lunedì 27 gennaio 2014

Giglio rosso, cuore grosso, un altro esercizio di Minuti scritti



Non ho molto tempo (sto aspettando una telefonata importante), ma approfitto dell'attesa per parlare per l'ultima volta (lo giuro) di Minuti scritti, lo stimolante libro di Anna Maria Testa che ho finito di leggere sabato scorso.

Leggere non è il verbo adatto, perché in realtà volevo dire che ho terminato tutti i compiti contenuti nel manuale della pubblicitaria milanese, ma non ho seguito proprio adesso uno dei consigli più importanti dalla medesima elargiti, ossia rileggere per bene ciò che si è scritto tagliando il superfluo.
Ma in questo caso, non fa niente: come si dice, solo chi fa sbaglia.

E io ho sbagliato parecchio durante la lettura ragionata dei suoi esercizi, che la Testa fa seguire da un capitolo conclusivo dedicato a tirar le fila di un ragionamento condotto con la grazia elegante di una chiacchierata brillante, di quelle che ti squarciano la tua, di testa (e, a proposito, giusto a me che sono fissata con il motto nomen omen, doveva capitarmi di imbattermi in una persona con un cognome così. Un bel cranio, il suo, non c'è che dire).
Tornando a bomba, mi limito a riportare qui l'esercizio che mi è venuto meglio (per quello peggiore, invece, bisogna che ci rifletta un altro po'...), precisando che non so proprio da dove sia saltato fuori.

O meglio: ho capito ancora una volta che la mia scrittura analogica, ossia quella sollecitata ad arte dal prezioso manuale, si attacca alle suggestioni dell'ultim'ora in una maniera quasi scientifica.
Se avessi avuto più tempo, cioè, non credo che avrei svolto l'esercizio intitolato "Storie per strada, tempo richiesto 15 minuti + una passeggiata", nel modo che vedrete.

Come base di partenza avevo solo una targa d'auto, dalla quale dovevo estrarre le prime due lettere o le ultime due, che mi avrebbero dato le iniziali di una persona e di un motto (Anna Maria aggiunge anche "una caratteristica o un fatto saliente") e il sesso della persona, maschio se l'auto era scura, femmina se chiara.
E la passeggiata? Beh, non l'ho fatta, semplicemente perché in quel momento pioveva assai e non mi andava, ma nel libro erano riportate una serie di targhe, l'ultima delle quali è diventata la mia, almeno per i quindici minuti successivi.

Eccovi qua l'esercizio:

GIGLIO ROSSO, CUORE GROSSO
 
Giglio rosso, cuore grosso. La prima volta che l’aveva sentito dire avrà avuto quattro anni. Da allora non l’aveva più dimenticato. E dire che di anni ne erano passati ben 71. Giorgio non riusciva a crederci. Nella sua famiglia era, allo stato attuale, il più vecchio. Noi Rapisardi siamo sempre stati debolucci, me lo diceva sempre mia madre. Però lui era nato sotto una buona stella, sempre a sentir lei. Un maggio così tiepido non si era mai visto, gli raccontava, tenendolo sulle ginocchia. “Sei nato in un pomeriggio talmente caldo e limpido che sembrava già fine giugno”, gli diceva cullandolo.
Giorgio adorava la voce di sua madre, un po’ sgranata e quasi maschile. Non sarebbe mai sceso dalle sue ginocchia, in particolare quel giorno che gli parlò, per la prima volta, del giglio rosso che improvvisamente era spuntato, tra i soliti bianchi. Stava per partorire, aveva appena rotto le acque.
“Tuo padre era bellissimo, ci parlavamo a gesti, sai? Solo molto dopo ho imparato la sua lingua. Gli dissi che ero incinta, un giorno prima che salpasse. Dovevi vedere com’era contento, gli vennero le lacrime agli occhi, lui che era sempre così calmo. Tornò con un sacchetto di semi e mi fece capire che dovevo piantarli subito, così non l’avrei dimenticato. Ma come potevo dimenticarlo, tesoro mio? Mi aveva dato te, mai sarebbe successo. Nel sacchetto c’era anche un biglietto, che all’epoca non riuscivo a leggere bene. Avevo solo la terza elementare, lo sai, e all’epoca chi ci pensava alla scuola?”.

Guardò fuori dalla finestra, c’era un bel sole, chissà se era lo stesso di tanti anni prima. Fu allora che vide la macchia rossa, nel mare di bianco. Forse sua madre aveva ragione. Sarebbe vissuto ancora a lungo.

Dall’altra parte dell’Oceano Martin Red si lasciò uscire una lacrima, mentre l’infermiera gli misurava il battito. “Complimenti, Mister Red, il suo cuore è ancora in forma. Mi dice qual è il suo segreto?”.

Martin sorrise e si lasciò sfuggire come per caso: “Giglio rosso, cuore grosso… Buon compleanno, figlio mio”.
 
Non sarà un capolavoro (ma figuriamoci), però mi piaceva pubblicarlo oggi. La Shoah non c'entra (o forse un pochino c'entra), ma la memoria collettiva e personale sì.

Ho ricevuto la telefonata che aspettavo. Vorrei tanto che quel motto fosse vero.

martedì 21 gennaio 2014

Margherita Hack e il segreto del matrimonio, in un esercizio di scrittura




Chissà chi è l'autore di questa bellissima fotografia di Margherita Hack, gli occhi celesti più vivaci che io abbia mai visto, che le regalavano, almeno in età avanzata, uno sguardo molto simile a quello che aveva la mia nonna paterna. In comune tra loro, c'è anche l'anno della scomparsa, ancora troppo recente per poter essere completamente metabolizzata.

Mi accorgo, tra l'altro, proprio adesso, mentre scrivo, di aver già scovato un'altra analogia tra una grande donna della letteratura come Doris Lessing e la madre di mio padre, poco scolarizzata ma dotata di un'intelligenza ricca di buon senso veramente fuori dal comune esattamente come queste due signore immortali per la storia dell'umanità. Qualcosa mi dice che si sarebbero state simpatiche se si fossero conosciute. Ignoro, tra l'altro, se non sia davvero capitato, almeno a Margherita e Doris, di conoscersi personalmente.

In tutti i modi, mio padre mi ha passato il libro ricevuto in regalo a Natale Italia sì, Italia no, considerato il testamento spirituale dell'astrofisica fiorentina, amante delle stelle e degli animali. Ricordo di essere stata accolta al telefono, durante l'intervista che ho avuto la fortuna di farle, dall'abbaiare del suo cane. Dimenticai di chiederle come si chiamasse, probabilmente perché intimidita dalla consapevolezza di avere all'altro capo dell'apparecchio questa grande azzurra signora.

Non so perché, anzi forse lo so, ma ho parlato di lei e del suo compagno di vita Aldo nell'esercizio che ho tratto da Minuti scritti, il prezioso libro di Anna Maria Testa, che ho comprato per prepararmi a un possibile imminente lavoro.
Osservando la foto dei due anziani che si baciano in una strada deserta di città, mi è tornata in mente la frase scritta dalla Hack a proposito del suo matrimonio, durato sessant'anni grazie all'amicizia straordinaria e alla complicità tra lei e il suo uomo, due elementi che sembrano così difficili da reperire nei rapporti della contemporaneità.

Avevo, certo, solo venti minuti di tempo per buttare giù un testo che fosse collegato a una delle quattro immagini selezionate dalla pubblicitaria milanese dotata di grande mestiere e sensibilità, ma tra tante storie, o abbozzi di queste ultime, la mia psiche è andata a ripescare proprio quella frase, letta pochi giorni fa, ma rimasta scolpita in me assai più dei brani del libro decisamente più significativi per il futuro della nostra patria, che Margherita ha finito per dettare dal suo letto d'ospedale, due giorni prima della morte.

Ve lo ripropongo qui sotto, non perché sia un capolavoro letterario, ma soltanto per la sincerità con cui l'ho buttato giù.


Margherita e Aldo si sono amati e rispettati per sessant’anni. Dieci volte sei. Ci pensate? Non so dire se si scambiassero anche effusioni in pubblico come i due anziani nella fotografia. Una fotografia che, tra parentesi, trovo un tantino scontata. Sì, sorridono mentre le loro bocche si toccano proprio lì, in mezzo al marciapiede di una cittadina forse americana o forse nordeuropea. Però è talmente chiaro che siano consapevoli della presenza del fotografo. Magari li ha voluti ritrarre così una nipote (sì: è ancora tipico delle donne cedere a sdolcinatezze così), il che me li rende più simpatici. E tuttavia non so: scambiarsi baci in pubblico non è mai stato il mio forte neanche quando avevo vent’anni, non so dire che cosa farò alla loro età, ma qualcosa mi dice che preferirei evitare prove materiali dell’eventuale passione tardiva.

Non che non desideri, come qualsiasi ex bambina sopra i 40, di amare ed essere amata tutta la vita dal mio uomo. In generale, l’amore è un grande miracolo dell’esistenza: non vedo perché negarselo in età avanzata. Posso ben dirlo io che ho scritto per anni di anziani. L’esperienza lavorativa, anzi, mi ha aiutato a interrogarmi molto più di quanto non abbia mai fatto prima sul senso dell’esistere.

Sul tempo, le stagioni, la malattia, la morte. Sì. Anche quella. Sono sicura che Margherita avrebbe continuato a scegliere il suo Aldo mille altri giorni ancora se la falce non l’avesse recisa. Certo, campare fino a oltre novant’anni sembra un intervallo ragguardevole tra il  nulla che precede e quello che probabilmente segue. Eppure, sono certa che per una donna come lei, con un’energia straordinaria come la sua, il pensiero di non esserci più non dovesse aggradarle poi molto. Chissà che cosa sta facendo il suo Aldo adesso. Le parlerà guardando le fotografie, sfogliando i suoi libri? Mi è appena venuto in mente il personaggio di Pereira, il bel libro di Antonio Tabucchi interpretato da un invecchiato ma sempre immenso Marcello Mastroianni. Proprio Pereira, tutta la vita passivo e schivo, rimasto legato troppo a lungo al ricordo della moglie scomparsa, alla fine capisce che è arrivata l’ora di battersi per un ideale maggiore. Per l’umanità. Per il futuro. Tutti dobbiamo scomparire e per chi non crede nell’aldilà morire è una vera iattura, a meno di non essersi condannati anzitempo alla morte interiore. A meno di non essere così disgustati da questo sangue che ci pulsa in corpo da preferire la polvere e la terra al frusciare degli alberi e il rullar del mare.

Insomma. Ben vengano anche le foto in strada, in posa o meno, se servono di esempio a chi dubita di avere ancora qualche carta da giocare, fosse anche a 80, 90, cento e passa anni.

Perciò grazie, Margherita, per quel che hai fatto per tutti noi e per il tuo amore per Aldo, che sicuramente non ti dimenticherà mai.

Che cos'altro aggiungere?
Solo che bisogna darsi da fare. Soprattutto se si è donne e si vive in Italia. Se poi si ha la fortuna di incontrare un uomo che ci sa stare affianco, meglio, ma nessuno può dotarti di una forza che non hai.
Ricordiamocelo sempre.

martedì 14 gennaio 2014

Ninotchka e il fascino del cinema senza tempo


 
Credo di averne già parlato da qualche parte. Se l'ho fatto, beh, scusatemi (siete così pochi a seguirmi che se ne ho parlato, ve ne sarete sicuramente accorti).
In tutti i modi, ieri ho visto per la prima volta sul grande schermo Ninotchka, uno dei miei film maggiormente amati. Non so in effetti scegliere tra la pellicola passata alla storia per "la Garbo che ride" o l'altra, altrettanto perfetta, di Ernst Lubitsch che cito spesso senza quasi accorgermene. Sto parlando di "Scrivimi fermo posta", in inglese, più appropriatamente, The shop around the corner (il negozio dietro l'angolo, per i pochi non anglofoni rimasti).
 
Non ho quasi mai letto i sottotitoli in italiano, ma devo precisare che la perizia linguistica appena rivendicata in verità è stata di gran lunga sostenuta dal fatto che conosco il film a memoria, praticamente.
Anzi: lo conosco talmente bene che mi sono accorta persino degli errori nei sottotitoli che ogni tanto ho sbirciato (quando parlava la "granduchess Swana", per dire, non capivo quasi una mazza. Perdonatemi l'italianismo non troppo educato).
 
Capisco che la lingua si evolva e che debba adattarsi ai mutamenti dei costumi, però, per farvi un solo esempio, era proprio necessario sostituire la più musicale e francese parola "verve" con finezza, che non è proprio la stessa cosa?  
 
Mi riferisco a quando la granduchessa Swana incontra Ninotchka e Leon insieme e attacca a parlare a macchinetta (ed è lì che non ho capito assai) del cagnolino che lui le ha regalato.
A un certo punto si rivolge alla bella bolscevica scusandosi falsamente di fare discorsi che lei non può sicuramente capire. Ninotchka, invece, ricambiandola di altrettanto falsa cortesia, la rassicura: ha capito proprio tutto.
Allora Swana, teatralmente, sospira: "Oh mio dio, sto perdendo la mia verve". Così nel doppiaggio degli anni Quaranta (o Cinquanta, non più tardi, comunque), che mi ha da sempre conquistato.
 
La voce della Garbo era infatti affidata ad Andreina Pagnani, che ho imparato a conoscere puntata dopo puntata nei Maigret con Gino Cervi, per aver interpretato la fedele moglie Louise.
Una voce bellissima, dolce e profonda insieme. Il mio ideale di voce femminile.
 
E insomma. Le voci autentiche di Greta e Melvin (Douglas) sono altrettanto affascinanti e mi hanno fatto letteralmente impazzire nelle scene successive al teso incontro con la granduchessa, quando, ubriachi, fanno ritorno in hotel.
Che recitazione, accidenti.
 
Prima del film, che ho visto (a proposito) alla Sala degli Artisti di Fermo, che ha organizzato un cineforum lungo un anno intero con le pellicole presentate all'ultima Rassegna di Bologna nota come "Il Cinema Ritrovato", ho scoperto, ascoltando l'introduzione, che l'attrice di origine svedese smise di recitare due anni dopo Ninotchka per via del flop subito dal film successivo. 
 
Chissà se non c'erano anche altre ragioni, considerato tra l'altro che in molti Paesi la pellicola, uscita nel 1939, venne vista solo dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, come è stato specificato sempre prima della proiezione.
 
Magari era stanca, magari una diva abituata a stare sulla ribalta per molti anni finisce per non sopportare neanche il più piccolo stop. In fondo, succede anche oggi. Soltanto che di stelle così non ce ne sono poi molte.
Non voglio fare la passatista, eh, però capolavori così moderni e insieme senza tempo non nascono tutti i giorni.
 
Vi lascio con la scena dell'incontro tra il sergente Yacushova e il borghese Leon sul marciapiede parigino: ho ritrovato il suono dei clacson in un brano di Jelly Roll Morton chiamato Sidewalk Blues. Quest'ultimo, a sua volta, mi ha fatto troppo pensare al kazoo di Paolo Conte, che ama moltissimo il Jazz degli anni Venti e Trenta (e si sente tanto nella sua musica). Non potete immaginare che soddisfazione mi dia fare questo tipo di collegamenti: per trovarne altri, probabilmente, mi ci vorrà tutta la vita.
 
E meno male.
Prima di lasciarvi al video, aggiungo un'ultima preghiera: se potete, andate a vedere Ninotchka e altri film così grandi al cinema.
Avrete anche dei tv iper-ultra tecnogici, ma le luci che si smorzano in sala e persino i colpi di tosse dei vicini (e qualche dannatissimo cellulare che ogni tanto squilla ancora: ma li mortacci...), vi regaleranno tutt'un'altra profondità. Buona visione!
 
 
 

 
 

martedì 7 gennaio 2014

Fermo di Sualzo, la vita oltre il panico



Natale 2013: davvero memorabile.
Sono, siamo, stati bene e oltretutto, nonostante il gran casino prodotto dalla festosa presenza dei nipoti, sono pure riuscita a leggere un po'.
Fermo, il libro a fumetti che vedete sopra, mi è stato regalato da mia sorella (e relativo coniuge), inizialmente attratta, com'è facilmente intuibile, dal titolo. Prima di incartarlo, però, l'ha letto, persuadendosi ancora di più che potesse essere adatto a me. E infatti aveva ragione.

"Fermo" è esattamente quel che era per me prima di venire ad abitare nell'omonimo sostantivo nome del piccolo comune marchigiano distante pochi chilometri dal mare Adriatico.
Fermo è stato, per un anno intero, il protagonista della storia scritta da Sualzo, pseudonimo di Antonio Vincenti, che si descrive sul risvolto della quarta come "sassofonista mancato e disegnatore autodidatta, interessato alle cose del mondo".

Come ho già sottolineato in altri post, io non so disegnare, ma adoro le storie disegnate, in generale mi interesso alle cose del mondo e sono abbastanza un'autodidatta di quasi tutto quel che mi capita a tiro. Questo solo per dire che non sono in grado di dirvi se il tratto usato dall'autore di Fermo sia o meno buono.
Di certo è il sincero specchio di una visione del mondo malinconica e insieme ironica quanto basta.

Sebastiano, questo il nome del protagonista della storia, resta "fermo" a Bibbiena per oltre un anno per svolgere il Servizio civile. L'anno dopo, racconta all'inizio, la leva obbligatoria sarebbe stata abolita, ma essendo lui uno studente bloccato a un tot di esami dalla laurea, sceglie di fare l'obiettore come una sorta di male minore, convinto che l'avrebbero spedito in qualche deserta biblioteca a pochi minuti da casa.
E invece la destinazione che gli assegnano è parecchio lontana, non solo geograficamente.

Proprio a lui, che soffre di attacchi di panico da quando aveva sedici anni, tocca di occuparsi di malati, psichici e fisici. Il suo compito, a dire il vero, non è poi così difficile: come gli spiega l'impiegata comunale che segue i ragazzi del Servizio civile, basterà che faccia loro un po' di compagnia, per dare ai familiari la possibilità di prendersi qualche ora di libertà. Se poi fosse riuscito anche a provare anche dell'affetto, beh, sarebbe stato ancora meglio. Ma non indispensabile.

Sebastiano è però di quel genere di persone che sanno entrare in empatia con gli altri, lo si capisce pagina dopo pagina, striscia dopo striscia.
E d'altra parte dubito che un'esperienza del genere non lasci traccia alcuna, anche sulle scorze più dure.
Il rischio di cadere nella retorica c'era, insomma, ed è proprio per questo che ho particolarmente apprezzato il tono sensibile ma non buonista adottato da Sualzo anche nella descrizione della tragedia, in fondo da tutti aspettata (anche da chi legge), che a un certo punto interviene nella storia.

Allo stesso modo, ho trovato molto felice la titolazione dei capitoli, rubata qui e là da canzoni (una scelta piuttosto obbligata per un musicista come l'autore) e i brani poetici riportati in fondo alla pagina di apertura di ciascuno di loro.
L'ultimo mi si è conficcato quasi sotto la pelle. E' una poesia (credo intera, ma non ne sono certa) di J. Twardowski, un autore che non avevo mai sentito nominare (e scusate l'ignoranza). S'intitola Contro di te e dice:

Prega per quello che non vuoi affatto
di cui hai paura come uno scoiattolo della pioggia
da cui fuggi come un'oca sempre più lontano
e tremi come in un soprabito senza imbottitura d'inverno
da cui ti difendi con tutte e due le mascelle

inizia finalmente a pregare contro di te
per ciò che è più grande e viene da solo.

Non credo di essere capace (anzi ne sono sicura: non lo so fare) di pregare contro di me, ma so che cosa significa pregare perché quella crisi arrivi, prima o poi. Perché una volta che è arrivata, così come è arrivata, poi passa.

Se non ho male interpretato il finale del libro, Sebastiano e il suo alter-ego Sualzo superano definitivamente gli attacchi di panico proprio dopo l'anno di "fermo" a Bibbiena. Se così non fosse, non importa: con il panico, o qualunque altro demone alberghi nei nostri cuori, si può convivere. Certo che si può.

L'importante è imparare a non fuggire, ma a starci, dentro i nostri demoni, dentro i nostri fermi interiori.
E' forse questo il segreto della vita?
Penso di sì, ma non ho la pretesa di dettare ricette universali.
Come penso non ce l'abbia neanche Sualzo, che è stato davvero molto bravo nel mescolare la realtà e la fiction, come solo i grandi tessitori di storie sanno fare.

E adesso l'anno nuovo può finalmente cominciare.
Demoni miei, vi aspetto al varco.

venerdì 20 dicembre 2013

Il mercatino dell'Otto dicembre e la dignità del lavoro. Auguri a tutti

 

Ho scattato questa foto lo scorso otto dicembre, all'imbrunire.
Come (forse) si intuisce, ho trasportato il cesto dei nostri gatti sul banchetto che ho allestito per il primo mercatino natalizio di Fermo. Nella cittadina marchigiana rispettano infatti in maniera molto rigorosa il calendario delle festività cristiane. Prima della festa dedicata all'Immacolata Concezione, per dire, non accendono neanche le luminarie.

E insomma: tra un dubbio e l'altro, alla fine ho pagato una cifra sostenibile per occupare uno spazietto a due passi dalla grande piazza principale e, per l'intera giornata, decisamente umida, mi sono trasformata ancora una volta in ambulante.

A chi mi chiedeva che cosa vendessi e in alcuni casi anche perché, ho spiegato, con tutta la calma che mi è possibile (sono un tipo francamente suscettibile, anche se cerco di nasconderlo in ogni modo) che mi sembrava una buona idea continuare in questa forma di artigianale "direct marketing" che tanta fortuna aveva avuto la scorsa estate.

E in effetti è andata bene anche stavolta. Benché, adesso posso dirlo con tutta sincerità, fare la vita dell'ambulante è davvero dura, soprattutto d'inverno. D'altro canto, ho fatto anche un'altra, educativa scoperta.
In quel mercatino, di persone prestate al mestiere del mercante ce n'erano davvero tante.

Sulla mia sinistra, per esempio, c'erano due coppie di sessantenni, o giù di lì, con i loro oggetti fatti in casa di davvero pregevole fattura. Sono rimasta a osservare diversi minuti ogni singola pallina natalizia ai ferri e soprattutto il meraviglioso paraspifferi con tanto di funghi e lumache cuciti sopra, dal costo di diciotto euro.
Niente, considerato l'amore, la cura e il tempo che la sua realizzatrice deve averci messo. A fine giornata, però, quel bellissimo oggetto era rimasto invenduto e io posso assicurarvi che se avessi avuto qualche denaro in più l'avrei comprato.
Pensate, anzi, a quanto costa la stessa cosa se la prendete in uno dei quei negozi di artigianato locale o pseudo tale.

Idem per le bellissime agendine di carta crespa confezionate una per una dall'altra signora sessantenne, lo sguardo vispo e il marito molto simpatico, un elettricista disoccupato.
Quest'ultimo usa il suo tempo libero per fare degli orecchini molto fini, piccini e delicati, più facilmente smerciabili, certo, ma venduti a prezzi talmente bassi che dubito che il ricavato gli basti a coprire le spese dei materiali e del tempo lavoro che ha dedicato a ognuno di loro.

Di fronte a me, poco più su, c'era una signora russa, della Crimea per la precisione, la tipica struttura di capelli a cofano e la faccia di chi ha molto sofferto molto frequente tra queste signore dell'Est Europa che vediamo assai spesso in compagnia di anzianissimi connazionali.
Con lei c'era una ragazza dagli occhi di ghiaccio e una treccia da dottor Zivago, che continuava a sferruzzare con il suo uncinetto piccolissimi sotto bicchieri e presine varie.
Anche il loro banchetto era minuscolo, forse persino più del mio.

Mi sono avvicinata ai loro oggetti e ho comprato, esattamente come avevo fatto con gli orecchini fatti dall'elettricista. Anche in questo caso perché il prezzo era molto basso. Anche in questo caso, infatti, ho pensato che gli stessi prodotti venduti in uno dei negozi sfavillanti di qualsiasi centro urbano costerebbero tre volte tanto. Almeno.

Alla mia destra, invece, c'era un bancaccio enorme, pieno di cineserie, gestito da uno strano trio di personaggi, un'italiana sporca e puzzolente, i capelli unti e gli occhi d'acqua, e due uomini giovani con i denti già marci, forse pakistani. Ogni tanto dal loro banco partivano dei fasci di luce stroboscopici e una musica chiassosa e di bassissima qualità sonora forse prodotta proprio da uno dei loro oggetti in vendita. Sul filo sopra al banco una schiera di quelle scimmiette che imperversavano anche la scorsa estate sulle spiagge.

Non ho idea quanto abbiano incassato, ma posso assicurarvi che erano molte le persone che si fermavano da loro, qualcuno per le scimmiette, qualcun altro per quegli aggeggi stroboscopici, altri ancora per degli orribili fiori finti.

In ogni caso, era chiaro il motivo per cui il grosso dei passanti era attratto dal loro banco: il bassissimo costo che però, in questo caso, era anche sinonimo di bassissima qualità.
Dubito insomma che i grossisti di tutta quella paccottiglia vendano sottocosto ai dettaglianti.
Noi ambulanti per caso (o sarebbe meglio dire per costrizione) rischiamo invece di rimetterci o di andarci solo a pari.

Detto questo, per me che ho studiato ma sto avvicinandomi un passo alla volta sempre di più al baratro della miseria, è stata una lezione di vita sentirmi dire, a fine giornata, dal pakistano con gli occhi di brace e l'alito di curry: "Hai lavorato?".
E' come se avesse capito tutto, è come se in quelle poche ore passate l'uno accanto all'altro, si fosse creata una sorta di solidarietà da disperati o simil-tali, piena alla fine della dignità di chi comunque non è stato a grattarsi la testa o a battersi il petto, ma ha comunque, eccome, lavorato.

Sì, caro pakistano. Quella sera ho lavorato e sto continuando a farlo, come posso, cercando di non smarrire mai la fiducia nel futuro.
Non è facile, ma è proprio vero che l'istinto di sopravvivenza è più forte di qualsiasi altro sentimento.

Stamattina, poi, sono stata contentissima di prendere altri due ordini da una mia cara amica che non sentivo da tempo. Adesso anzi corro a farle la spedizione. Mi cambierò, truccandomi un po', e andrò alla posta. Con tutto l'orgoglio segreto di chi ha capito che bisogna lottare. Sempre.
Come sta facendo la mia magnifica mamma anche in questo momento.
A lei ho dedicato, non a caso, il mio libro.
A voi che mi state leggendo, dico grazie. E Buone Feste.
Ce le meritiamo.

giovedì 5 dicembre 2013

The Suit a Fermo, la vita oltre la tragedia grazie a Miriam Makeba



Davvero piacevole The suit, lo spettacolo di Peter Brook, Marie-Hélène Estienne e Franck Krawczyk che ho visto ieri sera al Teatro dell'Aquila di Fermo.
Non so dirvi se c'erano imperfezioni tecniche (non sono una critica teatrale), ma posso solo raccontarvi dell'atmosfera, resa lieve dai colori accesi della scenografia e dei costumi, e anche dalla leggiadria di Matilde, detta Tilly, il personaggio femminile protagonista di quella che in verità sarebbe una tragedia della gelosia, ma che invece finisce per trasformarsi in un inno all'amore e alla vita.

Non ho idea di come si chiami la ragazza sudafricana che aveva le lacrime agli occhi quando si sono accese le luci a fine spettacolo. Sulla cronaca della prima delle due serate, pubblicata da un quotidiano locale, ho visto che le hanno attribuito il nome della curatrice dell'opera andata in scena per la prima volta nel 1999, con il titolo Le costume.

Non sono certa che abbiano ragione, ma in ogni caso ho trovato assai credibile quel che avrebbe detto l'affascinante attrice, ossia di essersi completamente calata nella parte.
Del resto, bastava vederla cantare Malaika di Miriam Makeba per capire le ragioni della sua commozione.

Sarà che l'età mi sta rendendo sempre più malinconica, in ogni caso, stamattina, leggendo la storia di Mama Africa, com'era chiamata la voce simbolo della lotta all'Apartheid, e soprattutto scorrendo il testo del brano riproposto ieri sera in scena, mi sono scese un po' di lacrimucce.

E a proposito: visto che ho capito quasi tutto senza leggere i sovratitoli, giacché ci sono, faccio un ulteriore esercizio traducendo nella nostra lingua (nel modo meno scolastico possibile) il testo che scorre dopo le note biografiche della Makeba, in swahili e in inglese.

Prima si sente Miriam che dice:
"Signore e signore, questa canzone viene dalla Tanzania: è una canzone in Swahili, una canzone d'amore, e dice semplicemente 'Malaika, nakupenda Malaika', che vuol dire solo 'ti amo, mio angelo'".

E poi comincia a cantarla:

"Angelo, io ti amo, angelo (due volte)
vorrei sposarti, mia fortuna
vorrei sposarti, sorella
Non ho saputo difendermi dai colpi della sorte,
ma vorrei comunque sposarti, angelo (due volte)
La mancanza di denaro sta affliggendo la mia anima (due volte)
E io, tuo giovane amante, che cosa posso fare?
Non ho saputo difendermi dai colpi della sorte
ma voglio sposarti lo stesso, angelo (due volte)
Uccellino, ti sogno, uccellino mio (due volte)
E io, tuo giovane amante, che cosa posso fare?
Non ho saputo difendermi dai colpi della sorte
ma vorrei comunque sposarti, angelo (due volte)
Angelo, ti amo, angelo (due volte)
 E io, tuo giovane amante, che cosa posso fare?
Non ho saputo difendermi dai colpi della sorte
ma vorrei comunque sposarti, angelo (due volte)
voglio sposarti, angelo
voglio sposarti, angelo

Sotto vi riporto un'altra versione di Malaika, con una Miriam Makeba giovane e splendente, molto simile alla bella attrice che ieri ho avuto l'onore di vedere da molto vicino.





Adesso starà allietando gli angeli e gli uccellini, ne sono sicura.
Grazie, a lei e ai suoi giovani e bravi discendenti.

Aggiornamento del 6 dicembre:
Giusto ieri sera, mentre mi preparavo ad andare a dormire, ho scoperto che Nelson Mandela l'ha raggiunta da qualche parte. Ed è incredibile che abbia acceso la radio nell'esatto momento in cui stavano dando la notizia.
Madiba è entrato, in fondo, di recente a far parte anche della mia storia, intellettuale ed emotiva.
Sono contenta di averlo conosciuto un po' meglio anche grazie ai rapporti che ho stretto con i miei giovani insegnanti sudafricani.
Spero proprio che l'umanità non ne dimentichi lo straordinario passaggio su questa terra.

martedì 3 dicembre 2013

Paris Geller e gli altri personaggi di Una mamma per amica... w le repliche!


L'attrice Liza Weil interpreta Paris Geller in "Una mamma per amica", alias The Gilmore Girls, il telefilm andato in onda a partire dal 2000 per sette stagioni e ritrasmesso in questo periodo su La5.
Come già ho scritto nel precedente post, sono diventata una fan sfegatata di Lorelai, la giovane mamma di Rory, diminutivo del nome prescelto per la stirpe delle Gilmore da generazioni e generazioni.
Devo però aggiungere che l'altro personaggio che adoro particolarmente, è proprio quello di Paris.

La compagna di classe di Rory è davvero antipatica per la maggior parte degli anni scolastici che le due ragazze trascorrono insieme. Man mano che le puntate vanno avanti, però, si capisce che dietro al suo caratteraccio e la sua parlantina saccente si nasconde una solitudine non così rara nelle buone famiglie di tutto il mondo.
Paris passa la maggior parte del suo tempo con la tata messicana e le figlie di quest'ultima: anche il giorno del diploma, per dire, i suoi genitori non compaiono, impegnati chissà dietro a quale business improcrastinabile.

A un certo punto, la goffaggine e la rusticità che la caratterizzano fanno breccia nel cuore di Rory, che, si sa, è buona oltre che bellissima. Poi è intelligente quanto la sua futura amica biondina e altrettanto in difficoltà con una parte del mondo adulto. Anche Rory, infatti, è in fondo cresciuta da sola, sostenuta, questo sì, da una mamma straordinariamente simpatica ed equilibrata come Lorelai, ma pur sempre senza il padre Christopher, il quale si fa vivo con lei soltanto quando sta per diventare maggiorenne.

E insomma, i due cervelli della Chilton cominciano a studiare insieme, realizzano il giornale e le presentazioni scolastiche, ma soprattutto trovano di avere molte più affinità di quanto non sembrava all'inizio. La frattura tra loro, causata da una comune compagna invidiosa e arrivista, dura poco, per la precisione fino al giorno in cui Paris svela a Rory di aver fatto l'amore con il fidanzato e al contempo di non essere stata ammessa ad Harvard, la celebre università a stelle e strisce che era stata frequentata da tutta la sua famiglia. Arruffata e disperata, si presenta a scuola in condizioni assolutamente inadatte a sostenere la diretta tv che era stata organizzata dal liceo proprio per il commiato finale degli studenti prima del grande salto nel mondo accademico.

Il tutto potrebbe sembrare quasi tragico, se non fosse per il tono sempre vagamente scanzonato che mantiene il telefilm anche nei dialoghi più drammatici. A consolare la biondina del disastro che combina durante le riprese televisive, ci pensa proprio la Gilmore giovane dagli occhioni blu, mentre la mamma-amica aspetta con tenera discrezione fuori dall'aula di riportarle entrambe a casa.

Il giorno del diploma le due ragazze si salutano ricordandosi di essersi odiate per quasi tutti gli anni passati insieme. Dal modo in cui si abbracciano si capisce che è tutto alle spalle, proprio come le lezioni scolastiche e quei corridoi austeri della scuola che ormai non fanno più paura.

Se l'avessi visto in anni diversi, voglio dire proprio quando avevo l'età che interpretano le due attrici, che nella vita vera si portano quattro anni (Liza è del '77, Alexis Bledel, Rory, dell'81), probabilmente avrei affrontato con uno spirito un po' più leggero i momenti no che ho vissuto anch'io, come loro.
Non importa. Sono sopravvissuta alla grande, direi, e forse, chi lo sa, è bene guardarlo adesso che sono ben più vecchia di quanto non sia la protagonista Lorelai, l'attrice Lauren Graham, all'epoca 34enne.

Da quest'ultima, infatti, posso ancora imparare molto su come si affrontano i problemi sul lavoro, per esempio brindando con champagne, come fa lei quando le comunicano che l'albergo che dirige deve chiudere battenti del tutto per via dei danni causati dall'incendio che l'ha semi-distrutto, oppure quando ride come una matta dopo l'ennesima frizione con la madre Emily (un altro personaggio che adoro).

Sì, credo proprio di essere diventata una addicted delle Gilmore Girls.
Peccato però che non capisca una parola quando parlano in inglese: spero di riuscirvi, un giorno.
Soprattutto, spero che il telefilm duri il più a lungo possibile...
W le repliche!
:-)