giovedì 21 febbraio 2013

Montaigne e la soggettività: una lezione imperdibile. Di vita

Dall'introduzione ai Saggi di Michel Eyquem Montaigne

Scrivere un diario, scriverlo male, significa normalmente scrivere le cose più importanti, non i dettagli.
Lo dice una delle partecipanti alla conversazione su Montaigne (adesso che lo scrivo mi rendo conto di sapere di chi si tratta... che emozione) che mi ha mandato il mio carissimo amico Paolo Ferrario sotto forma di link su Facebook.
Le stupidate si scrivono identiche anche oggi, qui su questi spazi virtuali, e forse ancora sui diari scolastici.
In ogni caso, l'attenzione ai dettagli richiede tempo, impegno e sì, coraggio.
Consiglio caldamente ai miei pochi lettori di ascoltare la lezione-conversazione su questa grande figura vissuta nel '500, di una modernità sconvolgente.
Mi piace moltissimo l'alternanza tra "l'alto e il basso" (vi sfido a trovare qual è l'uno e l'altro) e lo spirito di condivisione che caratterizza il mio amico (collerico, ma molto molto intersoggettivo) Paolo.
Mi stanno facendo tornare in mente i miei diari cartacei, per i quali provo una qualche nostalgia, semplicemente perché, come Montaigne anch'io m'interrogo su quello che so. E che soprattutto NON so. Tutti i giorni. E se sono passata al diario online è perché la ricerca non è finita (tutt'altro) e spararlo in questo spazio cibernetico mi aiuta a non dimenticarmelo mai.
Grazie della lezione e delle belle voci che la animano.
Buon ascolto a voi.

venerdì 15 febbraio 2013

Nikka Costa e il senso della vita



Di recente ho fatto una permanente leggera per contrastare l'effetto capello-spiaccicato che inevitabilmente si ripropone ogni volta che la poco folta chioma si allunga un po'.
Il risultato? Stamattina, guardandomi allo specchio, tolte - naturalmente - le rughe e l'abbigliamento da casalinga di Voghera (niente a che vedere con le desperate housewives Usa, tanto per capirci), sembravo Nikka Costa. E non la Nikka di oggi, classe 1972, bensì quella che ho conosciuto ai tempi del suo album con il papà Don Costa che, a pensarci oggi, deve essere stato un bel  mostro.
Ieri pomeriggio ho visto un pezzetto del concerto che la povera bambina di un tempo fece con il padre all'arena di Verona. Aveva lo sguardo terrorizzato, da bambolesca creatura costretta a un gioco troppo più grande di lei. Non so nulla di come Nikka sia cresciuta né se poi sia riuscita a cavarsela "on her own". Però lo sguardo triste che esibiva al programma di Carlo Conti, quello in cui ripescano i relitti del passato con una crudeltà e un cinismo per me insopportabile, non mi pareva finto.
Sia come sia, la sua (si fa per dire) sosia chietina è cresciuta anche (non solo, per fortuna) con le canzoni di Nikka. In particolare, ho cominciato ad apprezzarle particolarmente quando sono stata anche in grado di comprenderne i testi che, ovviamente, avevo già imparato a memoria anni prima. E sì, perché essendo una ultraquarantenne, basta farsi un po' di conti: ho cominciato a studiare Inglese in quarta ginnasio, quindi diversi anni dopo aver ascoltato per la prima volta l'LP di Nikka, di cui ricordavo alla perfezione tutte le foto e le espressioni del volto. A pensarci bene, oltre alle sue canzoni, sapevo perfettamente anche Eye of the tiger dei Survivor. E vabbè.
Veniamo al punto.
Da poco (come ho già scritto) ho ripreso a studiare Inglese con molto entusiasmo: giusto ieri, influenzata inconsciamente dal clima sanremese, mi sono messa a pensare alle canzoni che conosco a memoria per esercitarmi sulla pronuncia. Ed è così che mi si è riproposta la più famosa interpretazione di Nikka, cioè On my own. Il testo riflette tutta la retorica a stelle e strisce del sapersela cavare da soli, del self-made man (woman) e tutto il resto, però la musica stra-pop e la voce infantile della ex bambina americana mi danno ancora adesso i brividi. E mi fanno pensare che sì, l'unico modo per scuotersi da dolori e altre ambasce è uscire "da qui" e occuparsi di se stessi in piena autonomia.
Detto in altri termini, la canzone di Nikka ha influenzato la mia personalità molto più di quanto voglia riconoscere persino adesso che ne sto parlando.
C'è però un secondo brano che sento - ancora più fortemente - mio.
Si tratta di It's your dream, che avevo trascritto sul mio diario, azzardandone anche una traduzione personale.
Adesso non sto qui a riproporvela, ma voglio sottolinearne (forse per archiviarla per sempre nel mio cuore) la frase finale: "Cause you're never gonna pass this way again. No, you're never gonna pass this way again".
Non posso farci nulla: l'ho risentita e... indovinate un po'? Ho pianto. E certo. Come potevo esimermi?
A riascoltarla tutta, ne capisco oggi più che mai le ragioni.
Anche in questo caso, il testo incarna alla perfezione la retorica americana del farsi-tutti-da soli. Ma la canzone dice qualcosa in più, e cioè: se hai un sogno, cerca di realizzarlo. Non lasciare che le paure ti blocchino e anche se cadi rialzati e vai avanti. Perché se non lo fai adesso che ne hai l'occasione, non potrai farlo mai più. In breve, il buon vecchio adagio "ogni lasciata è persa", nato sul più dotto stra-citato, "carpe diem".
A quattordici-quindici anni la pensavo così, esattamente come oggi. Mi domando, certo, se l'essere già così tanto consapevole dell'esistenza dei fallimenti e della sofferenza non mi abbiano condizionato anche in negativo. Chissà che non abbia avuto troppa paura di riuscire in qualcosa al punto da non avvicinarmi mai troppo al "successo". Non so rispondere, perché forse una risposta univoca non c'è.
In ogni caso, nel complesso non mi dispiaccio (oh, Nikka Costa era una bambina molto carina....), ma mi stupisce sempre quando realizzo di non essere per nulla cambiata negli anni. Sto parlando del carattere, delle illusioni e dei sogni (per l'appunto), sempre quelli nonostante il tempo volato via davvero in un soffio.
La mia nonna materna me lo diceva spesso, guardando il paesaggio montano oltre le finestre della sua grande casa: "Dopo una certa età gli anni cominciano a scorrere più in fretta". Non riusciva a credere di aver superato i settant'anni (ai tempi dormivo spesso da lei, spedita da mia mamma che non voleva che restasse sola la notte). E, considerato il suo animo poetico e sognatore, oggi lo capisco più che mai.
Se ho scelto di presentarmi con la fotografia di me piccolina e se di recente ho ritirato fuori quel bellissimo primo piano di una me treenne al mare, è perché, evidentemente, anch'io non vivo molto nel presente. O forse no. Forse ho solo bisogno di fare il punto, di  ritrovarmi, di rivedermi per poter andare avanti lungo quella via che non potrò percorrere mai più una seconda volta.
Sì, penso sia questa la ragione del mio continuo, urgente, bisogno di amarcord.
In tutti i casi, dedico questa canzone a tutte le cercatrici di sogno, le Nikka Costa della mia generazione, sperando che ne abbiate realizzato almeno qualcuno. Buona vita a tutte.












lunedì 11 febbraio 2013

Buon San Valentino a tutti con Betty la Fea!



Lo ammetto: sto diventando una casalinga di Voghera, anche se con il nord non ho niente (ma proprio niente) a che fare.
Lo dimostra anche la mia passione tardiva per Betty la Fea, scoperta una sera a casa dei miei qualche mese fa.
Il video sopra riportato è tratto da una delle ultime puntate della telenovela colombiana, a trasformazione della "cozza" avvenuta. Giusto ieri sera è andato in onda il matrimonio tra la medesima e Armando Mendoza, il personaggio interpretato da Jorge Enrique Abello (ne ho imparato il nome solo ieri sera!), nella vita attore e regista.
Il tipo che canta è sicuramente famosissimo in Colombia, come anche il pianista dai tratti andini che suona al loro matrimonio. Ovviamente, non li avevo mai visti, ma lo ammetto: mi è scappata pure la lacrimuccia, come se stessi assistendo a una cerimonia nuziale vera!
Da stasera inizia il sequel, intitolato, com'era prevedibile, Ecomoda, il nome dell'azienda che alla fine dirigeranno insieme gli sposini felici. A dirla tutta, la presidenza resta a Betty, rivelatasi una manager di grande valore. E, considerando che la telenovela è di oltre dieci anni fa e che la Colombia è un Paese difficile, in crescita, certo, ma con gravi problemi socio-economici, resto ulteriormente colpita dalla scelta per così dire "femminista" degli sceneggiatori. Sarò anche diventata una casalinga di Voghera, infatti, ma il mio nuovo status non mi ha fatto dimenticare in che razza di presente e di Paese tocca vivere: una telenovela così da noi non sono capaci di farla, semplicemente perché sarebbe troppo irrealistica.
Stoppo subito la lamentatio.
E saluto Betty, Armando e la fantastica banda delle racchie con uno spezzone del finale, il punto in cui canta il pianista andino e la bella signorina con la voce da Fado: una scelta che più sdolcinata di così non si può!




Che altro dire?
Alla vigilia di San Valentino, auguro a tutti i coraggiosi che stanno mettendo su famiglia in questi strani anni di mantenere il sorriso anche nei giorni più bui. Non lasciate che vi rubino i sogni. Non permettetelo mai.

domenica 3 febbraio 2013

Minime vittorie per grandi conquiste



Non gioco spesso a carte e mai alle lotterie: sarà per questo, probabilmente, che non vinco molto spesso.
Sia come sia, le volte in cui è successo che abbia vinto qualcosa mi sono rimaste tutte impresse nella memoria e ancora adesso, quando mi tornano in mente, mi regalano un sorriso lieve lieve.
Comincio dalla epocale partita a tennis, nel torneo detto "doppio giallo", in cui si giocava suddivisi in squadre da sette persone, ciascuna nel proprio livello. Il più scarso corrispondeva al numero 7. Com'è facilmente intuibile, io ero la settima della mia squadra. Quel giorno dovevo incontrare una donna di età per me assolutamente indefinita, anche se, a ripensarci adesso, doveva avere meno anni di quelli che ho attualmente. Io invece ero un'adolescente piazzatella ed emotiva (più o meno come ora, forse leggermente più pingue), incapace di aggressività soprattutto al di fuori della cerchia familiare. Essendo però una cancerina finita e sputata (anche se all'apparenza molto ben celata dietro l'ascendente Leone, che per fortuna sembrerebbe essermi capitato in sorte), non è mai il caso di stuzzicarmi troppo. Se pizzicata nell'orgoglio, infatti, divento parecchio (si fa per dire) pericolosa. La tipa, invece, continuava a irridermi a voce alta, lasciando intendere che con una come me avrebbe avuto vita facile. Tutti i torti, in effetti, non li aveva, visto che stavo perdendo come al solito l'ennesima sfida tipo 6-1, 6-1. La vittoria del terzo set, insomma, pareva scontata a lei e agli astanti.
E invece. Arrivammo a un quinto set serratissimo, vinto per un soffio dalla sottoscritta, grazie alla perdita di lucidità della mia avversaria, incredula troppo incredula che quel topastro bassetto gliela stesse mettendo in quel posto. Ricordo ancora la sua rabbia e la mia gioia trattenuta. Anche dopo la vittoria, infatti, mi guardai bene dal mostrarmi troppo felice, facendole magari le linguacce. Sapete che c'è? Gliele faccio adesso da questo blog, augurandomi naturalmente che abbia imparato a controllare meglio i nervi, l'unica vera arma segreta di questo gioco così bello e così faticoso. A mia volta, spero di essere diventata più capace di tenere il punto nelle situazioni, dosando aggressività e remissività nei tempi giusti. A dirla tutta, di recente ho avuto una ricaduta all'indietro, ma immagino che ogni tanto possa succedere.
Un po' di tempo dopo, invece, ebbi un colpo di fortuna vero e proprio, grazie al costume di carnevale prestatomi da mia sorella. In quegli anni, ci tenevamo parecchio a travestirci e spesso ci rivolgevamo alla sarta di famiglia per farci cucire vestiti ad hoc. Ho l'impressione di aver già raccontato questo aneddoto (sto diventando come Zio Paperone con il Klondike), quindi la faccio breve. Vinsi un premio per il costume più originale della festa di carnevale che si teneva al palazzetto dello sport di Chieti. Io non volevo neanche andarci, tanto che, per l'appunto, avevo rimediato con il costume da formica fatto in gommapiuma di mia sorella. Non dimenticherò mai quando ci chiamarono sul palco per darci i premi e le 100 mila lire (ebbene sì) spiaccicatemi sulle mani da uno degli organizzatori.
L'ultimo episodio è assai più recente e riassume, in un certo senso, entrambi gli aneddoti sopra narrati.
Martedì scorso in palestra sono stata lasciata sola nel circuito a più stazioni che ci sottopone tutte le settimane la nostra insegnante. Nessuna, voglio dire, ha voluto fare gruppo con me. Lì per lì mi sono sentita un po' persa e anche un pochino rattristata: io non avrei mai lasciato una mia compagna da sola se, formatisi i gruppi, mi fossi accorta di disparità del genere. Con umiltà, però, mi sono messa alla mia solitaria postazione a fare gli addominali. Il secondo esercizio richiedeva, invece, la posizione prona e l'uso di un pesetto per le braccia. E qui arriva il punto: Rita, l'insegnante, è venuta da me e, dopo avermi schiacciato la fronte sul tappetino e avermi rispiegato nuovamente come muovere le braccia tenendo ben stretti i glutei, se n'è uscita con un bel : "Bravissima!", che io ho metaforicamente rigirato alle mie compagne che invece dopo ho visto schiattare (ovviamente non tutte) sotto il "peso del peso". Mi avete lasciato sole? Beccatevi questa. Il resto della lezione è stata (quasi) tutta un trionfo atletico, comunque senza più astio né impermalosimenti.
Di vittorie minime di questo genere è fatta la vita. Almeno la mia.
Certo, non sempre si è disposti ad ammetterlo, ma diciamo che ci sto lavorando.
Non so perché, per esempio, ma mi sento spesso chiamata in causa dai giudizi trancianti di un giovane conoscente sul comportamento altrui: so che non si rivolge a me (anche perché, in effetti, come potrebbe? Fuori da Facebook ci siamo visti tipo tre volte), però mi fa venire una coda di paglia lunga così.
Qualche giorno fa, dicevo, ha scritto una cosa del tipo: "come si riconosce un rinunciatario? Dal fatto che dice di non aver nulla da dimostrare".
Accidenti. Mi ha dato da pensare. In generale, secondo me, dovremmo proprio uscire dalla logica del voler o non voler dimostrare qualcosa agli altri, però a noi stessi qualcosa la dobbiamo dimostrare. Eccome.
Soprattutto, poi, se si avverte un certo senso di fallimento vero o presunto, se si sa di aver buttato via tempo e chance, se la vita ci scorre troppo velocemente tra le mani.
Io voglio dimostrare di essere. Qualcuno e qualcosa. Certo che lo voglio.
In questo senso, il giovane conoscente ha ragione: abbiamo tutti qualcosa da dimostrare e da mostrare, non facciamo finta che non ci importi.
Allo stesso tempo, però, bisogna anche perdonarsi le proprie debolezze e saperle perdonare agli altri.
Forse quel tipo è troppo giovane e gli ci vorrà del tempo prima di capirlo. In ogni caso, io so che se non fossi stata in adolescenza un topastro tondetto e timido e una giovane donna emotiva, difficilmente mi sarei trasformata in un'adulta che riesco ancora a guardare negli occhi. E ad avere, in fondo, ancora fiducia nel mondo.
E pazienza se, cambiando di nuovo pelle, non avremo nessuno (o quasi) affianco.
Può essere davvero esaltante sentirsi i muscoli che pompano sangue e la testa che si fa più leggera.
Sì, l'autonomia è la conquista più grande.

venerdì 25 gennaio 2013

Video e inglese, sentieri di dignità

Comunque vada a finire, vale la pena provarci. Fino in fondo.
Da qualche tempo, per esempio, ho ripreso a studiare inglese e mi sono prefissa l'ambizioso obiettivo di arrivare a usare anche su questo spazio, in un giorno chissà quanto lontano, la lingua allo stato attuale ancora più diffusa (usata) al mondo. Certo, sarebbe meglio puntare sullo studio del mandarino, ma temo che mi ci vorrebbe più tempo e soprattutto denaro, due elementi (soprattutto il secondo) che cominciano a scarseggiare.
Contemporaneamente, sto cercando di imparare, da totale autodidatta, a montare i video, un'attività, lo confesso, che mi piace veramente molto. Al punto da rischiare di farmene fagocitare del tutto, cadendo in una sorta di trance da nerd (come si chiamano gli smanettoni da un po' di tempo a questa parte. Mi chiedo sempre quando sia stata introdotta sta' inglesistica parola) un tantino insana.
Per fortuna poi ci pensa la palestra e la mia voglia di respirare aria fresca a farmi riscuotere.
E così, tra una lezione d'inglese, una visita in biblioteca per raccogliere informazioni sulla sibilla picena e altre leggende delle stupende montagne che contemplo spesso dalle finestre, e infine la ricerca e selezione delle immagini delle nostre gite fuori porta, è cominciato il nuovo anno, dalle prospettive piuttosto incerte in verità non solo per noi Sfaccendati.
E d'altra parte, mi domando e lo chiedo a voi: che cosa mai potremmo fare per sgombrare almeno un po' di nebbia da questo tunnel lunghissimo che abbiamo imboccato, il Paese e noi personalmente?
L'ho già scritto, ma conviene ripeterlo: l'unico bene da coltivare sempre, in tutte le fasi della nostra vita, è il rispetto di noi stessi. Solo così potremo continuare a guardarci nello specchio, impallidendo appena.
Perciò voglio chiarire un punto, a beneficio di quelli che ti esortano paternalisticamente ad andare avanti su questi sentieri, come farebbe uno zio magnanimo con il nipotino che si esercita alla chitarra: per me, lo studio della lingua, il montaggio di gallerie fotografiche e video, gli stessi post di questo blog non sono hobbies (per l'appunto), ossia non sono passatempi come il mio amato tennis dell'adolescenza o come il burraco per pensionati felici.
Sono invece la realizzazione pratica di questa battaglia continua per la dignità, il sogno di riscatto di chi spera (e lotta) ancora.
Detto questo, sono lieta di presentarvi il primo video realizzato congiuntamente da mio marito Sfaccendato e da me: quello che vedrete è il risultato di tre diverse passeggiate al mare, in giorni e luoghi differenti dello scorso autunno, così diverso da tutti quelli vissuti finora.
Sono fierissima del risultato, per quanto imperfetto sia: le musiche, composte dal compagno della mia vita, mi hanno guidato nel rimontaggio di alcuni passaggi e nella selezione finale del girato.
Spero proprio che sia solo un inizio di una collaborazione tra noi. Comunque vada a finire, valeva la pena provarci. E sì.
Buon ascolto e buona passeggiata al mare, amici.





domenica 20 gennaio 2013

Il mezzo compleanno



Da oggi comincia il conto alla rovescia fino al prossimo 20 luglio.
Esattamente sei mesi fa compivo 41 anni: dunque oggi è il mio mezzo compleanno, il che vuol dire che da domani di anni ne avrò quasi 42, non più strenuamente 41 fino alla vigilia del mio personale natale. Dichiarerò apertamente la mia età anche a chi, eventualmente, dovesse chiedermela (ma dopo gli anta vedo che accade meno di frequente: nonostante creme e fitness, per una donna, la mezza età continua a essere suggellata con il superamento della boa dei 39 e se chi ti guarda l'ha capito eviterà pietosamente di fare domande indiscrete).
Sarebbe il caso di fare bilanci? In realtà no, anche perché ne faccio di continuo tutti i giorni (e non di rado pure più volte al giorno) e semmai oggi vorrei soltanto rilassarmi.
Ci tenevo tuttavia a fissare sul mio lagnoso blog personale questa abitudine del mezzo compleanno, che esiste da ben prima che arrivassi a 40 anni.
Se non vado errata, ho cominciato a percepirmi con l'anno in più sulle spalle prima dei 30, altro step piuttosto sentito dalle donne, o almeno da quelle che conosco io.
Nella versione anonima di questo spazio, che ho conservato più o meno finché è durato Splinder, ho pubblicato varie foto della me più giovane, compresa una scattata nell'estate 2001, in un periodo molto importante della mia vita.
Avevo bisogno di buttar fuori chi ero forse per capire meglio chi sono.
Sotto questo aspetto (ma chissà) ho l'impressione di essere a buon punto, ma temo che sia difficile che lo si percepisca all'esterno. Non escludo, quindi, che scriverlo quassù, adesso che potenzialmente sarei come su una pubblica piazza, mi serva per lanciare qualche messaggio neanche tanto sottinteso.
A quasi 42 anni non è più il caso di perdere tempo, meno che mai con chi si ostina a vederci come quando ne avevamo molti meno.
I mutamenti sono lenti, certo, e spesso non sono chiari fino in fondo neanche a chi li vive, però con pazienza, rispetto e ascolto reale li si può vedere. Direi proprio che siano leggibili in tutto ciò che siamo, che facciamo, ed è così bello quando qualcuno, finalmente, te lo fa notare.
A me piace vedere i cambiamenti altrui, soprattutto quando rendono migliori.
E non credo sia solo una questione d'età, benché sia proprio grazie ai miei anni in più che ho capito quanto sia importante non nasconderli, per l'infantile paura di deludere chi continua a vederci come eravamo un tempo.
Ho capito anche un'altra cosa: non è solo la distanza geografica e cronologica a cristallizzare i rapporti ad anni passati. E' più quella mentale a fare la vera differenza: se c'era già prima, è difficile che dopo, con il rarefarsi degli incontri, si possa recuperare il tempo perso e imparare a conoscersi daccapo.
Sarà successo molte volte anche a me di inquadrare qualcuno in un modo e di non essere stata in grado di percepirne i mutamenti con lo scorrere del tempo.
Fa male quando capita con le persone che una volta ci sembravano tanto simili, tanto amiche, ma, per l'appunto, è sempre bene interrogarsi se non ci sia stata anche da parte nostra una certa quota di schematizzazione.
Ci sono persone, per dire, che mi mancano moltissimo, ma riparlandoci di recente, ho capito che ci siamo allontanate. Con altre, invece, non è successo, ed è davvero un miracolo ritrovarsi come se ci si fosse visti il giorno prima.
In ogni caso, come già ho considerato in post simili a questo, non ho più intenzione di fingere stati d'animo che non provo pur di risultare gradita alla collettività. La "Cica" non c'è più, la "Mussolini" men che meno, "Alina", forse, un po' è rimasta soprattutto perché come ai tempi in cui fu coniato quel soprannome, non ho smesso di tenere diari.
Chi sono adesso? Sempre la stessa scassapalle, con qualche ruga (accidenti quante!) in più e il solito sarcasmo a tratti greve.
Gli anni vissuti sono però molti di più e anche se penso tuttora di avere ancora una corazza solo all'apparenza dura e se mio marito prende sempre in giro il mio presunto autolesionismo, non ho davvero più voglia di farmi inutilmente del male, tentando di essere ciò che non sono.
Mi basta quel che sono e quel che voglio diventare. E farò di tutto per non perderlo di vista. Per non perdermi di vista.
E come ho già detto, chi mi ama mi seguirà. Pazienza per gli altri.
Auguri a me, quasi 42enne.

venerdì 11 gennaio 2013

Pessimista io? Ma no


Chissà come si chiamava il fotografo che mi scattò questa fotografia. Al di là della tenerezza che provo a rivedermi così graziosamente bambina, la trovo molto ben fatta pure tecnicamente. In particolare, resto sempre molto colpita dalla bambolina che stringo nella mano sinistra, la testa tonda e pelata, molto simile alla mia, coperta da quei sottili e radi capellini biondi, e quel braccino bianco, anche in questo caso assai simile al mio destro tondo e morbido come una fetta di pandoro. Infine c'è tutto quel rosso, del moscone su cui ero appoggiata e del costumino dalla fantasia anni '70. Per me è un piccolo esempio di perfezione compositiva, che mi ha spinto a ripubblicarla qui, assecondando un non tanto celato bisogno di amarcord, tipico di chi vive un presente molto meno rassicurante di quel lontano giorno della mia infanzia.
Stamattina l'ex bimba è stata presa per una persona un po' depressa, mentre, una volta tanto, mi sentivo semplicemente realistica. Se devo proprio farmi sfruttare, consideravo con il commercialista amico di mio padre, preferisco fare lavori umili, manuali magari (sempre ammesso che ne sia capace) anziché ricominciare la solita trafila delle collaborazioni esterne o peggio ancora del simil-apprendistato. Anche perché, diciamolo, alla mia età non ho alcuna chance e anche solo pensare di averla è una frustrante perdita di tempo.
D'altra parte, posso assicurarlo, non mi ero mai sentita così convinta del valore delle mie piccole creazioni artistiche come mi è accaduto con quelle realizzate nell'ultimo anno. Ci credo fortemente ed è davvero una svolta psicologica importante, da difendere con unghie feline dai depressi mascherati da disincantati, dai pavidi rivestiti di pragmatismo e da tutte quelle forze negative che gettano ombre su chiunque cerchi di usare talento e personalità per non mollare e resistere allo sconforto della precarietà.
Ormai, aggiungo, anche quest'ultima parola mi sembra che abbia perso senso: la sento ripetere da troppe bocche fetide, da troppi servi, da troppi cinici,da troppi indifferenti perché possa credere che sia davvero vista come un'emergenza nazionale. Per non parlare di quelli che dicono di voler aiutare i "nostri giovani", i più penalizzati, certamente, dal "lavoro che non c'è", un'altra noiosa, abusatissima locuzione dei nostri tempi.
Stancamente, mi trovo costretta a ripetere che non sono solo loro le vittime di un Paese che sembra incapace di risollevarsi, ma anche le donne (basta aprire Sette del Corriere della Sera della scorsa settimana per verificare che per la reale parità con gli uomini occorreranno altri vent'anni. Almeno. E non sto parlando del bollettino della Cgil, bensì di un cosiddetto giornale della classe dirigente), e gli adulti ultraquarantenni.
Lo sa bene, del resto, lo stesso commercialista, classe 1942, coetaneo di mia madre, forse costretto a restare ancora a lavoro per aiutare la figlia nata sul finire degli anni Sessanta, in difficoltà con il sogno d'impresa condiviso con una socia, per via di un aumento geometrico dell'affitto del locale in cui avevano deciso di investire tempo, denaro e professionalità. Sembra che adesso siano riuscite a trovarne un altro più economico, ma mio padre mi ha lasciato intendere che non siano le sole a pagarne le spese di gestione. Un'intera generazione oggi alle prese con la salute che scricchiola (non oso pensare che problemi potremo avere noi un giorno, si spera molto lontano, con tutto lo stress e la bile accumulati) sta usando una certa parte della pensione per venire incontro alle esigenze di questi figli ormai più che maturi prima che sia troppo tardi. Sempre ammesso che si possegga una buona rendita o qualche bene di valore da trasmettere loro un domani.
Tutto questo non è pessimismo, no. E' sano, forse solo un po' crudele, realismo.
Un sentimento che mai avrei pensato di nutrire in quel remoto giorno d'estate, ma neanche qualche anno dopo, ai tempi dell'università, giorni di certo mitizzati, il legame con i quali mi ha però permesso, di recente, di tornare a lottare, nonostante tutto.
E ok: se sarò costretta a chiudere la partita Iva dei minimi per via di una modifica della legge che mi aveva permesso di aprirla cinque anni fa, lo farò e basta. In fondo è tutta inutile burocrazia. Niente però mi impedirà di continuare a considerarmi una che scrive, che fotografa, e che soprattutto pensa e agisce con la propria testa.
Concludo con una postilla ispiratami da uno scambio che ho avuto su Facebook con un vecchio amico degli anni belli della mia giovinezza. Lui diceva di non essere d'accordo con il fatto che si debba girare il mondo per sentirsi in pace con se stessi. Io gli rispondevo che in linea generale è vero, ma se non hai avuto l'occasione (e anche la bravura, perché no?) di compiere le scelte giuste nei tempi giusti, ormai non hai più chance in questo Paese, ed è abbastanza probabile che farai una gran fatica a pacificarti interiormente, visto che sarai costretto a girare ancora e ancora come una trottola in attesa di trovare il "tuo" posto.
Insomma: non esiste una ricetta unica valida per tutti né mi sentirei di condannare chi si ferma e sta e di incensare chi va e va. Mi dispiace solo constatare che non per tutti è una semplice questione di preferenza per l'una o l'altra filosofia di vita, ma una mera questione di fortuna, pure geografica oltre che sociale.
Se un giorno dovessi trovare il "mio posto", comunque, non mancherò di sottolinearlo, perché di sicuro, se accadrà, mi sentirò più serena. Per il momento, mi accontento di risentire proustianamente qualche suono, qualche profumo antico, riattraversando le strade note della mia adolescenza, pur restando consapevole che il desiderio di fuga nutrito proprio a quei tempi non si è affatto placato. No, amico della mia giovinezza, il centro del mondo non è qui. Non ora. Anche se non posso dire che non lo sarà mai, come sostenevo fino a dieci anni fa.
In fondo, ho ancora qualche tempo per scoprire dove sia, il mio centro, agognato (sì, lo ammetto: lo sto cercando) del mondo. L'importante è crederci profondamente.
Altro che pessimismo.