venerdì 28 settembre 2012

Cencioni sì, ma di gran classe

Lorenzo Viani, Famiglia di poveri

Da qualche parte devo aver già parlato dello strazzer evocato spesso nella famiglia di mio marito. Si trattava di un tal Masagnana, che dio l'abbia in gloria, trasformato in nomignolo da mia suocera Marisao, quando vuole sottolineare l'ineleganza (vera o presunta) dei figli.
Non mi pare invece di essermi mai soffermata sulla versione chietina/abruzzese dello stesso concetto.
Cengione o cingiune, a seconda della maggiore o minore abilità glottologico-fonetica nel pronunciare il dialetto natìo, è colui o colei che si abbiglia male per ragioni innanzitutto economiche. Ma non solo.
Può infatti essere definito tale anche chi, semplicemente, non conosce le regole del buon vestire, per le fattezze nonché la qualità dei capi prescelti, oppure per una precisa scelta ideologica.
In quest'ultimo caso, però, ci si candida a venir annoverati tra i zezzone, altrimenti chiamati, dalla schiatta generata da Marisao e i loro conterranei padani, vunciùn.
Mi sorge però una domanda, stimolata dal dialogo avuto con mia madre giusto ieri pomeriggio. Quest'ultima ha infatti attribuito a un oggetto le caratteristiche sopradette, lasciando intendere che la medesima parola si presti a più utilizzi. Insomma: si può essere cingiune non solo nell'aspetto personale, ma anche negli oggetti che usiamo nella nostra quotidianità.
L'aggettivo, in definitiva, individua una precisa condizione del vivere; di più: è la sintesi di una vera e propria ontologia, altrimenti detta filosofia di vita. Se si è cingiune d'aspetto, insomma, è facile che siano tali anche le nostre cose; ma potrebbe essere vero anche il viceversa.
Una volta (questo lo ricordo) ho parlato della differenza tra accricco e accrocco.
In un certo senso, entrambi possono far parte della sopra detta ontologia, però è meglio non addentrarsi troppo in queste sottigliezze perché allora dovrei introdurre anche la parola bandone, che indica un oggetto grosso, sgraziato e soprattutto mal funzionante, come ad esempio una vecchia automobile. La nostra Micra è sicuramente l'una (cingiune) e l'altra (bandone), ma immagino che un vecchio materasso non possa essere giudicato anche con il secondo aggettivo. Ed è proprio un materasso che, per l'appunto, mia madre ha apostrofato così.
Il che mi fa pensare che anche quando lo si riferisce a un oggetto, si resta comunque nella sfera intima. Sì a dirlo di una maglietta (o una mutanda) senza elastan, no ad affibbiarlo a un ferro da  stiro o ad altro malandato accricco.
Resta comunque il fatto che quando lo si dice di una persona, nello specifico di noi stessi, fa molto più colpo. In questi giorni, per esempio, Sfaccendato e io siamo due cingiune all'ennesima potenza, visto il raffreddore da fieno che ci siamo passati a vicenda. Anzi, per la precisione: io l'ho passato a mio marito.
Oggi tocca a lui non mettere piede fuori di casa, abbigliato come si confà a un masagnana afflitto da voce nasale. A mia volta, anch'io non sono esattamente chic, con la mia tuta cinese e la magliettina non proprio linda.
E tuttavia, per fortuna, non mi sento cingiune nella psiche, riscossa probabilmente da un istinto di sopravvivenza più testardo di qualunque sfiga, interna o esterna.
Forse il secondo tempo sta cominciando.
L'importante è crederci, nonostante l'atmosfera di un presente,  non solo personale, che più cencioso non si può. 

mercoledì 26 settembre 2012

Da Jane a Cita, in attesa che cominci questa benedetta seconda vita



Il precedente post deve aver scatenato la ubris divina: "Pensi di somigliare, tu o tua madre, a Jane Fonda?", si sono detti gli dei di qualche incerto Olimpo, "E allora beccati una para-influenza rammollente".
Così è stato. Se lunedì decantavo i prodigi psicofisici delle mie insegnanti di aerobica-step-gag-squat etc etc, oggi mi sento come se mi avesse schiacciato un caterpillar.
Passerà (per forza), però lo stato di abbattimento e il ronzìo delle orecchie mi ha portato all'ennesima amara riflessione sul mio stato di non-lavoro, meglio, di non-disoccupazione assoluta.
Ogni tanto rilancio gli appelli dei colleghi precari che stanno ancora in qualche modo a galla, ma in verità mi sento sempre più lontana da un mondo del quale, alla fin fine, ho fatto parte solo per pochi anni. Su New Tabloid, il mensile dell'Ordine dei giornalisti della Lombardia, c'era un interessante primo piano sull'uso di Twitter per i giornalisti. I più bravi, pare, sono definiti "twitteri". Al di là della forma, leggiucchiando (mentre mi misuravo pateticamente la febbre che non ho) oltre, mi sono vista allo specchio: sono Cita non solo nel fitness (almeno per questa settimana non credo che riuscirò a tornare in palestra), ma ancora di più mi sento e temo mi sentirò (purtroppo non solo per sette giorni) una specie di australopiteco dell'informazione, per la mia distanza sempre più marcata dai nuovi media. Non che non li bazzichi, ma sinceramente non riesco a vederne il risvolto pratico per la mia vita e quindi per il mio status di pennivendola poco venduta.
Non è una lamentela da canto (diurno) di venditore d'acqua calda di bracardiana memoria. Temo sia la realtà dura e cruda. Non sono mai stata una che sta sul pezzo, nel senso moderno della brutta espressione gergale. Il punto è che - probabilmente - non mi va neanche di esserlo, se questo significa cinguettare tutto il giorno o anche solo seguire compulsivamente tutte le news.
Oggi sono rientrata sul mio profilo Twitter (sul quale mi limito a rilanciare i post che scrivo sui miei blog o al limite le boiate che pubblico su Facebook), ma mi sentivo spersa, un po' come la nostra gatta che non ha ancora capito di essere stata adottata.
Sono una specie di Heidi anch'io, ma in fondo lo sono sempre stata.
Per combattere la sindrome dello spaesamento, mi servirebbe - ne sono consapevole - un ambiente fertile e stimolante intorno a me, ma tolte le esperienze preziosissime che continuo a cercarmi come l'aria, poi me ne ritorno qui e la mosciaggine si reimpossessa di me.
So bene di essere condizionata dallo stato di salute attuale, però ho bisogno di uscire, da questa casa, ma ancora di più da un guado che mi fa piangere di amarezza quando mi capita, come m'è successo giusto qualche giorno fa, di ritrovare vecchi esercizi di stile decisamente buoni, rimasti lì a impolverarsi insieme con il mio primo, più che obsoleto portatile.
Mio padre me ne ha da poco regalato uno nuovo: per la precisione è il terzo che mi elargisce.
Quanto vorrei che mi servisse a buttarmi per davvero, o almeno a togliermi quel senso forse molto più antico di me di fallimento che mi ha fatto fuggire da luoghi più faticosi, ma decisamente più vivi di quello in cui ho scelto di rifugiarmi.
Mi scuso per il tono di autocompatimento di queste ultime righe, anche perché so mi scuoterò (in fondo l'ho sempre fatto), però non ho voglia quasi mai di sterili rivendicazioni. Ho talento, di questo sono sempre stata convinta, ma non sono un genio e se anche questi ultimi fanno fatica nel nostro Paese, figuriamoci quanta ne fanno quelli come me anche con un pizzico di fiducia e di incoscienza in più di quanta ne abbia mai avuta io.
Il tempo, comunque, non scorre mai invano. Mi fa soffrire, ma sono contenta per lo meno della mia consapevolezza.
E poi la vita non è finita. Magari sta solo per cominciare un secondo tempo.
Basta solo aspettare. E tornare in palestra per allenarsi ad affrontarlo con i muscoli ben caldi.

lunedì 24 settembre 2012

Come Jane Fonda... più o meno


Oggi, purtroppo, ho la febbre. Un febbrone da cavallo, penserete voi. Per quanto mi riguarda è proprio così, dal momento che mi ammalo molto raramente. Ho... trentasette e uno, udite udite, ma è come se fossi a un passo dal delirio. Temo peraltro di esserlo già abitualmente, ma lasciamo andare.
La foto che vedete in alto, del resto, potrebbe già bastare a capire in che condizioni sono.
Tempo addietro ho realizzato che tra mia madre e la Jane Fonda regina del fitness degli anni Ottanta c'era una certa somiglianza. Chi mi conosce superficialmente ravvisa a sua volta una certa comunanza tra la prima e la sottoscritta (e d'altra parte sono figlia sua e a chi altri potrei mai rassomigliare?).
Sillogisticamente, credo, ho anch'io qualcosa della Jane. Preciso subito che non si tratta delle gambe (le mie sono, diciamo così, più forti e un tantino più corte).
Quel che più ci accomuna, in ogni caso, è proprio la passione per la ginnastica, rinvigoritasi in me da quando vivo nelle Marche, dopo una lunga fase di stop che mi aveva appesantito nel fisico e nell'anima, e via via mai più lasciata. Da un paio d'anni, in particolare, frequento la palestra simil-comunale di Fermo (la cosiddetta palestra del Coni, anche se in verità è gestita da una cooperativa che mi ha dotata persino dell'asciugamano "aziendale"), che mi piace assai per l'ambiente assolutamente nazional-popolare.
A frequentare i corsi di ginnastica, siamo donne di tutte le età e immagino ceto sociale, dai 14 anni alla sessantina e passa. La frequenza scema con l'avvicinarsi della bella stagione o del Natale, però le assidue come me restano comunque numerose.
Non so spiegare perché, ma quando sono lì che salgo e scendo dallo step o dopo, quando guardo le forti luci al neon mentre ci massacrano con gli addominali, è come se vivessi un processo mistico, come se finalmente uscissi da me stessa per diventare tutt'uno con il tappetino, confortata e stimolata dalle tante gambe all'aria che vedo intorno a me.
Mi piace mescolarmi alla massa di donne in tute da ginnastica e osservare, tra una pausa e l'altra, il gruppo delle ragazzine del liceo, le più carine del corso, che chiacchierano tra loro canticchiando le brutte canzoni dance che ci danno il ritmo degli esercizi e poi conversare di inezie con una giovane laureanda con cui abbiamo stretto una forma di amicizia da quando ci siamo accorte di essere tra le poche fanno la doccia lì.
Insomma: aspetto di solito con grande entusiasmo le ore di ginnastica settimanali, che si tengono il lunedì, il martedì (giorno dell'accumulo maggiore di acido lattico, per via dei circuiti della tostissima insegnante sessantenne... altro che Jane Fonda) e il giovedì.
Oggi, ahimè, sono costretta a saltare (il lunedì c'è Tiziana, la bionda energetica insegnante con una inesauribile fantasia per le coreografie), ma spero proprio di rimettermi in fretta.
C'è infatti una sensazione davvero impagabile che provo solo alla fine, quando, dopo la doccia e la parziale (accidenti a me) asciugatura dei capelli, mi rimetto in macchina e percorro i pochissimi chilometri che mi separano da casa. In quel breve tratto, mi sento completamente in pace con me stessa, pronta ad affrontare qualsiasi sfida, in una sorta di limbo psicofisico carico di benessere.
Ecco. Sarà questa la vera ragione che ha spinto la Jane a darsi all'aerobica. Ancora adesso (almeno fino a un paio d'anni fa sicuramente) insegna ginnastica agli anziani a distanza, con quel sorriso tipico delle vere maestre del muscolo tonico, capaci di farti sentire più magre e più flessuose già dopo una sola sequenza di glutei o di squat.
E se davvero (ma sarà vero?) che un po' le somiglio, mi auguro soprattutto di conservarne lo spirito. A differenza sua, infatti, non credo che potrò (né forse vorrò, ma mai dire mai) ricorrere al chirurgo estetico, al momento del prolasso inevitabile.
Ma qui posso dirlo: mia madre è ancora piuttosto piacente (checché ne dica lei), quindi se è vero che buon sangue non mente...
La vedremo. Per forza. Il tempo corre. Accidenti se lo fa.

venerdì 21 settembre 2012

Natsume Soseki/3: il matrimonio? Una barbarie destinata a scomparire

Premetto: sono felicemente sposata, ma sono arrivata al matrimonio (civile) a una certa (e veneranda) età. Non sono quindi nella posizione di criticare coppie, etero o meno, che desiderino fare altrettanto.
Resto però piuttosto sconcertata dalla generale ansia da regolarizzazione amorosa che si respira in questo Paese. Perché una cosa sono i sacrosanti e civilissimi registri delle unioni civili, altro è la brama dei fiori d'arancio. Non sarebbe meglio concentrarsi sul riconoscimento alle coppie di fatto dei medesimi diritti che hanno le coppie sposate anziché insistere sulla possibilità o meno di mettersi un anello al dito?
Un'altra faccenda ancora è la possibilità di avere figli (quindi di adottare oppure di procedere attraverso la fecondazione di un utero in affitto o con l'impianto degli ovuli nel caso di coppie lesbiche), sulla quale, ugualmente, non mi pronuncio se non per ricordare alle coppie gay che ne esistono altrettante (anzi, numericamente forse saranno anche molte di più) eterosessuali alle quali non è consentita nessuna delle suddette strade. Anche in questo caso, in sostanza, non sarebbe meglio concentrarsi sull'allargamento delle strade per avere figli in generale, etero o meno che siano le coppie di aspiranti genitori? Lo sanno Vendola e compagno che se non hai un reddito adeguato non ti verrà mai dato un bambino in adozione né tanto meno ti sarà possibile procedere alla fecondazione eterologa che costa un botto di soldi, soprattutto se si va all'estero a effettuarla?
Pur rispettando, insomma, le scelte sessuali e di vita di ciascuno, mi sembra che come al solito in questo Paese si alzino polveroni giusto pour parlez.
Mi colpisce, pertanto, ancora di più la modernità di Natsume Soseki, l'autore giapponese di cui ho già parlato nei due precedenti post: di seguito trascrivo qualche brano tratto da Io sono un gatto dedicato al matrimonio. Come ho già detto, non sono sicura di essere completamente d'accordo con lui (essendomi sposata anch'io e non solo per questa ragione), però mi ha fatto molto riflettere. E sono sicura che possa fare  analogo effetto pure a voi che passerete di qua.

Un bel giorno un filosofo discenderà dal cielo per predicare una nuova verità. Ecco quello che dirà: l'uomo è un animale dotato di personalità. Annullare questa personalità equivale ad annullare l'uomo... Continuare a sposarsi, costretti da un'abitudine perversa, è una barbarie contraria alla natura umana, una barbarie perdonabile in un'epoca ignorante in cui la personalità non si era ancora sviluppata, ma nella nostra epoca civilizzata non fermarsi a considerare la scelleratezza di quest'usanza perniciosa sarebbe un grave errore. Oggi che siamo arrivati a un alto livello di civiltà, non c'è motivo che due personalità distinte si associno con un grado di intimità superiore al normale... dobbiamo opporci con tutte le nostre forze a quest'usanza perversa, per il bene del genere umano, per il bene della civiltà, per preservare la personalità dei giovani stessi...

E più avanti, rispondendo alle contestazioni di un giovane interlocutore (la frase riportata sopra è di uno dei protagonisti della storia: l'irriverente Meitei, uno dei possibili alter-ego, oltre al gatto, dello stesso Soseki):
L'arte conoscerà lo stesso destino della coppia. Sviluppare la personalità significa renderla libera. E avere una personalità libera, per un individuo, significa essere soltanto se stesso... in futuro, ogni individuo avrà una personalità distinta e originale, e dei versi composti da qualcun altro non presenteranno più alcun interesse... Prendete Meredith, prendete James... hanno pochissimi lettori. Quattro gatti. Perché per trovare le (loro opere) interessanti bisogna avere una personalità della stessa forza. Questa tendenza andrà accentuandosi sempre più, finché si arriverà a un momento in cui il matrimonio verrà considerato immorale, e l'arte sarà abolita. Non credi? Il giorno in cui le parole scritte da te mi saranno incomprensibili, e tu non capirai quelle che scrivo io, fra me e te non sarà né arte né un accidenti di niente. 

Più avanti Sosuke-Meitei mette a confronto la cultura occidentale e quella orientale, giudicando la seconda inutilmente superiore: lo sviluppo della personalità, causa della fine del matrimonio e dell'arte, finirà per produrre irrimediabili depressioni nervose anche sui seguaci del taoismo.
Tolto, però, l'esito pessimistico del suo ragionamento, bisogna ammettere che siamo già nell'epoca in cui tutti parlano ma nessuno ascolta.
E il dibattito sui matrimoni gay ne è solo l'ultima conferma: tra un mese chi se ne ricorderà più?
E chi verrà davvero a leggersi il mio blog tra i milioni e milioni di omologhi che infestano il Web? Quattro gatti, nel mio caso, sarebbe già un lusso.
E tuttavia, mi auguro dal profondo che sia ancora possibile fare arte e dare speranza alle generazioni che verranno, al di là di come siano venuti al mondo e chi li abbia cresciuti.
Di questo soltanto dovremmo discutere, se davvero abbiamo a cuore il futuro dell'umanità, e non delle elezioni del 2013, basate, quelle sì, su matrimoni stretti da forze politiche muffite e vetuste.

giovedì 20 settembre 2012

Natsume Soseki, una scoperta preziosa


Detto fatto: ho cercato qualche informazione in più su Natsume Soseki, nella foto sopra, tratta dalla pagina Web della casa editrice Neri Pozza che ha tradotto immagino una parte della produzione letteraria del grande scrittore giapponese.
Oltre a Io sono un gatto credo che varrebbe la pena leggere Guanciale d'erba, il libro preferito di Glenn Gould (noto misantropo afflitto da strane manie igienistiche, quindi proprio il genere che piace a me, che sono un po' masochista) e E poi, incentrato sull'amore di un rampollo di buona famiglia per una giovane dallo sguardo malinconico e gli occhi grandi (masochista e pure romantica, che brutto carattere).
Direi che il tipo dalla raffinatissima scrittura se lo meriti, considerato come ne ho fatto la conoscenza, ossia per via dell'errore di una cassiera che me l'ha infilato nella busta degli acquisti senza farmelo pagare.
Certo, ho ancora diversi tomi (e tomini, che non sanno di formaggio. Uh, che battuta) da affrontare, ma tanto lo so che non ce la farò mai e che continuerò ad accumularne di nuovi.
In ogni caso, Soseki è stata davvero una bella scoperta. Ed è sempre piacevole accorgersi che c'è sempre spazio per imparare ancora.

lunedì 17 settembre 2012

Il Novecento secondo Natsume Soseki. E il suo gatto

Bice e Io sono un gatto
Mai fidarsi delle scritte civetta sui libri, comunque, per lo meno, è bene diffidarne.
Io sono un gatto di Natsume Soseki è entrato per caso a far parte della mia libreria, grazie a una gentile (quanto inconsapevole) commessa della Feltrinelli di Pescara. Per mesi ho tenuto perfino lo scontrino, nel quale non c'era traccia dell'acquisto da me, effettivamente, non previsto. Avrei voluto riportarlo, in altri termini, fino al giorno in cui, a metà estate, l'ho sfilato dal ripiano dei libri non ancora letti (l'accumulo degli inevasi ahimè continua) e ho finito per cambiare idea.
Ad attrarmi, lo confesso, le famigerate scritte-recensioni sulla copertina e sulla quarta.
"Un romanzo allegro e importante, scritto per il divertimento dei lettori. Di ieri e di oggi", recitava la scritta in copertina, tratta - ma sarà vero? - da La Stampa.
A divertirmi mi sono divertita, almeno a tratti e non posso negare l'importanza dell'opera di questo autore giapponese vissuto a inizio Novecento, da quel che ho capito una sorta di Alessandro Manzoni del Sol Levante.
Le scritte, però, non erano finite: in quarta si dice che protagonista del libro è un "gatto, nero, audace, scettico, creativo, fine osservatore e filosofo". Tutto giusto tranne il fatto che il gatto non è nero, bensì giallino o qualcosa del genere. Il nero che vi si descrive è rozzo e poco incline alla speculazione, ma se non fosse stato per l'imprecisione, tutto sommato, il resto risponde abbastanza al vero. In questo caso la recensione in pillole va attribuita a L'Espresso.
Più sinteticamente (e direi più appropriatamente) Alias del Manifesto giudica Io sono un gatto come "il primo romanzo giapponese moderno". Pur non potendo giurarlo (non so niente di letteratura giapponese, tolto un po' di Murakami e qualcosa di Mishima), il libro parla proprio dei mutamenti nella società di inizio secolo scorso prodotti dalla modernità e dai sempre più frequenti contatti con l'Occidente.
Ed è proprio qui il punto: non è affatto un romanzo allegro. Certo, a tratti si sorride, in qualche caso si sghignazza pure, ma ogni parola è pervasa da un sottile smarrimento, lo stesso - all'incirca - descritto da tanti romanzi coevi di altre latitudini.
Il Novecento, d'altra parte, ha prodotto la più grande rivoluzione nei costumi mai vista prima, di pari passo con innovazioni tecnologiche dall'impatto enorme. Pensiamo solo alle automobili, agli aerei, ma anche al cinema e al telefono. Insomma, con il secolo nel quale sono nata anch'io è cominciata l'era della velocità, dei mutamenti rapidi. Direi proprio che è cominciata l'epoca del non ritorno.
In assoluto, indietro non si torna mai, ma in particolare non è possibile fermare il progresso tecnico, anche quello che ci fa bruciare tonnellate e tonnellate di energia, con conseguenze probabilmente ancora più terribili di quelle preconizzate dagli ambientalisti.
Non siamo più capaci di rallentare e chi lo fa spesso vi è semplicemente costretto. Chi invece decresce consapevolmente, intendo dire, chi applica i principi - a parole - giustissimi dalla cosiddetta decrescita felice, sa di essere destinato a restare minoranza. Gli altri, i miliardi di poveri che abitano la terra, vorranno continuare a crescere. Eccome se lo vorranno.
Mai periodo storico è stato più vorace di quello che ha causato così tanta acuta inquietudine nello scrittore giapponese.
Pur non svelando il finale della storia, insomma, consiglierei di leggere Io sono un gatto fino in fondo per poterlo giudicare nella sua interezza.
Qui mi limito a suggerirvi di soffermarvi sulle pagine dedicate alle previsioni sul futuro della società, in cui, in estrema sintesi, finiremo per starcene ciascuno per conto nostro, decidendo anche il giorno della nostra morte.
Non so se sono d'accordo con Soseki, so solo che quelle pagine mi hanno molto impressionato.
Mi riprometto infatti di tornarci su e di approfondire un po' meglio la biografia di questa straordinaria personalità.
E in ogni caso, che abbia scelto di incarnarsi in un gatto (forse proprio nel suo?) per parlare di massimi sistemi è estremamente significativo.

venerdì 14 settembre 2012

Gli eroi di tutti i giorni e l'intimo errare verso l'alto... nonostante tutto!


Ho scattato questa non memorabile fotografia a Sassoferrato, un piccolo borgo dell'Anconetano che ho avuto occasione di visitare di recente. Ero rimasta colpita dall'intrico di linee orizzontali e verticali che celavano solo parzialmente, oltre alla scritta nel cartello, un magnifico orto, uno dei molti che ingentiliscono i paesi d'Italia lontani dai centri urbani maggiori.
Inconsciamente, devo aver associato l'eroismo dei grandi combattenti di tutti i tempi a quello molto meno visibile, ma non per questo meno importante, di coloro che lottano con tenacia per strappare manciate di ettari, magari anche solo qualche metro, alla cementificazione allo scopo di farvi crescere qualcosa di vivo.
Quando ne incontro qualcuno, provo un grande senso di pace e anche un pizzico di invidia per chi è molto più avanti di me nella comprensione di ciò che più conta nella vita.
Curiosamente, ho poi scoperto che il libro di Luciana Quaia, intitolato Intime erranze, il familiare curante, l'Alzheimer, la resilienza autobiografica, da me letto per motivi professionali, si incentra proprio sul concetto dell'eroe di tutti i giorni, ossia di colui o colei che non compie atti memorabili per passare alla storia, bensì è capace di affrontare un cambiamento prodotto da eventi critici piegandosi, sì, ma non spezzandosi. Come? Magari anche dedicandosi alla cura di un piccolo orto. In ogni caso, sapendo guardare autenticamente dentro di sé per acquisire un nuovo centro. C'è infatti una sottile differenza tra le parole resistenza e resilienza. La prima viene in genere associata alle azioni di lotta di chi combatte contro un tiranno; la seconda proviene dalla fisica - ho scoperto - ma è ormai di uso comune nelle psicoterapie a beneficio di chi ha subito un forte trauma, per esempio l'essersi ritrovato alle prese con la grave malattia di un familiare.
A mio avviso, però, imparare a piegarsi senza spezzarsi riguarda un po' tutti, a maggior ragione chi non trova consolazione in una religione o in qualche forma di meditazione trascendentale.
Il dolore fa parte della vita e solo se si hanno spalle abbastanza larghe e muscoli sufficientemente flessuosi si può andare avanti e magari diventare anche migliori.
Del libro di Luciana mi hanno colpito in particolare le citazioni letterarie (non essendo una tecnica della sua materia, penso fosse inevitabile). Due sembravano scritte appositamente per me.
Ve le trascrivo.
Da Giuseppe Conte, Il passaggio di Ermes. Riflessioni sul mito:

Quando, nel mezzo di una conversazione concitata, cadeva all'improvviso un istante di silenzio, i Greci dicevano: 'passa Ermes'.
Ermes, il dio viaggiatore, che viene da lontano ed è già pronto a ripartire, il dio messaggero, il dio delle piazze affollate, dei crocicchi, presente sulle porte d'ingresso delle città e delle case, il dio dei mercati e dei mercanti, ha dunque a che fare anche, e imprevedibilmente, con il silenzio. Con quel silenzio subitaneo ma quasi preordinato, leggero come un soffio e profondo come un baratro, in cui ciascuno di noi sente la propria solitudine sulla terra, la difficoltà di ogni comunicazione, la sospensione stessa dell'essere sui suoi fondamenti, e avverte l'irruzione di una forza invisibile, fulminea ed amica presso di sé. E' il silenzio dell'anima: Ermes, con il suo passare, ci porta intorno all'anima un messaggio muto: ci dice che la sua funzione di guida e di scorta riguarda soprattutto lei, il suo viaggio verso le ombre. E ancora: Ad Ermes interessa rendere mobile lo spazio, essere sempre nel punto dove si transita, dove una porta si apre, e nel visibile irrompe l'invisibile.

Spesso mi sembra di essere come Ermes, ossia di essere vera solo nei passaggi da uno stato all'altro. Sarà che nel mio nome c'è l'atto dell'andare, del condurre? Di parole da aggiungere ne avrei, ma preferisco lasciarvi riflettere sulle assai più interessanti frasi del poeta citato da Luciana.

L'altra citazione che mi ha fatto trasalire è verso la fine del libro ed è di Emily Dickinson:

Non conosciamo mai la nostra altezza
finché non siamo chiamati ad alzarci.
E, se siamo fedeli al nostro compito, 
arriva al cielo la nostra statura. 
L'eroismo che allora recitiamo
sarebbe quotidiano, se noi stessi
non c'incurvassimo di cubiti
per la paura d'essere dei re.

E delle regine. Di poco più di un metro e mezzo, per quanto mi riguarda.
Il mio intimo errare, insomma, continua: grazie a Luciana per avermene fatto prendere più consapevolezza. E non è detto che non mi metta a realizzare gli esercizi di scrittura autobiografica che proponi per ragioni molto più serie della mia auto-analisi da giornalaia!