alla loro età.
Comunque sia, tolte le ore serali e notturne, in cui, però, dormono anche gli adulti - se va tutto bene - l'oretta e poco più passata davanti ai cartoni è l'unica pausa di relax per tutti i presenti in quel momento tra le pareti domestiche. Bisogna perciò assolutamente approfittarne per: 1) andare alla toilette; 2) leggere una paginetta di giornale o di libro; 3) lavare i piatti/scrollare la tovaglia; 4) bere il caffè; 5) scambiare quattro chiacchiere con la nonna o la sorella su un qualunque argomento che non riguardi - almeno non necessariamente - i piccoli, adoratissimi occhioni rapiti. Se si prende il ritmo, devo dire, ci si riesce e poi la seconda parte della giornata scorre rapidamente verso la cena, altro momento critico nell'organizzazione velleitariamente militaresca delle baby-vacanze. Se però capita qualche avvenimento inconsueto - tipo l'arrivo di Cicchitti, il tuttofare della famiglia Santurbano-Cicalini, e il suo compare falegname, piombati in casa intorno alle due e mezzo, per fortuna non durante le bananastiche banane, per rimontare la serranda schiantatasi esattamente all'inizio delle ferie della famiglia di mia sorella - allora le cose si complicano un po'. Tra le risa dei genitori, con mio grande sollievo. 
Non so come, sono riuscita a intrattenere il maggiore con la costruzione di un treno e l'osservazione della vista dall'altro balcone, non quello sulla soglia del quale lavorava il falegname. Il minore, invece, si distrae più facilmente, ma al contempo è più capace di starsene per i fatti suoi a dialogare con pupazzi e altri personaggi immaginari.
Fatto sta che alla fine ha pure chiesto al falegname chi era la capa di casa sua, scatenando risate generali, e di sottrarre (prima che glielo ristrappassi dalle mani) il compenso destinato al suddetto sottoposto della propria moglie, com'è giusto che sia (si scherza, ovviamente).
Alla fine riesco a trascinarli fuori e li porto al mare. 
Sono stanca e accaldata. Ed è lì, nel piazzale antistante lo stabilmento del Paraculo, che ho un piccolo mancamento. 
Stavolta la scena è mia. In men che non si dica, mi ritrovo seduta su un lettino con le gambe verso lo schienale, mentre un tipo mi dice con gentilezza di chiudere gli occhi e di respirare. A quel punto sto già meglio, ma mi rendo conto che ormai ci sono e devo fare la mia parte fino in fondo. Così bevo anche acqua e zucchero, mormorando un "che figura" mentre guardo i nipoti con un mezzo sorriso per accertarmi che non siano rimasti sconvolti dalla scenetta della zia. Quei due, a dire il vero, stanno chiacchierando animatamente con un amichetto per cui quasi quasi ci resto male.
Dopodiché ringrazio tutti, mi alzo e vado a raccontare al cellulare allo Sfaccendato lontano quel che mi è appena successo. I piccoli sono stati accompagnati dal nonno dell'amichetto a giocare a biliardino.
Il mio soccorritore mi si avvicina e mi offre un ghiacciolo.
Non avendo riscosso granché successo con il coniuge lontano che minimizza, tento di impietosire mia madre, che arriva, in effetti, quando ormai sono già con la palla in mano sulla riva, tra i nipoti che s'inseguono buttandosi in acqua. 
Anche in quel caso nessuna pietà per la malcapitata zia che dentro di sé riflette su quanto sia cambiata dalla sceneggiata di molti anni prima, quella che, parzialmente, ha determinato varie scelte, non tutte opportune, del proprio avvenire.
E' tutto passato. Tutto sepolto. Quella lei non c'è più.
Ed è così bananastico rendersene conto che vorrei urlarlo al mondo.
Di questo devo ringraziare anche quei due meravigliosi piccini, così paurosamente facili da amare. 
Il giorno dopo ho compiuto 41 anni e benché fossi distrutta dallo scarso sonno e dall'avvicinarsi della scadenza del mio mandato di zia-baby sitter, ho partecipato con una gioia lucidamente infantile alla caccia al tesoro che hanno organizzato con la complicità di mio cognato, annientato anch'egli da una stanchezza di certo maggiore della mia, non foss'altro per la più lunga frequentazione con il sangue del suo sangue, un impegno a vita ben più oneroso di un incarico alla Banca mondiale.
Dopo la partenza dei nipoti, mi sono goduta ancora un po' la compagnia dei genitori finché non è arrivato anche il mio turno di prendere la via di casa. 
Sono - lo ammetto - ancora un po' stanca per le giornate francavillesi, ma so di aver vissuto intensamente ed è quello che mi preme di più. E benché anch'io, come nella traduzione di Country Roads, la canzone di John Denver che fa da colonna sonora al film d'animazione sopra citato di Yoshifumi Kondo su sceneggiatura di Hayao Miyazaki (il grande autore de "La città incantata" e il Castello errante di Howl, per citarne solo due), molto probabilmente non tornerò mai più nella mia terra se non per sporadiche visite come quella appena trascorsa, so che porterò sempre con me il ricordo di quel che sono stata, anni e anni fa: una bambina molto amata che ha imparato ad amare anche grazie al molto (forse troppo, chissà) amore ricevuto. 
Arrivederci a presto, mia country road. E grazie di tutto.


domenica 15 luglio 2012

E meno male che siamo Sfaccendati

La domenica è un giorno di festa anche per gli Sfaccendati? Ma sì che lo è, perché non dovrebbe esserlo?
D'altra parte, a giudicare dalla scarsità dei bagnanti stamattina sulla riviera di Porto San Giorgio, comincio a pensare che di gente non in vacanza ce ne sia davvero molta in giro, checché ne dicano i servizi sui tg e sui giornali (ma che pena i poveri stagisti/cronisti locali mandati a fare domande alla commessa di turno in pausa pranzo al mare: non vorrei proprio essere al loro posto). Saranno al lavoro, direte voi? Può darsi, considerata la tradizione degli italiani di ammassarsi tutti ad agosto sulle spiagge nazionali o negli aeroporti per località più in, ma a sentire Rai, Ibrahim o Birahim, se la memoria non mi inganna, senegalese ultracinquantenne diventato ormai un amico di famiglia, di affari se ne fanno davvero pochi e non perché i potenziali clienti delle sue borse taroccate (o vere, chi lo sa: bisognerebbe chiederlo ai grandi marchi che fingono disappunto per la contraffazione delle loro griffe milionarie) siano tutti al lavoro.
In ogni caso, gli Sfaccendati veri si riconoscono anche dalla loro capacità di dare una mano, sempre e comunque, a chi si trova più o meno sulla stessa barca.
Quel che manca, almeno per ora, non è il cibo né un tetto, ma solo una reale, concreta e lucida (magari anche ludica, come stavo freudianamente scrivendo) prospettiva futura, ma per il resto la giornata scorre, piena, anzi direi zeppa, di cose da fare. 
Però non tutti possono capirlo, meno che mai chi ha un lavoro più o meno sicuro e un reddito continuativo. Meglio, quindi, evitare inutili fraintendimenti e tenersi per sé le eventuali ansie e/o frustrazioni con chi non è in grado di comprendere. Ogni tanto, certo, qualcosa ci sfugge e allora si resta male se qualcuno ci propone di chiedere una mano all'Fnsi, ossia la federazione nazionale della stampa, preposta a erogare, per tre volte al massimo nella vita, donazioni da 1.500 euro l'una ai giornalisti indigenti, dietro presentazione di lettera e comprovate pezze d'appoggio del proprio status di poveracci.
A parte la comprensibile ritrosia a mostrarmi come tale, obiettivamente non credo che 1.500 euro mi risolverebbero il problema di cui sopra. Però me la sono cercata, quindi mi becco anche il deprimente consiglio, ma mi riprometto, non a caso digitandolo e sparandolo in rete, di non cedere mai più alla mia naturale propensione di mostrarmi per quella che sono con chi non mi conosce né gli interessa farlo. 
Fine della storia. 
Del resto, questo spazio racconta già abbastanza, forse molto più di quanto io stessa riesca a immaginare. 
Tra uno sfaccendamento e l'altro, per esempio, ho montato la galleria fotografica di cui ho fatto cenno nel precedente post:



Ieri c'è stato il bis, meritevole anch'esso di montaggio ad hoc, un altro lavoro gratuito che farò con grande partecipazione e impegno.
Domani, però, mi aspetta un'altra incombenza, emotivamente molto intensa. E naturalmente gratuita anch'essa. Perché l'amore (anche quello per i consanguinei...) mal si concilia con il denaro.
Oltretutto, sarò ripagata (e moltissimo) da affetto, risate, creatività ed energia. Tutti beni che non si comprano proprio per il loro inestimabile valore.
E se un domani dovessi essere meno Sfaccendata, beh, almeno mi consolerò ripensando a giorni magici come quello narrato nella galleria sopra linkata.
E agli altri vissuti canticchiando "il coccodrillo come fa".
Non c'è nessuno, ma proprio nessun adulto bene inserito nel mondo, che lo sa.

lunedì 9 luglio 2012

Ridere e andare. Oltre la nostalgia

Fin dentro all'anima

Nel profilo di Blogger ho scritto, già tempo fa, di essere una "paolocontiana di ferro". A parte la cacofonia della definizione, resta però vero che lo sono. Altro che se lo sono. E mi stupisco anche di scoprire sempre nuovi dettagli sul percorso musicale del Maestro astigiano che me lo rendono ancora più simpatico.
Per la precisione: più mi accorgo delle analogie tra il suo modo di suonare e quello di Duke Ellington e più capisco quanta strada sia passata sotto i sandali della sua vita.
Pur essendo cresciuto a pane, latte e jazz, infatti, il Paolo per eccellenza  non si è mai considerato un purista del genere, al punto che agli esordi, anzi, tutto si sarebbe detto fuorché che jazzava.
O meglio: jazzava assai al liceo e nel tempo libero, ma al grande pubblico si è mostrato innanzitutto come cantautore. L'ennesimo, aggiungerei, com'era costume a cavallo tra i Sessanta e i Settanta.
Poi, però, la fama è arrivata e con essa la possibilità di fare sempre di più come gli pareva.
Se mai virata più decisa verso il Cane giallo della musica c'è stata, forse la si può ravvisare nell'album "Novecento", il secolo nato insieme con il jazz, per così dire.
E tuttavia, conoscendolo almeno un po', sono sicura che continua a non sentirsi affatto uno jazzman, bensì, forse, "uno che suona" e "che canta" alla maniera degli stralunati chansonnier di Francia, alla Gainsbourg più che alla Aznavour, direi, visto quanto il Maestro stesso ha dichiarato in più di un'intervista.
Ma com'è che m'è venuto in mente tutto questo?
Perché in questi giorni ho realizzato una piccola, artigianale, ma molto partecipata galleria fotografica sul saggio di Sfaccendato e i suoi compagni di Accademia musicale. Come colonna sonora, ho scelto vari brani del Paolo nazionale e uno di Tom Waits, che, guarda caso, può ricordare il primo (la Russian dance che ho usato come commento alle fotografie del sosia sangiorgese dell'artista americano non è troppo diversa da Ludmilla, a pensarci bene).
E poi, la notte della notte bianca, non potendo dormire, mi sono messa ad ascoltare in cuffia Gong-oh, l'ultima raccolta del Nostro, come spesso faccio quando voglio rilassarmi.
Ed ecco che si è compiuto l'ennesimo incanto: ho capito, più profondamente, "Una faccia in prestito", il brano dell'album omonimo degli anni Novanta, in cui il Maestro si approssimava all'età anziana.
"Ho nostalgia di un golf, di un dolcissimo golf di lana blu", dice a un certo punto.
Per la prima volta ho visto quel golf e ho sentito tutta la malinconia della vita che se ne va e del futuro in scadenza.
E tuttavia non ero triste né forse lo era, almeno non del tutto, il Maestro che infatti nel testo aggiunge "Non piangere coglione, ridi e vai".
Quel maglione non c'è più né mai ci sarà, ma starsene dietro le quinte "ingolfato di swing e di lacrime" a qualcosa gli è servito: da quel giorno niente è più stato lo stesso e Paolo lo sa.
Niente resta uguale, ma tutti i tasselli, prima o poi, tornano al loro posto.
Perciò niente lacrime, almeno non troppe.
Rido, sì, e vado.
A Francavilla al Mare, tra i cafonacci, ma per una buonissima (e dolcissima) causa.
Buoni giorni d'estate a voi e buon ascolto:




giovedì 5 luglio 2012

Coltivare l'anima, tutta la vita


Dev'essere la canicola di questi giorni, fatto sta che sono solo le 22.30 ma a me sembrano le quattro del mattino. Oggi, nella piccola città in cui sono venuta a vivere ormai oltre sette anni fa, è ricominciato il mercatino del giovedì, pieno di cianfrusaglie, vestitini, orecchini (ci sono anche le due belle ragazze da cui prendo qualcosa ogni anno: fanno collane di stoffa e perline davvero molto graziose) e fumetti.
E io, naturalmente, ho già comprato. Parlo di un Dago vecchio con i disegni di Alberto Salinas, il primo (vero) disegnatore del giannizzero nero, del rinnegato veneziano con il corpo scultoreo segnato da ferite non solo fisiche. E pure una pizza fritta (rigorosamente salata) accompagnata da una birretta.
Però ero disorientata: quest'anno è letteralmente volato: come dicono quasi tutti gli adulti e immagino ancora di più gli anziani, dopo una certa età gli anni accelerano. Non so perché, parlando con Teresa e Piergiorgio, il secondo incontrato per caso (ma chissà), è venuto fuori l'argomento morte e il nonsenso sotteso, soprattutto per atei/agnostici come me (e forse anche loro).
Teresa ricordava la rabbia della sua adorata figlia Lisetta, oggi più che adulta, quando realizzò che sì, accidenti, un giorno sarebbe diventata polvere anche lei come tutti gli altri, come i morti ammazzati dalla daga di Cesare Renzi, condannato a non trovare pace per la strage dei suoi cari e costretto per via della stessa a errare ramingo per tutto il mondo, con un grumo nero al posto del cuore.
Sentendola raccontare l'aneddoto, mi è tornato in mente quando è successo a me di prendere consapevolezza del nostro destino inevitabile, una sera tardi, guardando la tv. Atterrita, sono corsa da mia madre e ne ho cercato l'abbraccio con occhi persi: "Dobbiamo morire", le dissi. Non credo che potrò mai dimenticare la serietà della risposta, priva di retorica e di facile rassicurazione. Da quel momento in poi, credo, è finita definitivamente la mia fanciullezza.
Poi, certo, si ritorna a vivere giorno dopo giorno, dimenticandosi dell'orologio (pure di quello biologico nel mio caso), però da allora mi è rimasto da sempre un fondo di malinconia misto a irrequietezza per il non compiuto, il non risolto, il non pieno nelle mie giornate. Ed è anche un po' per questo che detesto perdere tempo. Ogni minuto, ogni incontro, ogni esperienza significativi vanno presi al volo. E non per un superomistico bisogno di superare se stessi, bensì per il motivo contrario: un giorno non potremo più farlo e allora a cosa è servito rinunciarvi in partenza?
Molte volte mi sono rimproverata di aver avuto paura della vita, del successo, della carriera. In parte lo credo tuttora, ma non m'importa più. Almeno, non quanto m'interessa essere in grado di riconoscermi nello specchio, nonostante il tempo e i segni che vanno sedimentandosi sul mio corpo.
Quel che conta di più, però, è la mia anima e la mia volontà di lasciarla libera di esprimersi. E mi conforta assai constatare che quasi allo scadere del quarantesimo, tolto il sonno che mi sta vincendo, mi sento addosso un'energia mai provata prima. Più matura, forse, più consapevole, meglio, comunque con un qualcosa che mai avrei immaginato in quei caldissimi giorni di inizio luglio di un anno fa, quando mi aggiravo con la Nikon sulle spiagge facendo finta di essere una reporter.
Ma ora è il caso di farla finita qui: prima di passare al delirio pre fase rem (?).
Buonanotte.

lunedì 2 luglio 2012

La cancion del Disoccupao



Com'è facilmente intuibile, non conosco lo spagnolo né tanto meno il portoghese. Però all'indomani della sconfitta (una vera e propria Guernica) dell'Italia, non riesco più a trattenermi.
Chiarisco subito: ho visto la finale e ho anche sperato che gli azzurri si ripigliassero dopo i primi due goal, negando, forse, anch'io, come molti altri connazionali, l'evidenza. E però, suvvia, perdere contro i cugini (una faccia una razza: sfido chiunque a distinguere spagnoli e italiani) fa meno male che contro i crucchi, verso i quali, peraltro, non ho affatto rancore, vista la parentela acquisita con un'amabilissima famiglia tedesca.
D'altra parte, il massacro subito è effettivamente una metafora di quel che come Paese stiamo rischiando attualmente. Lo stanno dicendo in tanti, quindi stop.
E tuttavia mi auguro ardentemente che, tolti gli imbecilli che hanno sventolato bandiere con la svastica (a Roma) e gli assaltatori del maxischermo del Duomo (a Milano), tutti gli altri da oggi ci ridano su e tornino a fare... a fare che cosa? 
Ad attendere che i tempi cambino, provando ancora un po' a non smarrire la stima negli altri e soprattutto in se stessi, un bene prezioso e raro per chi non lavora o lavoricchia. Per chi, insomma, è nella condizione di sfaccendamento.
A questo proposito, merita una menzione speciale il mio Sfaccendato coniuge, dalla grande verve creativa nonché profetica. Solo lui, infatti, è in grado di prepararsi a eventi sgradevoli, quale poi si è effettivamente rivelata la visita degli zii del Nord, improvvisandoci su una canzone.
In genere, Sfaccendato ruba sigle di telefilm o brani pop per prendere per i fondelli qualcuno particolarmente meritevole di dileggio. Stavolta, invece, è ricorso all'incipit del Cacao meravigliao di Renzo Arbore per parlare di se stesso e di sua madre in un colpo solo. Perché, per Sfaccendato, la colpa dello sgradevolissimo scambio tra lui e la zia Ritin ("Michael Jackson nell'ultimo periodo", cit), è tutta di sua madre, la grandissima Marisa. O Marisao.
La musica do Brazil, poi, con la saudade e tutto il resto, è la perfetta metafora del tono a dire di Sfaccendato lamentoso con cui la sua genitrice racconta ai parenti delle sventure lavorative dei figli (e delle nuore). "Son tanto malcontenti, tanto tanto tanto. E invece quanto vorrei che avessero tutti e quattro il loro bel lavoro nel loro bell'ufficio...". Il tutto detto con afflizione e struggimento. Un atteggiamento che manda in bestia Sfaccendato e fratello soprattutto quando siamo presenti anche io e mia cognata. Invece io, di solito, ci rido su, stimolata anche dalle occhiatacce fulminanti che le manda Sfaccendato. 
E però, davanti ai parenti, è più difficile sdrammatizzare: di qui la presa in giro preventiva, della sua propria condizione e della mamma.
Immaginate a questo punto l'inizio della canzoncina di Arbore e cantateci su (insieme con me) le seguenti parole:

Sao come se fa un disoccupao
cun tantu malconcenci
e un po' di Marisao...

Ecco. Così bisognerebbe sempre (comunque il più possibile) vedere il mondo e le nostre personali sfighe.
Perciò, forza italiani, quelli comuni, quelli che non sanno immaginarsi da vecchi, e avanti così.
Con meno malconcenci e un po' di fiduciao.