martedì 18 giugno 2013

Portugal di Cyril Pedrosa e il mio nome, sempre quello, dovunque vada

Portugal, Cyril Pedrosa, dettaglio della copertina

Ho preso Portugal di Cyril Pedrosa (classe 1972) con l'ultima quota del mio premio in libri. Pubblicato in italiano da Bao, una casa editrice di Milano che ha scelto come logo, com'era prevedibile, un cagnolino, di quelli con il muso schiacciato e le orecchie tonde, è l'opera più importante scritta finora da questo disegnatore franco-portoghese, che ha saccheggiato (da quel che ho capito) dalla storia vera della sua famiglia.
Il protagonista, ovviamente, ha un altro nome, ma è piuttosto probabile che le idiosincrasie che l'autore gli ha attribuito siano identiche alle sue.
Pedrosa era, come il suo Simon Mucha(t), la consonante finale aggiunta dai francesi dopo l'emigrazione dei suoi nonni nella terra dello champagne, in crisi creativa e personale.
Per ritrovare l'una e l'altra, decide di compiere un viaggio nei luoghi d'infanzia di suo padre e prima ancora di suo nonno, di cui a un certo punto si erano perse le tracce.
Il risultato è una storia fortemente malinconica e poetica. A tratti, certo, si sorride, soprattutto quando il giovane alter ero dell'illustratore partecipa al matrimonio della cugina, ritrovandosi non si sa come nella vecchia auto della zia, ex figlia dei fiori, e con suo padre e il fratello di lui, questi ultimi sempre disponibili a stuzzicarsi vicendevolmente come da ragazzi. C'è anche un piccolo dramma, che si risolve, per il momento, senza grosse conseguenze, ma tutto su Simon sembra effettivamente scorrere, come il fiume il cui odore non aveva mai imparato a conoscere, a differenza di suo padre e dei suoi zii. In quello stesso fiume il protagonista finisce per immergersi, in una sorta di ritorno al ventre materno graficamente rappresentato da vignette bianco-celesti sul suo corpo nudo, che sembra liquefarsi al contatto con l'acqua.
Bellissimo è il finale, che naturalmente non posso trascrivere, per non rovinare la sorpresa a chi volesse leggere questo librone assai poco maneggevole, ma di spessore autentico.
Mi limito a commentarlo con un rimando alla mia storia personale. Come i Pedrosa-Mucha(t), nonno e nipote, mi sento spesso una senza patria, ma d'ora in avanti terrò a mente la frase che chiudeva l'ultima cartolina che il primo mandò un giorno al fratello rimasto in Portogallo. Non ho con me il libro, quindi chiedo venia per l'eventuale imprecisione nella citazione. La cartolina si concludeva più o meno così: "Dovunque io vada, sono Abel Mucha e basta".
Ecco. Dovunque io vada, dovunque mi trovi, sono quello che sono, con tutto il mio passato e il mio presente. E forse anche un pezzetto di futuro.
Il mio passato è fatto di personaggi che probabilmente Pedrosa sarebbe in grado di disegnare. Se li avessi conosciuti io, invece, probabilmente li avrei fotografati. Adesso posso solo descriverli a parole.
C'era una volta Gerardo Cacchione, un tizio dal cervello bacato, che girava per Chieti, quando mia madre era bambina, con un bisunto pastrano militare, di quelli che tenevano caldi anche i pastori, come ho scoperto la scorsa primavera, sentendo i racconti di due coetanei dei miei dall'infanzia sicuramente più dura. Perché mai era famoso? Perché gli piacevano le femmine. Come lo dimostrava? Facendo risalire le sue manacce luride sotto le loro gonne su su fino al fondoschiena. Le mutande, ai tempi, erano una rarità. Chissà quante botte avrà preso da mariti e fratelli.
Chiuppappà, invece, era innocuo, ma si arrabbiava da matti quando lo chiamavano così. Anche perché lui era tanto servizievole e non trovava giusto che lo si prendesse in giro con quello stupido nomignolo. Era lui ad andare a ritirare la spesa al mercato, sempre a lui chiedevano anche altre piccole commissioni in cambio di pochi spiccioli. Ma Chiuppappà no, se glielo dicevano, diventava rosso di rabbia, anche se cercava di trattenersi, fino a esplodere, come l'Etna.
Ad Atessa, invece, il paese in cui ho passato i miei primi sei anni di vita, prima che mio padre fosse trasferito a Chieti, circolava una certa Elena la 'ndò ndò, le trecce e un cervello da bambina, che non le avevano impedito di trovare marito e fare pure figli. Tutta agghindata come una pupetta, non sembrava avesse ambasce di sorta. Chissà se è stata sempre felice.
Anche se non li ho conosciuti di persona, come Mucha(t) con il nonno Abel, insomma, fanno parte di me e mi rappresentano. E continueranno a farlo, dovunque vada la mia vita.
Bravo Pedrosa; e grazie per avermi restituito il mio nome.

mercoledì 12 giugno 2013

Un'aliena a scuola di business... accidenti che esperienza!

Benché abiti a soli 40 chilometri di distanza, non conosco per niente Ancona. Non ho quasi mai bisogno di andarci e, se posso scegliere, vado a Pescara in treno, o al limite nei grossi centri, tutti raggiungibili con la ferrovia.
In famiglia c'è una sola auto, vecchia e ammaccata (da me). Da qualche anno ho cominciato a guidarla anch'io, ma da quando vivo nelle Marche, ossia dall'inizio del 2005, non è che mi sia mai servita granché. Eppure, in un paese come l'Italia, fatto in prevalenza di piccoli e piccolissimi comuni raggiungibili quasi tutti solo con il mezzo proprio, non avere la macchina significa condannarsi pressoché all'isolamento. Certo, oggi meno di un tempo, in cui si telelavora (o diciamolo) non si lavora affatto. Resta però comunque ancora vero che non si può dire di conoscere un posto se non lo si va a vedere con i propri occhi. Non si può dire di incidere più di tanto in una realtà, in un contesto sociale, se ogni tanto non ci si guarda in faccia.
Tutta questa premessa mi serve per commentare in qualche maniera l'esperienza vissuta negli scorsi due giorni alla Camera di commercio di Ancona, raggiunta, all'andata il primo giorno, in treno + autobus urbano, in auto il secondo giorno grazie all'incontro fortuito con un giovane uomo di Fermo che avevo conosciuto in tutt'altro contesto, ma in analoga intensa occasione formativa.
Che ci facevo lì, direte voi che sapete quanto sia a digiuno di marketing e business? Apposta per questi motivi, potrei rispondere a bruciapelo. In verità, non è andata proprio così. A spedirmi al corso sulla "Comunicazione a basso budget", titolo del workshop di due giorni condotto da Rita Bonucchi dell'omonima srl di Milano (benché, per mia fortuna, la signora in questione fosse una rotonda emiliana: non credo che sarei riuscita a sopportare parole come brand, cms, template, business plan, etc etc se fossero state pronunciate alla maniera anglo-lumbard), è stata la mia amica grafica Maria Loreta, che, molto opportunamente, ha pensato che potesse essermi utile. Direi meglio: esserci utile, visto che insieme abbiamo prodotto un libro che adesso andrà in qualche modo promosso e venduto.
Resta però sempre il fatto che ero quasi totalmente fuori contesto, ma andava benissimo così.
Ascoltare Rita Bonucchi per me è stato infatti  come farsi di una droga euforizzante, che però il giorno dopo ti lascia triturata e frullata (mashed, direbbe lei?) su un marciapiede di periferia.
Non solo non so niente di business plan e marketing, ma non so praticamente nulla del mondo delle imprese italiane, le molte, grandi e piccole, con cui questa piccola signora dagli occhi di pece ha lavorato negli ultimi (credo) venticinque anni. Delle due giornate di lezione con lei mi ha impressionato soprattutto quanto a fondo sia complesso il nostro Paese, provinciale e internazionale allo stesso tempo, pieno di talenti e di mediocri, di inventori e di sgobboni e poi di prodotti, tanti, tantissimi, che hanno permesso e permettono ancora (si spera a lungo), a generazioni di connazionali di sentirsi parte della vita attiva. Nonostante la crisi, nonostante la concorrenza schiacciante di nazioni più attrezzate della nostra, di economie più dinamiche, di orizzonti più aperti.
E adesso che me ne faccio di un corso così? Come posso applicarlo alla mia esperienza e alle mie esigenze del prossimo futuro? Partendo da quel che so già fare, direi. Ossia scrivere. Oltre a questo post, scrivere come vorrei lanciare il mio libro, a grandi linee, certo, ma con un po' di razionalità e di pragmatismo. Rita ci ha detto che la gente non compra prodotti e che il prodotto, in sé, non esiste. Credo che sia un principio base del marketing, ma a forza di sentirmi dire, dall'altra parte della barricata, quella dei giornalisti e/o scrittori, sempre più sballottata tra marosi titanicheggianti, che il giornale, il libro sono prodotti come il copri-water con le cerniere in plastica che ho comprato l'altro giorno per soddisfare il mio bisogno stralunato di bricolage (e per non rischiare di cadere a terra tutte le volte che ci sediamo sul trono malandato), ho smesso di ragionare come dovrebbe fare un qualsiasi accorto imprenditore, micro o gigante non importa, e cioè che prima del prodotto c'è l'idea, ossia c'è l'anima. Se manca quest'ultima, addio fatturato.
Perciò, d'accordo: sto ai margini, sono minima, la mia storia lo è altrettanto, ma è unica e voglio comunicarla perché sono convinta che possa interessare ad altri minimi come me, migliori di me.
Quindi, ok, mi butto. Ma non da una rupe.
Un atterraggio morbido è ancora possibile.
Oh yes!

domenica 9 giugno 2013

Etta James, una vita con l'amore dentro



Post volante prima di tornare dalla regina Vicky (è già tardi, poverina).
Ho scoperto Etta James: mi fa venire le lacrime senza un perché.
E del resto, era proprio lei a dirlo: le mie canzoni fanno piangere anche me, anche se se non ce ne sarebbe motivo.
Di ragioni per tirare fuori tutta l'anima direttamente dalla sua ugola, in verità, la piccola-grande Etta ne aveva molte. Una madre bambina, drogata e scombinata, un'infanzia bruciata troppo presto e una maturità piena di alti e bassi.
Etta James è morta a 74 anni nel 2012 di leucemia. E io non ne sapevo nulla. Conoscevo, certo, una delle sue canzoni più famose, finita in uno spot tv. Ma non avevo idea che dietro quella voce blu ci fosse una ragazzina di appena 22 anni. Ebbene sì: i suoi capolavori li ha registrati in un'età bellissima, sì, ma molto pericolosa. Quando il successo arriva troppo presto, infatti, è più facile che poi il resto della vita trascorra nel rimpianto di ciò che c'è già stato. Ma in fondo non so niente di lei e chissà che non fosse comunque stata contenta così. Almeno, si sarà detto, la mia vita ha avuto un senso e continua (ve l'assicuro) ad averlo anche per chi non mi ha mai sentita cantare dal vivo.
Io, per esempio, come l'ho conosciuta? Ascoltando frammenti del suo album più famoso, "At last", sul cellulare. Uno dei veri prodigi degli smartphone è proprio quello di darti uno strumento in più di conoscenza. Basta mettersi a cercare e qualcosa prima o poi salta fuori.
Da ieri ho il cd (anzi, doppio cd più varie bonus track), ossia sono tornata all'antico, grazie a Paolo che ha pensato bene di regalarmelo per il nostro anniversario (della festa, non del matrimonio! Perché noi teniamo quasi più alla prima che al secondo, non so bene perché. Forse è una sorta di sindrome da sabato del villaggio pre-matrimoniale).
Ed eccovi qui il brano che ha dato il nome al titolo.
Piangete un po' con me e poi andate fuori a cercare l'amore. Se non l'avete già trovato. Se non vive già in voi, come dovrebbe, tutti i giorni della nostra vita.


giovedì 30 maggio 2013

Alla corte della regina Vicky, sperando di resistere

 
 

Ho scattato questa foto l'altro ieri, nel primo pomeriggio inondato dal sole. Uno dei pochissimi di questa bizzarra primavera, perfettamente in linea con il periodo più strano che mai mi sia capitato di vivere credo a questo punto da sempre. Vittoria-Vicky è la gatta che si aggirava nel giardino della cattedrale di Fermo, il colle del Girfalco per chi conosce la zona, fino all'inverno scorso. Giusto poco prima che arrivassero le piogge monsoniche del lunghissimo periodo di maltempo di questi primi cinque mesi del 2013, mio cognato Massimo ha preso l'iniziativa di portarla a sua madre, la star del mio blog, Marisao. La  decisione è arrivata all'indomani della faticosa convalescenza che la suddetta ha dovuto affrontare per via della frattura dell'avambraccio destro. "Un gatto la distrarrà sicuramente e la tirerà su", sosteneva mio cognato. Non potevamo che essere d'accordo, suo fratello ed io, dal momento che erano già almeno due mesi che avevamo preso a preoccuparci del suo destino. Ed è così che, tra alterni umori, Vittoria-Vicky è giunta a casa di Marisao, installandosi come una vera sovrana nella sua nuova dimora di mattoni e cemento. Tolti i primi tempi di disorientamento, non ha infatti mai mostrato particolare nostalgia della sua vita raminga en plain air. Addirittura, anzi, esce sul balcone giusto per rotolarsi un po' al sole (quando c'è) senza mostrare alcun interesse per moschini e insetti vari né tantomeno per le piante di geranio che Marisao cura con tanta dedizione. Curava. Perché in quest'ultimo periodo, me ne sto occupando io, con assai meno sicurezza (ho un passato da rasa-piante un po' inquietante), aiutata per tutto il resto (che è moltissimo) dalla carne della carne di Marisao, nuovamente infortunata. A rompersi stavolta sono stati il femore e il polso sinistro, con conseguente operazione chirurgica per fortuna andata a buon fine. Attualmente mia suocera sta facendo la riabilitazione nella clinica geriatrica della città, con buoni risultati, sembrerebbe. Ne siamo molto contenti, innanzitutto per lei, che temeva di non guarire più, ma anche per noi, che facciamo da spola tra casa nostra, casa sua e ovviamente l'ospedale. In quest'ultimo, a dire il vero, vanno più spesso i figli, mentre io ho assunto a pieno titolo un ruolo quanto mai delicato: la cat sitter. Sto scherzando, ma vi assicuro che quando abbasso le tapparelle e chiudo la porta di casa alle mie spalle, mi sento prendere dall'ansia. Come passerà le lunghe ore di solitudine e di penombra questa magnifica gattona nera striata di chiaro? Il giorno dopo come ritroverò lei, la lettiera e il resto della casa? Al contempo, mi domando, che cosa faranno i mici nostri, certo più abituati di Vicky a non stare in compagnia di noi umani tutto il giorno? Prima del secondo infortunio di Marisao, infatti, l'ex randagia passava praticamente quasi tutta la giornata con questa donna alta e ordinata che di certo avrà qualcosa da ridire sulla conduzione della sua abitazione di queste lunghe settimane di convalescenza, una volta che vi avrà fatto ritorno.
I sensi di colpa conditi dall'ansia, insomma, si moltiplicano. E poi mi domando: ma se avessi avuto un lavoro dipendente (e continuativo) come avrei fatto? Come avremmo fatto?
La scelta di non portare Vicky a casa nostra è stata ragionata: di sicuro Bice e Nino non avrebbero preso molto bene l'arrivo dell'ingombrante (Vicky è il doppio del maschio, che a sua volta è quasi il doppio di Bice) felina né quest'ultima avrebbe fatto altrettanto (la sera dell'incidente di Marisao, mio cognato ha provato a condurla a casa sua e c'è mancato poco che la regina nera tagliasse la gola ai suoi pacifici Nerino e Camillone). Insomma: sarebbe stato ancora più complicato.
Io, però, nonostante tutto, mantengo un grosso spirito pratico ed è così che ho deciso di ricaricare la mia internet key, fruendo peraltro di un'offerta vantaggiosissima (il primo mese: ma spero onestamente di non averne bisogno oltre metà giugno) e di venire a lavorare qui dove mi trovo in questo momento, mentre aspetto che passi il temporale.
Sapete che vi dico? Oggi sono particolarmente dissociata, forse per colpa degli ormoni, ma tutto sommato non è poi così male prendere l'autobus, confondendosi con badanti, studenti e qualche sparuto impiegato dotato di abbonamento, in orari di inizio o fine lavoro e in abiti finalmente civili.
Lavorando prevalentemente in casa, infatti, mi ero un po' dimenticata del mondo dei pendolari da mezzo pubblico e in generale delle abitudini di quelli che si spostano da un luogo all'altro per motivi professionali, per fare shopping o per altre ragioni.
Forse, giusto un pochino, mi mancherà questa fase quando tutto tornerà più o meno alla normalità.
Certo, spero che non duri troppo a lungo, altrimenti la mia faccina da scimmietta diventerà sempre più giallastra (come gli autobus urbani) e comincerò a confondere le stanze dei due appartamenti, andando a sbattere più di quanto non faccia già normalmente quando mi alzo di notte per fare pipì.
Tutta questa storia, insomma, ha anche una morale: mai dare nulla per scontato, di noi, dei nostri ritmi, dei nostri bisogni. Sperando di averne sempre di nuovi e stimolanti, oltre le rogne e la noia.
E in definitiva: w Vicky e tutti gli altri felini.

lunedì 20 maggio 2013

Il giornalismo di domani e il mio destino


Del bigliettino che riporto sopra mi fa tenerezza soprattutto quel "tutto ciò", sia per il tipo d'italiano utilizzato (i ragazzi di oggi usano ancora "ciò"?) sia per quel "tutto" che onestamente, con vera modestia, dubito essere molto.
Come sempre, dal 2006 a questa parte, tranne un anno saltato per problemi organizzativi, a imparare qualcosa sono stata io, sul mestiere che credevo di aver scelto e sugli adolescenti.
In un mese, del resto, si fa appena in tempo a gettare qualche seme, ammesso di riuscirvi, e a memorizzare, se non i nomi, almeno i visi di questi giovanissimi, in massima parte maschi, che ho visto avvicendarsi anno dopo anno nell'aula multimediale dell'Iti Montani di Fermo, una scuola dal passato illustre, che ancora adesso, nonostante lo sfascio tanto chiacchierato della scuola pubblica, continua ad attrarre molti studenti.
Che cosa ho imparato in questi quattro venerdì passati con loro e con il quinto condotto da mio cognato Massimo Del Papa (ebbene sì: si fa tutto in famiglia)?
Che, come sempre, come da sempre, se adeguatamente stimolati, i ragazzi rispondono. Che anno dopo anno mi sembrano sempre più piccoli e che, al contempo, il giornalismo è invecchiato insieme con me. Parlo ovviamente del mestiere che ho conosciuto anni fa, prima come lettrice de "La Repubblica", imbeccata dal prof di storia e filosofia (ma a sedici anni che cosa leggessi di quel quotidiano che esibivo fichettisticamente in classe non saprei dirlo), poi come pivella con manie di grandezza (il mio primo pezzo: un'intervista a un protagonista minore dell'intricata vicenda di Ustica: che ardire), alla macchina per scrivere di mio padre. Infine, a 28 anni, è arrivata la scuola di giornalismo. Il mitico (non per me: fino al giorno dell'orale ignoravo quanto fosse ritenuta importante quella scuola) Ifg. Liberarsi dalla sindrome della stagista di lusso (si fa per dire) mi ha richiesto vari anni, ma alla fine è andata. E solo adesso, a distanza di oltre dieci anni, ho capito alcune cose su questo lavoro così appassionante (inutile nasconderlo: è sì un mestiere che fai, ma un po' "una/uno che scrive" ci nasci anche) e così difficile. Tolti gli evidenti problemi di reddito di cui parlo ormai da un po', è infatti sempre più complicato orientarsi in questo flusso costante di informazioni, boutade, inezie, polemiche sterili e scoop reali, tanto più se sei sciolta da contratto di lavoro dipendente e vorresti proporre qualcosa a qualche testata.Volete che ve lo dica? Ormai è più di un anno (ma forse anche di più) che non penso di vendere alcunché ad alcuno. E sapete perché? Perché non riesco più a capire quali rutilanti proposte potrebbero essere appetibili per qualunque testata nazionale.
Uno dei miei ultimi tentativi è stata un'intervista (già scritta) al mio nume Paolo Conte. Mi sono sentita rispondere che "non erano interessati a cose così", con un leggero tono sprezzante. Peccato che poi su una rivista dello stesso gruppo sia uscito analogo pezzo di una loro collaboratrice. D'altronde, è sempre stato così: sei sei fuori, ti occorre molto tempo per riuscire ad accreditarti. La vera grande differenza rispetto al passato? E' che adesso i collaboratori sono sempre più merce rara, per problemi interni ai medesimi giornali mainstream, tutti, chi più chi meno, in stato di crisi.
Il risultato è uno solo e l'ho potuto verificare con i miei occhi sfogliando (anzi: leggendo) più giornali della mia media sempre più bassa proprio in questo mese di preparazione delle lezioni a scuola. Tolta la solita pagina politica, i giornali sono sempre più simili, più piatti, a volte pure più sciatti.
Non è una grossa novità, lo so. Però credo proprio che ormai ci siamo: parecchie testate cartacee spariranno e, francamente, è giusto così. Dopodiché, certo, le novità ci sono, e sono anche parecchie. Non essendo abbonata a Rsera, per esempio, non posso sapere con certezza come sia cambiata dallo scorso anno, ossia dal debutto, avvenuto proprio durante il precedente ciclo delle mie lezioni. Però ricordo che mi aveva colpito per l'originalità della grafica e poi per la multimedialità del grosso dei suoi contenuti. Se c'è un settore destinato a crescere e forse anche a dare lavoro, insomma, è proprio questo. Chi ha uno smartphone, una fotocamera neanche troppo ingombrante ma con molti pixel e la videocamera incorporata, potrebbe diventare molto appetibile per i media di domani. A un patto. Che ci sia qualcuno in grado di capire ancora la differenza tra un servizio fatto bene e una roba amatoriale buttata là. Se mai, in definitiva, riuscissi a rientrare con entrambi i piedi in questo mondo che seguo con un occhio solo da ormai troppo tempo, dovrò fare i conti con una schiera sempre più fitta di giovani giornalisti smanettoni e/o nerd o jeeg (ho scoperto solo da poco la sottile differenza tra le due parole, che comunque indicano sempre soggetti un po' in fissa con internet e hi-tech in genere), dei quali solo una piccola parte, probabilmente, saprà com'era il giornalismo delle origini, quello della Fallaci e di Montanelli, tanto per intenderci, ma che potrebbe anche non capire come scrivo e parlo io, che dalla Fallaci e da Montanelli sono lontana anni luce.
Non voglio tromboneggiare, però è un fatto di cui ormai sono più che consapevole: alla mia età, non ancora troppo anziana, sono comunque più vicina alla generazione dei miei genitori di quanto non lo sia a quella dei ragazzini che ho conosciuto in questi anni. In classe tutti avevano lo smartphone, qualcuno pure il tablet. Un gruppetto di loro ha partecipato a un progetto e-book, un altro stava girando proprio in queste settimane un cortometraggio. Chi li ha seguiti ne capiva qualcosa del primo e del secondo? La domanda è fondamentale ed è collegata al mio destino professionale. Anche ammesso che riesca ad accreditarmi come smartphone-reporter, come esperta di microblogging o di qualche altro new media prossimo venturo, chi guarderà i miei servizi, leggerà i miei micro-post, sarà in grado di capirli? Non ho una risposta, tutt'al più una speranza, ossia: certo che ci riuscirà. Se così non fosse, farei meglio a imparare un mestiere pratico (la zappa posso ancora tenerla in mano) relegando le velleità scribacchiniche al tempo libero, quello che oggi ho ancora in abbondanza.
Come concludere un post così?
Ringraziando Massimo Del Papa, il cognato di cui sopra, per avermi deliziato con la cronaca di Montanelli sull'esondazione dell'Arno, e anche per il suo tono, visibilmente scazzato, ma proprio per questo molto applaudito, con cui ha lanciato il suo messaggio alle giovani generazioni che affollavano l'aula magna del Montani, lo scorso venerdì: "Potete fare tutto, avete mezzi che noi non avevamo", ha detto in più passaggi. Prima, però, studiate. E leggete. E forse un domani qualcuno di voi mi darà lavoro, compatendomi anche un po'.

giovedì 16 maggio 2013

I buchi del cuore e le lezioni d'inglese

Questa settimana ho fatto ben due lezioni di conversazione in inglese. Anzi, tre: il merito di quest'ultima è di un mio amico in carne e ossa, che molto gentilmente si è offerto di aiutarmi nel mio donchisciottesco tentativo di imparare una buona volta la lingua anglosassone. Impegni permettendo, credo che potrà darmi davvero una grossa mano.
Dal canto mio, spero con tutto il cuore di riuscire a non perdere la motivazione: certo, l'investimento economico compiuto per frequentare la mia scuola d'inglese online non è indifferente, per cui qualcosa dovrò cavarcela per forza. E tuttavia, non mi riferisco solo all'obiettivo esterofilo. Sto parlando più in generale della mia vera o presunta volontà di potenza. Fa molto Nietszche questo passaggio, eh? Fregnacce a parte, gli avvenimenti di questi ultimi mesi (e ahimè anche giorni) confermano sempre di più le fosche previsioni sul futuro, ahimè neanche tanto lontano. E non si tratta di pessimismo o di lagnosità sudista, è proprio che non vedo grossi sbocchi se non "l'auto-tutto" per gente come me e come i miei più stretti legami, alle prese con presunti lavori autonomi a rischio accertamento fiscale per i troppo magri (ma ahimè veri) guadagni annuali accumulati.
E così, tra un accudimento e l'altro (di quattrozampe e persone), tra una lezione d'inglese e un'altra di ginnastica e quelle successive, cerco di non perdere la barra e di darmi un qualche orientamento.
Stamattina ho spedito la mia domanda per un concorso pubblico per soli titoli: voglio proprio vedere se mi chiameranno almeno per il colloquio. Non mancherò di riferirne qui, in tutti i modi. Scritte queste inani righe, poi, mi dedicherò a buttare giù nuove idee per un lavoro creativo. Più vago di così si muore, no? Eppure. Eppure sono proprio i momenti di ricerca e di spremitura delle meningi che mi danno la maggiore soddisfazione. Come sarebbe bello se a ogni scatto creativo (valido, naturalmente, il che significa uno ogni tanto. Le idee buone sono per forza rare) ne corrispondesse uno del mio conto in banca, ovviamente in entrata. Non venitemi a dire che l'arte (?) non paga. In certi casi paga eccome. E in ogni caso io non sono un'artista, perciò non piangete per me come la fidanzata di Moretti in Ecce Bombo.
Abbiate pazienza, insomma. E' solo che oggi è una giornata strana e il mio cuore aveva bisogno di riempire (o forse sarebbe più esatto dire svuotare) di parole i buchi emotivi diversamente troppo grandi. Ieri precisavo con un caro amico che da oggi è un po' più solo che non sono depressa. No, non lo sono affatto. E' solo che non ho più vent'anni (ma neanche trenta. Accidenti alla canzone di un gruppo anni Novanta che ascoltavo in anni che davvero spero di non vivere mai più: parlo dei Prozac +) e certi sogni, a questo punto, non si realizzeranno mai più. E' sicuro che è così, bisogna dirselo con chiarezza. Nel tempo, insomma, il cuore si riempie di buchi sempre nuovi, alcuni dei quali, purtroppo, non si potranno più ricucire, un po' come i calzini troppo lisi.
Perciò, sì, potete raccontarmi i vostri guai (come qualcuno in effetti fa davvero), li ascolterò gratis, con il mio cuore pieno di buchi e il sorriso sempre accennato, forse un po' triste, ma rassicurante.
Sto parafrasando e reintepretando una bellissima canzone di Mark Knopfler, Heart full of holes, da me nuovamente saccheggiato per la lezione online. Non ricordo a memoria il testo, ma sono sicura che la musica che ne accompagna le parole vi faranno capire molto meglio di quanto riesca a fare io quanta poesia c'è, in noi e nella nostra vita. Anche grazie a questi enormi buchi rammendabili mai più.


domenica 5 maggio 2013

L'Italiachelavora: forte con i deboli e debole con i forti


In questi ultimi mesi ho preso spesso il treno. La foto che vedete è nata per caso, durante una sosta un pochino più lunga, lungo la tratta Chieti-Pescara. Una sosta prevista, come ho scoperto solo dopo, foriera (?) dello scatto dallo smartphone che sta diventando una specie di Tamagochi per la sottoscritta.
Sottoscritta che, peraltro, non l'ha mai avuto, il Tamagochi (quando è uscito dovevo essere già grandicella; se me lo fossi procurato, a quest'ora sarei già da un pezzo opportunamente rinchiusa. Ristretta, come si dice dei carcerati, lo sono già, per ovvi motivi metrici).
E quindi: eccovi una foto artistica. E' artistica, eh? Di sicuro è esteticamente più valida di quanto non lo fossero i giovincelli che abbiamo incontrato in analogo viaggio Chieti - Porto San Giorgio mio marito ed io. Avevamo trascorso un bel pomeriggio in famiglia, erano da poco passate le sette e ci accingevamo a ritornare indietro in uno scompartimento vuoto e silenzioso. Così almeno credevamo. Perché un secondo dopo aver tirato fuori il libro dalla borsa, ecco materializzarsi la molestia formato adolescente. Erano cinque o sei, maschi e femmine, capeggiati da un ragazzino allampanato, ricciolino un po' lungo e pelle olivastra. Parevano visibilmente alterati, non credo solo dagli ormoni. Oltre a parlare a un tono di voce molto al di sopra dei latrati di un branco di cani, se la prendevano un po' troppo spesso con quello lassù che, se c'è, non si sa perché li ha creati.
Mi alzo di scatto e prendo la mia decisione: un viaggio intero con questi piccoli mostri proprio no, meglio cambiare scompartimento. Avremmo dovuto allontanarci di più: l'eco del loro vociare si sentiva ugualmente nonostante la porta chiusa e il cigolio rumoroso del treno. Poche file oltre noi, intravedo il controllore e allora penso: ecco, adesso ci penserà lui a farli tacere. Fingo di concentrarmi sulla lettura, ma con la coda dell'occhio seguo l'impiegato mentre si approssima alla fossa dei leoni (magari ce ne fosse stato qualcuno non metaforico da mandare tra loro). Alzo lo sguardo quando riemerge dall'agone. Sul suo viso un sorriso (che fa pure rima) beato. Carucci assai, sembrava che pensasse, teneri come i miei piccini o me quando avevo la loro età. Beata gioventù. Il casino (forse anche di altra natura) prosegue indisturbato, tra santi e madonne che precipitano giù dal cielo.
Verso Porto San Giorgio, poi, il medesimo addetto trenitaliota s'alza dal sedile che lo cullava come le onde del mare e... che fa? Ci chiede i biglietti proprio adesso? E va bene, del resto è giusto così. Gli porgo il mio facendogli presente che vale per due. I mostri sono scesi due stazioni prima, dopo aver sconfinato, nella persona del loro capetto riccioluto e scuro (era lui che insisteva sulla tonalità della sua pelle, per me poteva essere anche giallo panna) anche nel nostro scompartimento per manifestare al suddetto controllore, al solito tono sommesso come quello di un baritono in assolo, tutto il malcontento suo e della sua simpatica comitiva per essere stati derubati da una macchinetta automatica di venti euro. Anche ammesso che fosse vero (non mi stupirebbe: la macchinetta dell'ospedale m'ha fregato un euro perché ho scelto per errore la fila vuota delle bottigliette), perché farlo sapere anche agli anconetani in attesa paziente (rassegnata) al capolinea della corsa? E perché tu, controllore, non hai fatto presente al tenero giovanotto di moderare, diciamo così, il suo risentimento?
Sia come sia, a me, che con educazione e voce normale (quindi bassina, come tutto il resto) gli facevo notare il tipo di biglietto che aveva davanti a sé, ha risposto, togliendosi dalla faccia quell'espressione rasserenata dal dondolìo ferroviario: "L'ha timbrato?". E certo. E figuriamoci.
Scendiamo scuotendo la testa. D'altra parte, era primo maggio, poveretto lui che lavorava.
Solidarietà ai compagni ferrovieri. E pure ai compagni autisti di bus romani. In particolare a quello che la stessa sera, una mezzorata dopo (come direbbe Montalbano), ha pensato bene di partire sgasando dal capolinea della stazione Tiburtina, benché mia sorella con primogenito al seguito gli avesse appena chiesto di attendere giusto un minuto in maniera che riuscissero a saltare su anche suo marito e il figlio minore cinquenne, colpevoli di non essere riusciti ad andare alla stessa andatura dell'altra metà della famiglia, sotto il diluvio universale che li aveva colti di ritorno nella nostra bella accogliente capitale d'Italia. Il tutto, poi, accompagnato anche dalla seguente frase: "Ahò, signò, io mica posso sta' qua ad aspettare a voi. Io c'ho dei tempi, ed è pure primo de maggio".
Mia sorella, ormai avvezza alla proverbiale cortesia romana, si è limitata ad arrivare, almeno lei con mio nipote, a destinazione. Nipote minore e cognato, invece, hanno fatto metà tragitto fino al capolinea dell'unico altro bus in partenza, che però arrivava solo fino a metà strada e anche loro abituati alle lunghe, filosofiche attese che si sperimentano alle fermate dei mezzi di superficie delle grandi (e anche piccole, questo sì) città italiane, hanno aspettato che mia sorella con piccino senior al seguito li venisse a recuperare con la loro auto privata. Spero che almeno siano riusciti a ripararsi sotto una pensilina.
L'ultimo edificante aneddoto sul pianeta lavoro pubblico (o para: Trenitalia è una compagnia privata, no?) dipendente mi è stato raccontato giusto ieri da una mia carissima amica di rara cortesia e discrezione. Per puro caso l'ho chiamata una mezzorata dopo (mi ripeto, ma mi piace assai il suono pseudo siculo di questa espressione) l'incidente che l'aveva gettata in un forte sconforto. Una tizia di un grosso sindacato, sì, proprio quello che da qualche tempo è partito lancia in resta nella difesa dei dirittideiprekari, le ha praticamente chiuso il telefono in faccia, quando lei, pietosamente, era arrivata a dirle: "Ma scusi, perché mi risponde così? Perché mi tratta male? Io volevo solo un'informazione". Del resto, a tutti i livelli e in tutti gli ambienti, continua a valere la logica "forti con i deboli e deboli con i forti". E la mia povera amica, evidentemente, in quel contesto, con le sue frasi interrogative, è stata ritenuta una debole. Mi piacerebbe proprio vedere come si comporta la stessa impiegata, assunta di sicuro per meriti, con i suoi capi. Sempre ammesso che ne abbia almeno uno che la possa sbattere a fare la calza, perché gente così, in genere, ha spalle iper-coperte. Vorrei sapere, analogamente, come si comporterebbe l'autista dell'Atac o il ferroviere mollacchione se qualcuno di meno corrotto (la raccomandazione è una forma di corruzione e non ci sono santi, per quel che mi riguarda) facesse loro un discreto, silenzioso, forbito culo per il loro cattivo rendimento sul lavoro.
A me qualche volta è capitato di subirne qualcuno anche non meritato, ma v'assicuro che funziona. Eccome se funziona. Però, capirete, che cosa volete che importi quel che è successo a una freelance squattrinata e livorosa come me? Chi volete che legga queste righe con tutto quel che hanno da fare quelli che lavorano, quelli che è-primomaggioedevolavorà, quelli che siamo-malpagati-e-tuttiacasa?
Nessuno o pochi (ma buonissimi). Ebbene, a loro e a me stessa voglio dirlo ugualmente: un paese civile si riconosce dai dettagli (un po' come un buon romanzo o una buona fotografia). Questi aneddoti vanno nel senso contrario.
Domani ricomincia un'altra settimana, disordinata ma creativa per chi come me s'inventa cose da fare per andare avanti con dignità e per quelli che timbrano il cartellino annoiati e frustrati.
Vorrei maggiore stabilità economica, certamente, però ve l'assicuro: preferirei altri mille anni randagi come questi piuttosto che un solo giorno come quelli vissuti da gente così. Gente che non merita gli anni di lotte sindacali, sacrosante e inderogabili, per avere condizioni di lavoro migliori.
E quel ragazzino nero, maleducato e arrogante, e i suoi sciocchi amici che lo assecondavano, non sono i giovani a cui vorrei affidare la mia vecchiaia di domani. Perciò scrivo, sperando di gettare qualche seme. Sperando e sognando tempi migliori. Buona settimana a tutti.