giovedì 30 maggio 2013

Alla corte della regina Vicky, sperando di resistere

 
 

Ho scattato questa foto l'altro ieri, nel primo pomeriggio inondato dal sole. Uno dei pochissimi di questa bizzarra primavera, perfettamente in linea con il periodo più strano che mai mi sia capitato di vivere credo a questo punto da sempre. Vittoria-Vicky è la gatta che si aggirava nel giardino della cattedrale di Fermo, il colle del Girfalco per chi conosce la zona, fino all'inverno scorso. Giusto poco prima che arrivassero le piogge monsoniche del lunghissimo periodo di maltempo di questi primi cinque mesi del 2013, mio cognato Massimo ha preso l'iniziativa di portarla a sua madre, la star del mio blog, Marisao. La  decisione è arrivata all'indomani della faticosa convalescenza che la suddetta ha dovuto affrontare per via della frattura dell'avambraccio destro. "Un gatto la distrarrà sicuramente e la tirerà su", sosteneva mio cognato. Non potevamo che essere d'accordo, suo fratello ed io, dal momento che erano già almeno due mesi che avevamo preso a preoccuparci del suo destino. Ed è così che, tra alterni umori, Vittoria-Vicky è giunta a casa di Marisao, installandosi come una vera sovrana nella sua nuova dimora di mattoni e cemento. Tolti i primi tempi di disorientamento, non ha infatti mai mostrato particolare nostalgia della sua vita raminga en plain air. Addirittura, anzi, esce sul balcone giusto per rotolarsi un po' al sole (quando c'è) senza mostrare alcun interesse per moschini e insetti vari né tantomeno per le piante di geranio che Marisao cura con tanta dedizione. Curava. Perché in quest'ultimo periodo, me ne sto occupando io, con assai meno sicurezza (ho un passato da rasa-piante un po' inquietante), aiutata per tutto il resto (che è moltissimo) dalla carne della carne di Marisao, nuovamente infortunata. A rompersi stavolta sono stati il femore e il polso sinistro, con conseguente operazione chirurgica per fortuna andata a buon fine. Attualmente mia suocera sta facendo la riabilitazione nella clinica geriatrica della città, con buoni risultati, sembrerebbe. Ne siamo molto contenti, innanzitutto per lei, che temeva di non guarire più, ma anche per noi, che facciamo da spola tra casa nostra, casa sua e ovviamente l'ospedale. In quest'ultimo, a dire il vero, vanno più spesso i figli, mentre io ho assunto a pieno titolo un ruolo quanto mai delicato: la cat sitter. Sto scherzando, ma vi assicuro che quando abbasso le tapparelle e chiudo la porta di casa alle mie spalle, mi sento prendere dall'ansia. Come passerà le lunghe ore di solitudine e di penombra questa magnifica gattona nera striata di chiaro? Il giorno dopo come ritroverò lei, la lettiera e il resto della casa? Al contempo, mi domando, che cosa faranno i mici nostri, certo più abituati di Vicky a non stare in compagnia di noi umani tutto il giorno? Prima del secondo infortunio di Marisao, infatti, l'ex randagia passava praticamente quasi tutta la giornata con questa donna alta e ordinata che di certo avrà qualcosa da ridire sulla conduzione della sua abitazione di queste lunghe settimane di convalescenza, una volta che vi avrà fatto ritorno.
I sensi di colpa conditi dall'ansia, insomma, si moltiplicano. E poi mi domando: ma se avessi avuto un lavoro dipendente (e continuativo) come avrei fatto? Come avremmo fatto?
La scelta di non portare Vicky a casa nostra è stata ragionata: di sicuro Bice e Nino non avrebbero preso molto bene l'arrivo dell'ingombrante (Vicky è il doppio del maschio, che a sua volta è quasi il doppio di Bice) felina né quest'ultima avrebbe fatto altrettanto (la sera dell'incidente di Marisao, mio cognato ha provato a condurla a casa sua e c'è mancato poco che la regina nera tagliasse la gola ai suoi pacifici Nerino e Camillone). Insomma: sarebbe stato ancora più complicato.
Io, però, nonostante tutto, mantengo un grosso spirito pratico ed è così che ho deciso di ricaricare la mia internet key, fruendo peraltro di un'offerta vantaggiosissima (il primo mese: ma spero onestamente di non averne bisogno oltre metà giugno) e di venire a lavorare qui dove mi trovo in questo momento, mentre aspetto che passi il temporale.
Sapete che vi dico? Oggi sono particolarmente dissociata, forse per colpa degli ormoni, ma tutto sommato non è poi così male prendere l'autobus, confondendosi con badanti, studenti e qualche sparuto impiegato dotato di abbonamento, in orari di inizio o fine lavoro e in abiti finalmente civili.
Lavorando prevalentemente in casa, infatti, mi ero un po' dimenticata del mondo dei pendolari da mezzo pubblico e in generale delle abitudini di quelli che si spostano da un luogo all'altro per motivi professionali, per fare shopping o per altre ragioni.
Forse, giusto un pochino, mi mancherà questa fase quando tutto tornerà più o meno alla normalità.
Certo, spero che non duri troppo a lungo, altrimenti la mia faccina da scimmietta diventerà sempre più giallastra (come gli autobus urbani) e comincerò a confondere le stanze dei due appartamenti, andando a sbattere più di quanto non faccia già normalmente quando mi alzo di notte per fare pipì.
Tutta questa storia, insomma, ha anche una morale: mai dare nulla per scontato, di noi, dei nostri ritmi, dei nostri bisogni. Sperando di averne sempre di nuovi e stimolanti, oltre le rogne e la noia.
E in definitiva: w Vicky e tutti gli altri felini.

lunedì 20 maggio 2013

Il giornalismo di domani e il mio destino


Del bigliettino che riporto sopra mi fa tenerezza soprattutto quel "tutto ciò", sia per il tipo d'italiano utilizzato (i ragazzi di oggi usano ancora "ciò"?) sia per quel "tutto" che onestamente, con vera modestia, dubito essere molto.
Come sempre, dal 2006 a questa parte, tranne un anno saltato per problemi organizzativi, a imparare qualcosa sono stata io, sul mestiere che credevo di aver scelto e sugli adolescenti.
In un mese, del resto, si fa appena in tempo a gettare qualche seme, ammesso di riuscirvi, e a memorizzare, se non i nomi, almeno i visi di questi giovanissimi, in massima parte maschi, che ho visto avvicendarsi anno dopo anno nell'aula multimediale dell'Iti Montani di Fermo, una scuola dal passato illustre, che ancora adesso, nonostante lo sfascio tanto chiacchierato della scuola pubblica, continua ad attrarre molti studenti.
Che cosa ho imparato in questi quattro venerdì passati con loro e con il quinto condotto da mio cognato Massimo Del Papa (ebbene sì: si fa tutto in famiglia)?
Che, come sempre, come da sempre, se adeguatamente stimolati, i ragazzi rispondono. Che anno dopo anno mi sembrano sempre più piccoli e che, al contempo, il giornalismo è invecchiato insieme con me. Parlo ovviamente del mestiere che ho conosciuto anni fa, prima come lettrice de "La Repubblica", imbeccata dal prof di storia e filosofia (ma a sedici anni che cosa leggessi di quel quotidiano che esibivo fichettisticamente in classe non saprei dirlo), poi come pivella con manie di grandezza (il mio primo pezzo: un'intervista a un protagonista minore dell'intricata vicenda di Ustica: che ardire), alla macchina per scrivere di mio padre. Infine, a 28 anni, è arrivata la scuola di giornalismo. Il mitico (non per me: fino al giorno dell'orale ignoravo quanto fosse ritenuta importante quella scuola) Ifg. Liberarsi dalla sindrome della stagista di lusso (si fa per dire) mi ha richiesto vari anni, ma alla fine è andata. E solo adesso, a distanza di oltre dieci anni, ho capito alcune cose su questo lavoro così appassionante (inutile nasconderlo: è sì un mestiere che fai, ma un po' "una/uno che scrive" ci nasci anche) e così difficile. Tolti gli evidenti problemi di reddito di cui parlo ormai da un po', è infatti sempre più complicato orientarsi in questo flusso costante di informazioni, boutade, inezie, polemiche sterili e scoop reali, tanto più se sei sciolta da contratto di lavoro dipendente e vorresti proporre qualcosa a qualche testata.Volete che ve lo dica? Ormai è più di un anno (ma forse anche di più) che non penso di vendere alcunché ad alcuno. E sapete perché? Perché non riesco più a capire quali rutilanti proposte potrebbero essere appetibili per qualunque testata nazionale.
Uno dei miei ultimi tentativi è stata un'intervista (già scritta) al mio nume Paolo Conte. Mi sono sentita rispondere che "non erano interessati a cose così", con un leggero tono sprezzante. Peccato che poi su una rivista dello stesso gruppo sia uscito analogo pezzo di una loro collaboratrice. D'altronde, è sempre stato così: sei sei fuori, ti occorre molto tempo per riuscire ad accreditarti. La vera grande differenza rispetto al passato? E' che adesso i collaboratori sono sempre più merce rara, per problemi interni ai medesimi giornali mainstream, tutti, chi più chi meno, in stato di crisi.
Il risultato è uno solo e l'ho potuto verificare con i miei occhi sfogliando (anzi: leggendo) più giornali della mia media sempre più bassa proprio in questo mese di preparazione delle lezioni a scuola. Tolta la solita pagina politica, i giornali sono sempre più simili, più piatti, a volte pure più sciatti.
Non è una grossa novità, lo so. Però credo proprio che ormai ci siamo: parecchie testate cartacee spariranno e, francamente, è giusto così. Dopodiché, certo, le novità ci sono, e sono anche parecchie. Non essendo abbonata a Rsera, per esempio, non posso sapere con certezza come sia cambiata dallo scorso anno, ossia dal debutto, avvenuto proprio durante il precedente ciclo delle mie lezioni. Però ricordo che mi aveva colpito per l'originalità della grafica e poi per la multimedialità del grosso dei suoi contenuti. Se c'è un settore destinato a crescere e forse anche a dare lavoro, insomma, è proprio questo. Chi ha uno smartphone, una fotocamera neanche troppo ingombrante ma con molti pixel e la videocamera incorporata, potrebbe diventare molto appetibile per i media di domani. A un patto. Che ci sia qualcuno in grado di capire ancora la differenza tra un servizio fatto bene e una roba amatoriale buttata là. Se mai, in definitiva, riuscissi a rientrare con entrambi i piedi in questo mondo che seguo con un occhio solo da ormai troppo tempo, dovrò fare i conti con una schiera sempre più fitta di giovani giornalisti smanettoni e/o nerd o jeeg (ho scoperto solo da poco la sottile differenza tra le due parole, che comunque indicano sempre soggetti un po' in fissa con internet e hi-tech in genere), dei quali solo una piccola parte, probabilmente, saprà com'era il giornalismo delle origini, quello della Fallaci e di Montanelli, tanto per intenderci, ma che potrebbe anche non capire come scrivo e parlo io, che dalla Fallaci e da Montanelli sono lontana anni luce.
Non voglio tromboneggiare, però è un fatto di cui ormai sono più che consapevole: alla mia età, non ancora troppo anziana, sono comunque più vicina alla generazione dei miei genitori di quanto non lo sia a quella dei ragazzini che ho conosciuto in questi anni. In classe tutti avevano lo smartphone, qualcuno pure il tablet. Un gruppetto di loro ha partecipato a un progetto e-book, un altro stava girando proprio in queste settimane un cortometraggio. Chi li ha seguiti ne capiva qualcosa del primo e del secondo? La domanda è fondamentale ed è collegata al mio destino professionale. Anche ammesso che riesca ad accreditarmi come smartphone-reporter, come esperta di microblogging o di qualche altro new media prossimo venturo, chi guarderà i miei servizi, leggerà i miei micro-post, sarà in grado di capirli? Non ho una risposta, tutt'al più una speranza, ossia: certo che ci riuscirà. Se così non fosse, farei meglio a imparare un mestiere pratico (la zappa posso ancora tenerla in mano) relegando le velleità scribacchiniche al tempo libero, quello che oggi ho ancora in abbondanza.
Come concludere un post così?
Ringraziando Massimo Del Papa, il cognato di cui sopra, per avermi deliziato con la cronaca di Montanelli sull'esondazione dell'Arno, e anche per il suo tono, visibilmente scazzato, ma proprio per questo molto applaudito, con cui ha lanciato il suo messaggio alle giovani generazioni che affollavano l'aula magna del Montani, lo scorso venerdì: "Potete fare tutto, avete mezzi che noi non avevamo", ha detto in più passaggi. Prima, però, studiate. E leggete. E forse un domani qualcuno di voi mi darà lavoro, compatendomi anche un po'.

giovedì 16 maggio 2013

I buchi del cuore e le lezioni d'inglese

Questa settimana ho fatto ben due lezioni di conversazione in inglese. Anzi, tre: il merito di quest'ultima è di un mio amico in carne e ossa, che molto gentilmente si è offerto di aiutarmi nel mio donchisciottesco tentativo di imparare una buona volta la lingua anglosassone. Impegni permettendo, credo che potrà darmi davvero una grossa mano.
Dal canto mio, spero con tutto il cuore di riuscire a non perdere la motivazione: certo, l'investimento economico compiuto per frequentare la mia scuola d'inglese online non è indifferente, per cui qualcosa dovrò cavarcela per forza. E tuttavia, non mi riferisco solo all'obiettivo esterofilo. Sto parlando più in generale della mia vera o presunta volontà di potenza. Fa molto Nietszche questo passaggio, eh? Fregnacce a parte, gli avvenimenti di questi ultimi mesi (e ahimè anche giorni) confermano sempre di più le fosche previsioni sul futuro, ahimè neanche tanto lontano. E non si tratta di pessimismo o di lagnosità sudista, è proprio che non vedo grossi sbocchi se non "l'auto-tutto" per gente come me e come i miei più stretti legami, alle prese con presunti lavori autonomi a rischio accertamento fiscale per i troppo magri (ma ahimè veri) guadagni annuali accumulati.
E così, tra un accudimento e l'altro (di quattrozampe e persone), tra una lezione d'inglese e un'altra di ginnastica e quelle successive, cerco di non perdere la barra e di darmi un qualche orientamento.
Stamattina ho spedito la mia domanda per un concorso pubblico per soli titoli: voglio proprio vedere se mi chiameranno almeno per il colloquio. Non mancherò di riferirne qui, in tutti i modi. Scritte queste inani righe, poi, mi dedicherò a buttare giù nuove idee per un lavoro creativo. Più vago di così si muore, no? Eppure. Eppure sono proprio i momenti di ricerca e di spremitura delle meningi che mi danno la maggiore soddisfazione. Come sarebbe bello se a ogni scatto creativo (valido, naturalmente, il che significa uno ogni tanto. Le idee buone sono per forza rare) ne corrispondesse uno del mio conto in banca, ovviamente in entrata. Non venitemi a dire che l'arte (?) non paga. In certi casi paga eccome. E in ogni caso io non sono un'artista, perciò non piangete per me come la fidanzata di Moretti in Ecce Bombo.
Abbiate pazienza, insomma. E' solo che oggi è una giornata strana e il mio cuore aveva bisogno di riempire (o forse sarebbe più esatto dire svuotare) di parole i buchi emotivi diversamente troppo grandi. Ieri precisavo con un caro amico che da oggi è un po' più solo che non sono depressa. No, non lo sono affatto. E' solo che non ho più vent'anni (ma neanche trenta. Accidenti alla canzone di un gruppo anni Novanta che ascoltavo in anni che davvero spero di non vivere mai più: parlo dei Prozac +) e certi sogni, a questo punto, non si realizzeranno mai più. E' sicuro che è così, bisogna dirselo con chiarezza. Nel tempo, insomma, il cuore si riempie di buchi sempre nuovi, alcuni dei quali, purtroppo, non si potranno più ricucire, un po' come i calzini troppo lisi.
Perciò, sì, potete raccontarmi i vostri guai (come qualcuno in effetti fa davvero), li ascolterò gratis, con il mio cuore pieno di buchi e il sorriso sempre accennato, forse un po' triste, ma rassicurante.
Sto parafrasando e reintepretando una bellissima canzone di Mark Knopfler, Heart full of holes, da me nuovamente saccheggiato per la lezione online. Non ricordo a memoria il testo, ma sono sicura che la musica che ne accompagna le parole vi faranno capire molto meglio di quanto riesca a fare io quanta poesia c'è, in noi e nella nostra vita. Anche grazie a questi enormi buchi rammendabili mai più.


domenica 5 maggio 2013

L'Italiachelavora: forte con i deboli e debole con i forti


In questi ultimi mesi ho preso spesso il treno. La foto che vedete è nata per caso, durante una sosta un pochino più lunga, lungo la tratta Chieti-Pescara. Una sosta prevista, come ho scoperto solo dopo, foriera (?) dello scatto dallo smartphone che sta diventando una specie di Tamagochi per la sottoscritta.
Sottoscritta che, peraltro, non l'ha mai avuto, il Tamagochi (quando è uscito dovevo essere già grandicella; se me lo fossi procurato, a quest'ora sarei già da un pezzo opportunamente rinchiusa. Ristretta, come si dice dei carcerati, lo sono già, per ovvi motivi metrici).
E quindi: eccovi una foto artistica. E' artistica, eh? Di sicuro è esteticamente più valida di quanto non lo fossero i giovincelli che abbiamo incontrato in analogo viaggio Chieti - Porto San Giorgio mio marito ed io. Avevamo trascorso un bel pomeriggio in famiglia, erano da poco passate le sette e ci accingevamo a ritornare indietro in uno scompartimento vuoto e silenzioso. Così almeno credevamo. Perché un secondo dopo aver tirato fuori il libro dalla borsa, ecco materializzarsi la molestia formato adolescente. Erano cinque o sei, maschi e femmine, capeggiati da un ragazzino allampanato, ricciolino un po' lungo e pelle olivastra. Parevano visibilmente alterati, non credo solo dagli ormoni. Oltre a parlare a un tono di voce molto al di sopra dei latrati di un branco di cani, se la prendevano un po' troppo spesso con quello lassù che, se c'è, non si sa perché li ha creati.
Mi alzo di scatto e prendo la mia decisione: un viaggio intero con questi piccoli mostri proprio no, meglio cambiare scompartimento. Avremmo dovuto allontanarci di più: l'eco del loro vociare si sentiva ugualmente nonostante la porta chiusa e il cigolio rumoroso del treno. Poche file oltre noi, intravedo il controllore e allora penso: ecco, adesso ci penserà lui a farli tacere. Fingo di concentrarmi sulla lettura, ma con la coda dell'occhio seguo l'impiegato mentre si approssima alla fossa dei leoni (magari ce ne fosse stato qualcuno non metaforico da mandare tra loro). Alzo lo sguardo quando riemerge dall'agone. Sul suo viso un sorriso (che fa pure rima) beato. Carucci assai, sembrava che pensasse, teneri come i miei piccini o me quando avevo la loro età. Beata gioventù. Il casino (forse anche di altra natura) prosegue indisturbato, tra santi e madonne che precipitano giù dal cielo.
Verso Porto San Giorgio, poi, il medesimo addetto trenitaliota s'alza dal sedile che lo cullava come le onde del mare e... che fa? Ci chiede i biglietti proprio adesso? E va bene, del resto è giusto così. Gli porgo il mio facendogli presente che vale per due. I mostri sono scesi due stazioni prima, dopo aver sconfinato, nella persona del loro capetto riccioluto e scuro (era lui che insisteva sulla tonalità della sua pelle, per me poteva essere anche giallo panna) anche nel nostro scompartimento per manifestare al suddetto controllore, al solito tono sommesso come quello di un baritono in assolo, tutto il malcontento suo e della sua simpatica comitiva per essere stati derubati da una macchinetta automatica di venti euro. Anche ammesso che fosse vero (non mi stupirebbe: la macchinetta dell'ospedale m'ha fregato un euro perché ho scelto per errore la fila vuota delle bottigliette), perché farlo sapere anche agli anconetani in attesa paziente (rassegnata) al capolinea della corsa? E perché tu, controllore, non hai fatto presente al tenero giovanotto di moderare, diciamo così, il suo risentimento?
Sia come sia, a me, che con educazione e voce normale (quindi bassina, come tutto il resto) gli facevo notare il tipo di biglietto che aveva davanti a sé, ha risposto, togliendosi dalla faccia quell'espressione rasserenata dal dondolìo ferroviario: "L'ha timbrato?". E certo. E figuriamoci.
Scendiamo scuotendo la testa. D'altra parte, era primo maggio, poveretto lui che lavorava.
Solidarietà ai compagni ferrovieri. E pure ai compagni autisti di bus romani. In particolare a quello che la stessa sera, una mezzorata dopo (come direbbe Montalbano), ha pensato bene di partire sgasando dal capolinea della stazione Tiburtina, benché mia sorella con primogenito al seguito gli avesse appena chiesto di attendere giusto un minuto in maniera che riuscissero a saltare su anche suo marito e il figlio minore cinquenne, colpevoli di non essere riusciti ad andare alla stessa andatura dell'altra metà della famiglia, sotto il diluvio universale che li aveva colti di ritorno nella nostra bella accogliente capitale d'Italia. Il tutto, poi, accompagnato anche dalla seguente frase: "Ahò, signò, io mica posso sta' qua ad aspettare a voi. Io c'ho dei tempi, ed è pure primo de maggio".
Mia sorella, ormai avvezza alla proverbiale cortesia romana, si è limitata ad arrivare, almeno lei con mio nipote, a destinazione. Nipote minore e cognato, invece, hanno fatto metà tragitto fino al capolinea dell'unico altro bus in partenza, che però arrivava solo fino a metà strada e anche loro abituati alle lunghe, filosofiche attese che si sperimentano alle fermate dei mezzi di superficie delle grandi (e anche piccole, questo sì) città italiane, hanno aspettato che mia sorella con piccino senior al seguito li venisse a recuperare con la loro auto privata. Spero che almeno siano riusciti a ripararsi sotto una pensilina.
L'ultimo edificante aneddoto sul pianeta lavoro pubblico (o para: Trenitalia è una compagnia privata, no?) dipendente mi è stato raccontato giusto ieri da una mia carissima amica di rara cortesia e discrezione. Per puro caso l'ho chiamata una mezzorata dopo (mi ripeto, ma mi piace assai il suono pseudo siculo di questa espressione) l'incidente che l'aveva gettata in un forte sconforto. Una tizia di un grosso sindacato, sì, proprio quello che da qualche tempo è partito lancia in resta nella difesa dei dirittideiprekari, le ha praticamente chiuso il telefono in faccia, quando lei, pietosamente, era arrivata a dirle: "Ma scusi, perché mi risponde così? Perché mi tratta male? Io volevo solo un'informazione". Del resto, a tutti i livelli e in tutti gli ambienti, continua a valere la logica "forti con i deboli e deboli con i forti". E la mia povera amica, evidentemente, in quel contesto, con le sue frasi interrogative, è stata ritenuta una debole. Mi piacerebbe proprio vedere come si comporta la stessa impiegata, assunta di sicuro per meriti, con i suoi capi. Sempre ammesso che ne abbia almeno uno che la possa sbattere a fare la calza, perché gente così, in genere, ha spalle iper-coperte. Vorrei sapere, analogamente, come si comporterebbe l'autista dell'Atac o il ferroviere mollacchione se qualcuno di meno corrotto (la raccomandazione è una forma di corruzione e non ci sono santi, per quel che mi riguarda) facesse loro un discreto, silenzioso, forbito culo per il loro cattivo rendimento sul lavoro.
A me qualche volta è capitato di subirne qualcuno anche non meritato, ma v'assicuro che funziona. Eccome se funziona. Però, capirete, che cosa volete che importi quel che è successo a una freelance squattrinata e livorosa come me? Chi volete che legga queste righe con tutto quel che hanno da fare quelli che lavorano, quelli che è-primomaggioedevolavorà, quelli che siamo-malpagati-e-tuttiacasa?
Nessuno o pochi (ma buonissimi). Ebbene, a loro e a me stessa voglio dirlo ugualmente: un paese civile si riconosce dai dettagli (un po' come un buon romanzo o una buona fotografia). Questi aneddoti vanno nel senso contrario.
Domani ricomincia un'altra settimana, disordinata ma creativa per chi come me s'inventa cose da fare per andare avanti con dignità e per quelli che timbrano il cartellino annoiati e frustrati.
Vorrei maggiore stabilità economica, certamente, però ve l'assicuro: preferirei altri mille anni randagi come questi piuttosto che un solo giorno come quelli vissuti da gente così. Gente che non merita gli anni di lotte sindacali, sacrosante e inderogabili, per avere condizioni di lavoro migliori.
E quel ragazzino nero, maleducato e arrogante, e i suoi sciocchi amici che lo assecondavano, non sono i giovani a cui vorrei affidare la mia vecchiaia di domani. Perciò scrivo, sperando di gettare qualche seme. Sperando e sognando tempi migliori. Buona settimana a tutti.

lunedì 29 aprile 2013

Montalbano, le aringhe e l'infanzia che ci portiamo dentro


Sapete che vi dico? Non vedo l'ora che arrivi stasera per stravaccarmi sul divano lacerato dai mici passati e presenti (era il divano della piccola casa di Francavilla al Mare dei miei, preda amatissima delle unghie dei felini di famiglia) e guardare Montalbano. Sì, Aldo Grasso ha ragione: soprattutto la prima delle quattro puntate della nuova serie è caduta un po' nel manierismo, però, sinceramente, chisseneimporta. Già solo rivedere quei paesaggi e quella luce che è davvero così, senza bisogno di filtri, mi fa stare meglio. Mi rasserena. E mi fa sognare. Perciò pazienza se Catarella è un po' troppo Catarella e per la crisi di mezza età che ha colpito Salvo rammollendolo forse tanticchia nel suo rapporto con le fimmine.
Sono stata nei luoghi in cui girano il telefilm, in occasione del matrimonio di una mia amica. Mai vista cerimonia più sfarzosamente elegante. Come direbbe la mia amica Guglielmina, che ha sposato Giorgio il Siciliano, per me una delle persone più tranquillizzanti che conosca, da quelle parti il barocco ce l'hai nel sangue. Te lo passano direttamente con il latte materno. Credo che abbia ragione. E trovo davvero illuminante anche l'altra considerazione che l'elegante signora fermana, ex professoressa di lettere, ha esposto durante il laboratorio di lettura che ha condotto alla biblioteca civica di Fermo. I siciliani hanno "un senso permanente del nulla, del vuoto", ha detto la mia amica prof. La Sicilia è regione "fortemente pensosa, anche i cibi sono in un certo senso barocchi", ha aggiunto. E già: i cibi. Ho dimenticato infatti di spiegare in che cosa è consistito il laboratorio di tre lezioni di cui sono riuscita a seguirne, ahimè, solo due, intitolato "I cibi della terra di origine". In ognuna delle tre, Guglielmina si è soffermata su un alimento o un piatto presente nelle opere di autori vari. La prima è stata così dedicata al pane, alimento principale della dieta mediterranea, cibo materno per antonomasia. Molto bello, a questo proposito, il ricordo contenuto ne "Il pane di ieri", di Enzo Bianchi, che racconta di come sua madre preparasse a festa il povero tavolo della cucina-soggiorno-camera da pranzo con il pane del giorno prima, più gustoso di quello del giorno stesso, secondo la tradizione delle Langhe, a beneficio degli eventuali ospiti di passaggio.
A a loro e al piccolo Enzo, futuro fondatore della Comunità di Bose, era dedicata la scritta ricamata a mano dalla medesima mamma: "Il pane ti sia di consolazione e di lezione". In tempi di crisi come questi, le merendine vanno tramontando, però è evidente il salto generazionale che si è compiuto poco dopo nel nostro Paese, quando è arrivato il boom economico.
Di un'Italia rurale, insieme poco alfabetizzata ma anche, in qualche misura, più autentica, parlano anche i cibi descritti da Simonetta Agnello Hornby, Tomasi Di Lampedusa ed Elio Vittorini, i tre autori siciliani sui quali Guglielmina si è soffermata nell'ultima lezione, accanto agli altri di origine marchigiana che ha voluto (com'era logico) valorizzare.
Mi perdonino i secondi, ma obiettivamente i primi mi sono rimasti più impressi (e d'altra parte il Sud è il Sud). Ho trovato davvero emozionanti i passaggi di "Conversazione in Sicilia" letti dalla stessa conduttrice già nella prima lezione. E sono stata davvero contenta di essere stata da lei scelta per leggerne altri giusto all'inizio della lettura dei brani scelti per la terza.
Nelle parole che Elio Vittorini dedica alla madre e alle aringhe della sua infanzia, ci ho visto insieme Montalbano e me stessa, com'ero da bambina, quando mangiavo pane e pomodoro preparati da mia nonna, giocavo nel cortile con Mariangela e a nascondino con molti altri, girando indisturbata per il quartiere, le stesse buche (probabilmente) che ci sono oggi fuori dal cortile del palazzo in cui vivono i miei. Tutti siamo, credo, "il ricordo e l'in più di ora", una volta usciti dall'infanzia, una volta esaurita la fase della crescita, ma la certezza che sia davvero così ce l'abbiamo solo quando guardiamo negli occhi i nostri genitori e li scopriamo improvvisamente vecchi. E fragili.
Quella consapevolezza un po' immalinconisce, certo, però ci regala anche un sentimento di urgenza, l'urgenza di non perdere più tempo, di dire e di fare le cose giuste per noi e per gli altri, senza inutili sensi di colpa, senza stupide paure.
Qualche giorno dopo la lettura (seguita da fenomenali assaggi di piatti dolci e salati siculo-marchigiani), sono tornata di corsa dai miei, desiderosa solo di rivedere quegli occhi che mi hanno visto nascere. Una volta di nuovo qui, ho atteso nel silenzio di un sabato strano, che mi si desse la bella notizia. Niente: mia mamma non chiamava. Allora l'ho fatto io ed eccola lì, con la sua voce appena più stanca del solito, a sorprendersi di non avermi avvisato. No, mamma, non l'hai fatto, ma che cosa vuoi che importi? Eri a casa, mi bastava. Subito dopo, mi hai rimproverato bonariamente per averti ingrigito la canottiera bianca, che ho messo a lavare insieme con i calzini neri di papà. Eccola lì la mamma, ho ironizzato tra me e me, l'unica depositaria dei segreti della buona conduzione della casa, nonostante una vita di lavoro extra mura domestiche. Lievemente, ci sono rimasta male: ma come? Io voglio sapere se ti hanno dimessa e tu mi parli del bucato mal riuscito? Però subito dopo ne ho sorriso. E sì, mamma, vedessi la mia biancheria: il bianco scintillante non è il mio forte e Paolo ha pure qualche canottiera rosa, adesso. Pazienza. Un domani potrei avere nostalgia di rimproveri così.
Dedico a mia madre la lettura, amatorialissima, sotto riportata. So di non essere un'attrice, ma francamente non mi frega nulla. Se potete, ascoltate le parole, e anche la musica, composta dal bipede, parte preziosissima della mia attuale famiglia. A loro e altri pezzi che non ho nominato, grazie, come al solito, di esserci.


martedì 23 aprile 2013

Allo Schiantatino


Schiantatino non c'è più. Qualcuno gli ha fracassato la testa facendo marcia indietro con l'auto.
So che è una frase cruda, ma questa è la realtà. Il dipinto che vedete sopra è stato realizzato nel 1975, l'ho trovato cercando su google l'immagine di un siamese. Gli somiglia moltissimo.
Non era di razza pura, ovviamente, e l'avevamo chiamato in quella maniera, con un "lo" davanti, per via della colonna vertebrale un po' ricurva, chissà se conseguenza di una prolungata malnutrizione nella sua prima infanzia. Gli ex gestori dell'hotel in cui continuava ad albergare, insieme con altre quattro o cinque creature della sua stessa specie, mi avevano detto, qualche mese fa, che nonostante l'aspetto un po' malmesso, in verità stava bene, era forte. Io non so dire se fosse vero, anche perché quella gente là mica mi convince fino in fondo. Niente mi toglie dalla testa, infatti, che avrebbero potuto trovare una soluzione diversa per quei poveri animali che hanno subìto come loro lo sfratto esecutivo. Nonostante tutto, certo, hanno continuato a portar loro del cibo (spesso, non sempre), ma si sa che gli animali che si abituano alla presenza dell'uomo non vogliono più solo quello.
Schiantatino ci veniva incontro tutto miagolante, la schiena più ricurva di quanto già non fosse, pronta ad accogliere carezze e paroline rassicuranti. Non voleva solo il patè, che spesso gli abbiamo portato, voleva proprio un padrone. Noi non potevamo diventarlo. Prima di lui, avevamo notato la gattona nera con le striature chiare. La bellezza ha sempre la meglio, inutile fingere che non sia così. E infatti alla nera-grigia siamo riusciti a dare una casa, costringendo (letteralmente) l'anziana madre di mio marito a tenerla con sé (anche stamattina al telefono ci ha ricordato "quanta merda" fa). Lo Schiantatino, invece, è rimasto lì, sulle scale del malandato hotel, sugli scalini sbrecciati, tra i fiorellini nati per sbaglio tra una crepa e l'altra.
Nei giorni di pioggia e vento, numerosi, lunghissimi, ho avuto pena per lui, ma l'unica azione che mi sono limitata a compiere è stata portargli da mangiare, sperando che la dura legge di natura non l'avesse nel frattempo spazzato via.
Una mattina ho anche incontrato una signora che andava via in auto, la quale, vedendomi scendere gli scalini dell'hotel con una scatoletta vuota, mi ha suggerito di chiamare la Asl per segnalare la presenza della piccola comunità in semi-abbandono. Da brava italiana, non l'ho fatto, e anche se mio marito mi ha detto che avrebbe potuto farlo anche lei, visto che sosteneva di amare tanto i gatti e in particolari i siamesi, noti per la loro indole pacifica, io so di avere sbagliato. Avrei dovuto far venire la Asl e farli portare via tutti. Non prima, certo, di essermi assicurata del luogo in cui li avrebbero condotti, perché da quel che si dice in giro non tutti i gattili sono l'eden. Ed è qui il problema: non ho avuto il tempo né forse abbastanza motivazione per prendere il maggior numero di informazioni possibile sui gattili attivi da queste parti. In fondo, mi dicevo, quelle bestiole sono abituate alle auto e in genere se ne tengono ben lontane. Purtroppo, non è sempre vero. E se sono doppiamente contenta di averne salvato almeno uno da un quasi certo destino, e se sono altrettanto contenta di avere al mio fianco due mici felici e amati, mi dispiace assai per lo Schiantatino, dagli occhi azzurri azzurri tutti cisposi, il musino simpatico e quel modo di strusciarsi davvero irresistibile.
Quando Paolo mi ha avvisato di averlo trovato riverso sul ciglio della strada, sono scesa giù, munita di guanti, giornale e una busta di plastica. Ne ho scelta una bella, con un fiore disegnato sopra.
Ciao, Schiantatino, e se puoi scusa noi umani per la nostra inadeguatezza.

giovedì 18 aprile 2013

Conto in rosso? Non per i nostri avatar


Mary Shannon, alias Mary Shepard per i testimoni che sta proteggendo in qualità di US Marshal, la squadra speciale della polizia a stelle e strisce creata apposta per tenere fuori dai guai gli ex delinquenti che hanno deciso di uscire dal giro, è una tipa tostissima. All'apparenza. Ma anche nella sostanza. Il che non vuol dire, però, che non abbia le sue fragilità, a cominciare dalla sua difficoltà di fare pace con l'universo maschile e anche con la sua femminilità. Il personaggio protagonista di In plain sight, un serial che La7d sta mandando in onda, in ordine veramente sparso, in questo periodo a ora di pranzo, si chiama davvero Mary, ma oltre al cognome vero e unico (Mccormack) nella realtà sembra essere tutt'altra persona.
Nata nel 1969, questa affascinante attrice ha ben tre figli e un marito da lungo tempo. Simile è la biografia del suo partner televisivo, il "Marshal Marshall" Mann, classe '66 e una faccia che è tutta un programma. Anche lui (che nella vita si chiama Frederick Weller) è tre volte padre e ha una moglie da un po'.
Con questo non sto dicendo che si debba fare tutti come loro, ma solo che trovo riposante constatare che anche nel conturbante mondo del cinema (e poi e poi) vi possano essere persone così, all'apparenza normali.
Dopodiché, trovo altrettanto interessante che proprio attori dalla vita quieta (e suppongo felice) interpretino ruoli scombinati come i loro. In particolare, il velo di tristezza che percorre il viso di Mary, evidentissimo nella foto sopra riportata tratta dal telefilm, è conseguenza della sua infanzia senza padre e del peso di doversi occupare di una madre-bambina e di una sorella ancora più problematica. L'ironia molto british del suo collega, invece, rivela un altrettanto difficile rapporto con il padre, ma anche una sensibilità fuori dal comune per un poliziotto medio. E del resto, per stare dietro alle vite in prestito dei loro protetti, occorre essere persone speciali.
Perché vi sto parlando di In Plain Sight e di Mary e di Marshall e dei loro alias reali (come scrivo di me nel mio profilo)? Perché mi sono accorta di amare la specialità della normalità, di quelli che non devono appiccicarsi addosso delle maschere pur di essere qualcuno.
O meglio: di quelli che usano consapevolmente le maschere che di volta in volta la società ci chiede di ricoprire, senza affezionarsene a una in particolare o, peggio, farsene schiavizzare.
Perché, alla fine, c'è sempre una vita reale, una casa, un compagno, i figli (i gatti o i pesciolini nella boccia, in alternativa. O pure niente), ai quali tornare.
Mi dispiace solo di vivere in un Paese in cui tutto questo è reso estremamente arduo. Non voglio fare la solita lagna sul futuro che ci è stato rubato e sulla precarietà-mangia autostima.
Però è un dato di fatto che quando il presente (altro che futuro) non ci piace, siamo più soggetti che in altri momenti al bisogno di inventarci degli avatar di noi stessi più accettabili.
Di qui i sette miliardi di autoritratti che spariamo sui social network e l'urgenza di raccattare quanti più "Mi piace" possibile. Io stessa, non lo nascondo, ogni tanto indulgo nell'attenzione ombelicale a me stessa, voce e movenze comprese (ho scoperto giusto l'altro giorno quanto sia facile caricare su Youtube un video con la nostra faccia che spara cazzate davanti alla webcam).
Però, poi, al contrario di quanto possono fare gli attori Mary e Frederick, molti di noi non hanno una casa e una vita normale alla quale tornare, in pace con il loro io sociale moltiplicato sugli schermi di tutto il mondo, con figli da crescere e lavatrici da mandare.
O forse sarebbe più corretto dire che la nostra realtà è molto più fosca e nebulosa di quanto vorremmo mostrare con i nostri nickname sbarazzini.
Nel 2012 ho guadagnato meno di cinquemila euro.
E' questa la realtà, altro che emoticon fintamente tristi.
La tristezza fa parte della vita, va bene, ma in una maniera assai più profonda di quanto si possa digitare sulla tastiera di un pc.
E per favore: non ditemi che i soldi non fanno la felicità. Chiediamolo anzi a Mary e a Frederick se sarebbero così bravi a interpretare i loro personaggi se lavorassero praticamente gratis.
So bene anch'io che la felicità non passa solo dal denaro, ma qual è il sogno che non ha un prezzo?
Detto questo, continuerò a entusiasmarmi alle attività e ai progetti che mi appassionano di più, tentando però di non dimenticarmi di dare un'occhiata periodica al mio estratto conto.
Sono sicura che la Mary Shannon-Shepard che vive in me sarebbe d'accordo e mi schiaffeggerebbe anche se mi vedesse indulgere ancora nei miei duri a morire sogni adolescenziali. Marshall, invece, prenderebbe in giro per la mia romantica inconsapevolezza, affezionandocisi anche un po'.