sabato 29 marzo 2014

Grazie a tutti


Questa foto risale a circa un mesetto fa, qualche giorno prima dell'aggiustatina (di poco conto) alla mia non folta chioma (ma senza neanche un capello bianco, tiè).

Ho deciso di mostrarmi qui (con la nostra gatta Bice) e anche nell'immagine del mio profilo perché... "addè" (= ora in marchigiano) basta con i travestimenti e l'infanzia.

Sono stata una bambina molto felice e so che è una gran fortuna. Ma quella bambina non c'è più da un pezzo, se non nel mio io più profondo.

E poi la foto che vedete sopra è anche su Facebook, quindi perché nascondermi proprio sul mio spazio personale?

A parte la botta un po' patetica di narcisismo (a proposito di Narciso, giusto l'altro ieri, nella lezione d'inglese con un nuovo insegnante sudafricano, ho riletto il mito di quest'ultimo e di Eco, vanamente innamorata di lui), ho deciso di mostrarmi per uno scopo preciso.

Voglio dirvi grazie.
Mi rivolgo a voi, sparuti miei lettori, di cui ignoro (forse non in massima parte, visto che siete pochi) l'identità.
Non m'importa quanti siamo, davvero.
Importa che ci siete e che dedichiate un secondo, un minuto o più alle mie frasi, ai miei video e alle mie foto.

E' un onore essere letti ed è per questo che vi dico grazie.
Oltre che un onore, è anche un miracolo essere scelti: c'è talmente tanta roba in rete che io stessa, a volte, mi domando perché qualcuno dovrebbe passare anche di qua.

E invece succede ed è bello.
Chi mi conosce o ha imparato a farlo proprio quassù sa che non me la passo proprio benissimo, professionalmente parlando.
Però ho imparato, giorno dopo giorno, a darmi sempre un obiettivo nuovo, una frontiera, anche minima, da esplorare e quando ci riesco mi sento grande.

Perciò dico a chi fosse nelle pesti più o meno come me: c'è sempre qualcosa che non abbiamo ancora fatto, c'è sempre un dettaglio che non abbiamo notato anche nel paesaggio che vediamo tutti i giorni dalle finestre di casa nostra, c'è sempre una parola nuova da imparare.

In questo periodo, per esempio, sto leggendo un libro eccezionale: parlo di Felici i felici, di Yasmina Reza. E' talmente bello che sto andando pianissimo, per gustarne ogni singolo passaggio.

Ho anche scoperto le avventura della gattina Chi, un manga giapponese, veramente molto carino.
Gli alberi sono tutti fioriti e anche se gli anticorpi scricchiolano, sono viva.

Siamo vivi.
Anche voi che mi leggete lo siete ed è sorprendente.

Ancora grazie, quindi, e ora fuori tutti: usciamo a respirare.

giovedì 27 marzo 2014

Gilmore Girls, bye... see you soon!


 
 
 
Ebbene, il giorno dell'addio (o arrivederci, chissà) alle Gilmore Girls è arrivato.
Chi l'avrebbe mai detto che la serie sarebbe finita di mercoledì, senza alcun preavviso?
Sul settimanale del Corriere della Sera che uso prevalentemente per tenere sotto controllo i programmi tv, mica c'era scritto? Anzi, lassù risulta che Una mamma per amica, il titolo improvvidamente scelto in Italia al posto dell'originale, vada avanti almeno fino a oggi, ultimo giorno della loro programmazione settimanale.
Come sono ingenua, certe volte.
 
Sarà anche questa una delle ragioni per cui ho amato moltissimo questo serial tv, il più bello che abbia mai visto, almeno a mia memoria storica.
Adesso che sono costretta a dirgli (per lo meno) arrivederci, ne comprendo fino in fondo le ragioni.
 
Sono riuscita a immedesimarmi un po' in tutti i personaggi principali.
Per certi aspetti, sono stata davvero come Rory Gilmore, la girl più giovane, bravissima a scuola, destinata, quasi per dna, a una carriera luminosa.
Anche se poi, nella mia realtà personale, credo di somigliare di più al ritratto, non proprio lusinghiero, che fa di lei quello str... di Mitchum Huntzerberger...
 
Per altri aspetti, per fortuna, mi sono sentita molto simile alla grandissima Lorelai, la girl più grande, la giovane madre dotata di uno spirito indipendente oltre che di una carica vitale davvero straordinaria. Ho adorato ogni battuta che hanno fatto pronunciare a questo irripetibile personaggio e mi sono convinta che anche l'attrice che l'ha intepretato, la 47enne Lauren Graham, sia un po' come la sua Lorelai.
 
Una tale naturalezza di recitazione è evidente, però, anche in Luke Danes, alias Scott Patterson, il proprietario della tavola calda che, fortunatamente, tornerà a stare con la Gilmore senior, come s'intuisce dal finale aperto, che sinceramente ho trovato bellissimo.
Certo, non potevo immedesimarmi anche in Luke, ma ho trovato qualcuno che gli somiglia molto proprio nella mia vita privata...
 
E vi dirò che ho amato molto anche i nonni Gilmore, persino la rigida, ma a tratti meravigliosamente umana, nonna Emily, interpretata da Kelly Bishop, un'attrice dotata di una voce profonda da diva del passato davvero notevole (ascoltatela in lingua originale e capirete di cosa parlo).
Nonno Richard, poi, è talmente simpatico: è il perfetto padre di Lorelai, sembra anzi proprio che abbia passato alla figlia tutta la sua ironia un po' blasé.
 
Su Paris Geller mi sono già soffermata, quindi non voglio ripetermi.
Ma insomma: anche nella parte che meno mi è piaciuta del telefilm, ossia le puntate incentrate sull'improbabile matrimonio tra Lorelai e Christopher (comunque un discreto figliolo, se vogliamo limitarci al solo aspetto estetico), ho sempre trovato nel complesso credibile la storia e mi sono emozionata e a volte anche commossa, come mai avrei immaginato prima di guardarlo.
 
E così so che mi mancherà assai l'appuntamento quotidiano con le Gilmore, anche se non escludo di procurarmi i dvd che ne hanno ricavato, soprattutto perché sono in lingua originale e in italiano: almeno farò esercizio in una maniera sicuramente piacevole.
 
Vi lascio con la scena (penso stra-nota per tutti i fan) della cosiddetta serenata che Lorelai dedica a Luke.






Subito dopo ne dedico io una alle ragazze Gilmore, tratta da un film cult (è una sorpresa: non vi anticipo nulla), uno di quelli che sicuramente i due personaggi patite di cinema avrebbero amato assai.
Grazie della compagnia, ragazze Gilmore. Lunga vita (letteraria e reale) a voi.


 
  
 

martedì 25 marzo 2014

La scrittura e la mia cifra personale: ritorno al passato


E' passato quasi un anno dalla mia esperienza sui Sibillini (ne ho parlato su Minime Storie, se vi va andate di là), ma non immaginavo quanto si fosse sedimentata dentro di me, fino a stamattina.

Ho appena finito di rileggere il raccontino che ho ricavato da uno degli esercizi proposti da Minuti Scritti, l'appassionante manuale di scrittura creativa di Anna Maria Testa, che suggerisco a tutte le persone che vogliano divertirsi un po' con le parole.

Non ricordo con precisione quale fosse la traccia da seguire ed è peraltro probabile che l'abbia cannata. Di una cosa, infatti, mi sono resa conto, mentre svolgevo a uno a uno gli esercizi della Testa: parto per la tangente con una rapidità più che felina.

Il risultato che vi propongo sotto, perciò, è frutto del mio divagare attorno agli input letti nel manuale, ma il motivo per cui lo condivido è solo uno: mi fa troppo pensare ai miei Racconti dal passato, la rubrica che trovate in alto, accanto a Gli sfaccendati.

Mi piacciono le storie ambientate in treno da sempre, è evidente.
E quelle in cui i sogni che si intrecciano con la realtà.

Niente di che, certo, però, forse, la mia cifra personale è tutta qua.

A voi (se lo gradirete), buona lettura.



UNA MAGA PER AMICA

“Non c’è estate senza mare!”, osservò con enfasi Liliana. Marco la trovò ridicola: “Hai ragione, tesò, ma che ci possiamo fare se dobbiamo stare su?”, le rispose guardando dal finestrino le macchie degli ombrelloni e qualche corpo in ammollo. Tanto contento non era neanche lui, ma il lavoro è il lavoro. E poi la montagna in fondo non gli dispiaceva. “Scusate se mi intrometto, ma dove state andando?”, chiesa la signora occhialuta seduta di fronte a loro. Moriva dalla voglia di attaccare bottone, i due ragazzi se n’erano accorti già alla partenza, diverse ore prima, dalla stazione di Lecce.

Accanto a lei, un ometto di mezza età, tutto insonnolito aprì un occhio solo, come i gatti, disapprovando assai di essere stato svegliato da quell’improvvido vociare. “Che diavolo gliene importa dove vanno quei due disgraziati?”, pensò tra sé e sé, aggiustandosi meglio sul sedile.

Educatamente Liliana rispose: “A Trento e poi in Val di Non: faremo gli animatori turistici in un hotel, tutta l’estate”. Istintivamente le venne da abbassare un po’ lo sguardo.

Marco socchiuse appena gli occhi indirizzando anche un vago sorriso alla signora. “E léi?”, le domandò per pura cortesia..

“Ah, che bello il pugliese! Mio marito era di Bari, ma viveva a Tricase… io sono di Milano, invece, mio marito non c’è più e i miei figli abitano a Londra. Eh, com’è brutta la vecchiaia…”, sospirò con il chiaro intento di proseguire la conversazione.

Invece niente: i due ragazzi non sapevano proprio cosa risponderle. Con la testa erano già proiettati lontano, dubbiosi e forse spaventati. Ce l’avrebbero fatta a resistere senza la cucina della loro mamma e i loro rispettivi fidanzati? “Brutta davvero, già, meno male che quei due non hanno abboccato, va”, pensò con sollievo il tipo, serrando di nuovo gli occhi.

“Biglietti, prego! Signore? Signore?”.

Stravolto, si accorse del ghignare dei due ragazzi, mentre cercava affannosamente il biglietto in tutte le tasche. La signora lo guardò dubbiosa.

“Eccolo qua”, sospirò il tipo.

La signora gli sorrise. “E poi dicono le borse delle donne, eh… dove è diretto?”.

Stavolta non poteva sfuggire.

“Padova”.

“E’ veneto?”.

“No”.

“Va in vacanza?”.

“No”.

“Lavoro?”.

“No”.

Liliana e Marco seguivano lo scambio come fossero a una partita di tennis.

Che cos’altro gli avrebbe chiesto prima di mollare?

“A Padova ci sono dei miei cugini, non li vedo da molto. Magari qualcuno sarà anche morto... la vita è così, del resto, prima dà e poi si riprende tutto. Ma voi siete giovani, non ci pensate, eh”.

Nessuna risposta.

Il tipo richiuse gli occhi.

Marco e Liliana si infilarono gli auricolari.

La signora si alzò, prese la sua borsa e, chiedendo permesso, uscì nel corridoio.

Si addormentarono per davvero.

Ridestandosi, non poterono credere ai loro occhi.

Non c’era più un bagaglio, né di Marco né di Liliana né tanto meno del tipo laconico. “Ma che accidenti?? Ma quella p… ma porc…”, gridò quest’ultimo in preda al panico.

Liliana sbiancò e pianse, Marco si tastò le tasche atterrito: non aveva più neanche il cellulare. E adesso?

Scrutando intorno, alla fine, notò qualcosa sul sedile dov’era seduta prima la signora. Era un foglietto bianco, piegato in due. Marco lo lesse tra sé, mentre Liliana e il tipo cercavano di fare altrettanto assiepandosi intorno a lui.

“Belli miei, avete presente quei personaggi delle favole che si travestono per sottoporre gli umani a qualche prova? Beh, che ci crediate o no, io sono uscita da una storia delle più antiche. Volevate arrivare tranquilli tranquilli a destinazione? Bastava che mi parlaste un po’ di più, giusto qualche battuta, eh, magari anche sul tempo. E invece avete fatto come tanti, zitti zitti, le cuffie e il sonno forzato.

Beh, la prossima volta ci penserete due volte.

Ah, dimenticavo. Volevo dirvi giusto una cosetta in più. La vostra roba è in buone mani. C’è tanta gente che c’ha bisogno.

Adieu.  La maga Sibilla”.

 

Tiziana richiuse il libro e chiese alla mamma: “Mamma, a che ora arriviamo? Rispondimi, per favore. Sennò poi mi devi ricomprare tutti i vestiti”.

La mamma guardò interrogativamente la sua bambina e poi le disse: “Tra pochi minuti. Anzi, svelta, rimetti il tuo libro nello zaino, su… ma che cosa stavi leggendo? Non è una storia per bambini, mi pare”.

“Me l’ha dato la maestra Ida, quella delle Marche, ricordi?”.

“Ah, la streghetta bruna, sì sì. Comportati bene con lei, mi raccomando”.

“Sì, sì... abbiamo tutti i bagagli, ci vuole bene”. Tiziana si accorse che la mamma non la stava già più ascoltando.

Giorni dopo la sentì domandarsi: “Dov’è finito il mio rossetto?”.

Pensò alla signora che chiedeva l’elemosina davanti al supermercato.

Era in buona mani, poteva stare tranquilla.










venerdì 21 marzo 2014

Loretta Emiri, Giacomo Leopardi e il progresso dell'uomo


 
 
Per pura coincidenza, ho terminato il montaggio del video che vedete sopra proprio la sera di mercoledì, giorno nel quale sono andata ad assistere alle Operette morali, lo spettacolo del Teatro Stabile di Torino, con la regia di Mario Martone, ricavato dagli omonimi scritti di Giacomo Leopardi, in scena al Teatro dell'Aquila di Fermo.
 
Giusto a chiusura della rappresentazione, sul palcoscenico è stata innalzata una enorme vela, punteggiata di segni geografici e abbozzi di mappe: l'accorgimento scenografico doveva trasportare noi spettatori sull'Oceano Atlantico, solcato da Cristoforo Colombo quando viaggiava alla volta del Nuovo Mondo.
 
Speravo tanto che nel dialogo tra l'attore che interpretava il famoso navigatore italiano e Pietro Gutierrez, il suo compagno d'avventura (personaggio affidato al bravissimo Renato Carpentieri, quello che in Caro Diario scappa via da Alicudi, urlando "frigoferooo, ascensoreee, televisioneee, telefonoooo"), si facesse un qualche accenno alle conseguenze dello sbarco nelle Americhe.
Certo, come la pensasse il grande poeta-filosofo di Recanati sul progresso lo si poteva capire anche da altri dialoghi (fenomenale, per esempio, quello tra Timandro ed Eleandro).
 
Un riferimento esplicito, però, mi avrebbe aiutato a trovare un aggancio tra l'entusiasmante esperienza teatrale dell'altra sera e quella vissuta in compagnia di Loretta Emiri, la mia amica scrittrice, a sua volta amica (alleata) degli Indios d'Amazzonia, che ho avuto l'onore di accompagnare durante la sua conversazione con il pubblico presente lo scorso 8 marzo a Monte Giberto, in occasione dell'incontro organizzato dall'Università dell'educazione permanente e del tempo ritrovato di Grottazzolina, un altro alacre paese in provincia di Fermo.
 
E tuttavia non importa.
L'aggancio tra il pensiero dell'immortale genio recanatese e quello di Loretta c'è comunque.
Il progresso, di per sé, è un'illusione, sembrano dire entrambi. O meglio: tale è il progresso tecnologico, se privo di analogo progresso morale da parte degli uomini.
 
Negli anni Settanta, ossia il periodo in cui Loretta è approdata in Amazzonia, gli indios brasiliani (e non solo loro) erano ridotti a poche centinaia di migliaia. Grazie all'intervento di missionari, religiosi e laici, le loro condizioni sono andate via via migliorando, al punto che l'eguaglianza tra indios e bianchi (ma anche, naturalmente, meticci di ogni ascendenza) è diventato principio fondante della Costituzione del Brasile, entrata in vigore nel 1988, dopo la fine della dittatura militare. E Loretta è giustamente orgogliosa di aver dato il suo contributo alla cosiddetta opera di "coscientizzazione" delle popolazioni native di quel bellissimo Paese all'altro capo del mondo.
 
Perché sia andata lì e non in Africa, per esempio, la scrittrice indigenista l'ha spiegato con parole semplici, intrise di quella modestia orgogliosa che contraddistingue il suo carattere. Loretta non voleva "evangelizzare" nessuno e in Brasile, almeno per l'esperienza che ha avuto lei, non era questo lo scopo principale che ci si prefiggeva.
 
I primi tempi, anzi, si è dovuta rimboccare le maniche prestando anche aiuto sanitario, lei che era, nella sua prima vita, titolare di un'agenzia di assicurazione, niente di più lontano dalle esigenze di pura sopravvivenza nutrite laggiù all'epoca.
 
In seguito si è trasformata in formatrice di maestri indios ed è lì, immagino, che si deve essere compiuta la sua totale trasformazione.
Ho volutamente lasciato l'attimo di commozione che si avverte nella sua voce mentre legge il brano dedicato agli abbecedari realizzati direttamente dai nativi.
 
Tra le parti che ho tagliato, con un certo rammarico, c'è la risposta che la nostra "eroina dei due mondi" ha dato a una delle molto stimolanti domande del pubblico: se gli indios del Nord del Brasile, gli Yanomami con i quali Loretta ha anche vissuto direttamente in foresta, erano i più preservati dal contatto con l'uomo bianco - ha chiesto a un certo punto una signora - perché andarli a disturbare?
 
Perché il "disturbo", ha risposto la scrittrice, c'era comunque già stato: a insidiarli, ci avevano già pensato i cercatori d'oro e la strada da loro fatta costruire che si addentrava nella foresta lambendo anche i villaggi più sperduti.
Si potrebbe dire: ma il progresso non si può fermare. Certo che no, ma mi domando e vi domando: è progresso quello che porta con sé anche malattie, fisiche e morali, come ha raccontato Loretta?
 
E in ogni caso, anche ammettendo che, in effetti, non si può più tornare indietro, chi l'ha detto che tutti vogliamo vivere in città assediate da fumi e rifiuti? Perché, in altri termini, invadere tutto il pianeta con un modello di sviluppo che sta già da anni cominciando a implodere?
 
Non si tratta di essere fintamente ecologisti, si tratta di lasciare coesistere, a beneficio di ogni creatura vivente, alternative concrete allo stile di vita della maggioranza dei popoli.
Anche senza arrivare all'essenzialità dei nativi amazzonici, insomma, potremmo imparare da loro moltissimo. Potremmo esercitarci a essere più autentici, più umani, in una parola.
 
Leggendo Loretta e ascoltandola parlare, si coglie tutta la vastità del mondo. E ci si ricorda, come diceva Leopardi nel Dialogo della natura e di un islandese, che non ne siamo affatto i padroni.
 
La superiorità dell'uomo, quella sì, è un'illusione.
Chi volesse continuare a perseverare in questa convinzione, in ogni caso, impari a esserlo davvero, lasciando in pace chi ha un'altra idea, di sé e degli altri.

mercoledì 19 marzo 2014

Gena Rowlands, la donna speciale che vorrei essere




Anche se la tecnologia va avanti, non riesco a liberarmi dei vhs. Soprattutto di quelli che non ho ancora visto, convinta, come mi capita con i libri, che lo farò, un giorno o l'altro.
Tra i film in pellicola rimasti sull'apposito dispenser a colonna (un accricco che fa pensare un po' a un'alabarda. Utile ma non molto bello, devo dirlo), c'è anche La sera della prima, con Gena Rowlands. Ricordo di aver comprato la videocassetta attratta dalla trama. Una specie, se non vado errata (ossia, fino a visione effettuata, chissà quando), di Viale del tramonto aggiornato agli anni Settanta.

Di una cosa, però, sono sicura: quando lo guarderò, adorerò l'interpretazione di questa grande attrice americana, classe 1930, oltre che tout court donna di gran classe.
Se potessi scegliere, vorrei essere più o meno come lei.

Ieri sera, per dire, ho visto il primo film in cui debuttava alla regia suo figlio Nick, Una donna molto speciale, ma, poco fa, leggendo la biografia di Gena, ho scoperto che l'attrice ha lavorato in prevalenza con il marito John, celebrato (ma a me sconosciuto: perdonate la mia ignoranza) regista statunitense.

Trovo interessante che una donna, all'apparenza così fiera e indipendente, abbia costruito in fondo i suoi successi più grandi grazie ai legami familiari.
Certo, l'ha diretta (oltre che voluta fortemente) anche Woody Allen e nella scheda che ho compulsato di Mymovies si precisa che sia riuscita comunque a mantenersi autonoma da consorte e figliolo.

Però. A volte ho l'impressione che siano proprio le donne "speciali", come il personaggio di Mildred che ho conosciuto ieri sera, ad aver maggiormente bisogno di un focolare domestico in qualche modo sicuro.
Senza un posto al quale fare ritorno, senza affetti significativi, forse sarebbero costrette a dire addio a tutta la loro conclamata forza.

O forse sono solo in giorni più fragili, chi lo sa.
In tutti i modi, ho trovato commovente e molto plausibile il finale di questo piccolo film. Non ve lo racconto nei dettagli, casomai voleste guardarlo, un giorno.

Posso solo aggiungere che ha amplificato l'effetto, già abbastanza potente, che aveva prodotto su di me il finale della puntata di ieri sera delle Gilmore Girls, oggi in replica a ora di pranzo.

Quando ci si sente bloccati, non va mai bene.
Bisogna cambiare, anche di pochissimo.
Perché se non lo facciamo per tempo, poi sarà troppo tardi.

Sembra che la Rowlands abbia dato la sua voce al personaggio della nonna di Marjane Satrapi in Persepolis, il film di animazione ricavato dall'omonimo fumetto da me molto amato.
Anche in questo caso si trattava di una donna forte e, come tale, di una che ha creduto molto nei valori della famiglia.

Anche io ci credo. Almeno, credo nei legami importanti, nel sostegno reciproco, nella forza che vicendevolmente ci si passa al momento del bisogno.
E sì, lo ammetto: senza punti fermi non ce la potrei mai fare.
Anche se la forza e l'indipendenza, per me sono ancora punti di arrivo.

Senza sfide non si vivrebbe, d'altra parte.
Ne ho ancora una bella grossa da sostenere.
Allora, basta piagnistei (ammessi solo quelli di pochi minuti, in bagno, o al limite, senza testimoni) e avanti.
Non c'è altra scelta.
Almeno, io so di non averla.
Grazie, idealmente, Gena.
Godetevi il video sopra, adesso.
Che donna!


sabato 15 marzo 2014

Indifesa è la memoria: Massimo Del Papa omaggia Enzo Tortora


 
Indifesa è la parola: Massimo Del Papa non poteva scegliere titolo più adatto per riassumere l’esperienza umana e giudiziaria devastante vissuta da Enzo Tortora, negli stessi anni in cui mi trasformavo da bambina in ragazza. Appena ieri, per la storia del nostro Paese, ma antica come il Pleistocene per la memoria collettiva.
Io medesima, lo dichiaro apertamente, non conoscevo i dettagli della vicenda di questo giornalista di estrazione borghese, liberale, per niente condiscendente, né nella sua professione né, probabilmente, nel privato.
Un uomo tutto d’un pezzo, per così dire, vecchio stampo, di quelli che non guardavano di buon grado le conseguenze prodotte dal Sessantotto, inviso, presumo, alla intellighenzia dei pennivendoli di allora, ma temo non solo delle aree più estremiste, rosse e nere.
Come ben raccontato da Massimo, un uomo così subisce una vera e propria metamorfosi, che lo traghetterà nelle fila del partito radicale, a combattere le battaglie di altri detenuti in attesa di giudizio come lui, altri condannati anche colpevoli a differenza sua, ma privi di santi in paradiso.
Tortora rifiuta, ed è questa una delle cose che non sapevo, di avvalersi dell’immunità di parlamentare europeo e sceglie la cella, ritenendosi “fortunato”, lui che ci passa mesi bollenti insieme ad altri sette detenuti, contro i sedici normalmente assiepati in una manciata di metri quadri.
Da buon giornalista e uomo di cultura, parla e scrive molto: toccanti quelle che dedica alla figlia e tragiche quelle che non ascolterete nella versione breve del video che ho ricavato dalla serata al teatro di San Ginesio, in provincia di Macerata (è stato faticoso scegliere quali brani inserire, ve l’assicuro), che pronuncia nell’ultima intervista televisiva rilasciata a Giuliano Ferrara, su Rai due, il suo canale, pochi giorni prima di morire.
Quel che fa male, molto male, è conoscere l’epilogo di questa brutta pagina di malagiustizia italiana: gli stessi giudici che l’avevano condannato in primo grado, con una sentenza poi completamente e definitivamente sconfessata da quella d’appello, in seguito hanno fatto carriera.
Massimo li elenca uno per uno, compresi gli incarichi che poi sono andati a ricoprire.
Per certi versi, la sua teoria di ingiusti, mi ha fatto pensare al caso Ustica e ai troppi vertici dell’Aeronautica che non hanno pagato per aver depistato per anni, portandosi dietro altre morti, la verità su quell’enorme ferita inferta al nostro Paese.
“Ma che razza di Paese è mai questo?”, si domanda, retoricamente, Massimo verso la fine del monologo.
E io invece chiedo: come possiamo, io compresa, avere la memoria così corta?
È umano, sia chiaro, voler rimuovere ciò che ci addolora: anche perché in casi del genere che cos’altro potremmo fare?
Ve lo dico, come la penso, stavolta sì.
Possiamo solo usare cuore e cervello: il primo per provare un po’ di empatia anche per chi non fa parte della nostra stretta cerchia di affetti; il secondo per informarci, approfondire, andare oltre la superficialità del presente.
Non posso quindi che dire ancora grazie a Massimo, per questo sforzo che ha compiuto anche per me.
Non era semplice ripercorrere una storia che so quanto senta anche con le sue corde più intime: lo si vede, del resto, da come ha “recitato” i discorsi di Tortora.
E dico grazie, pubblicamente, anche a suo fratello Paolo, al quale sono legata affettivamente, per come ha saputo assecondare con la sua splendida musica le parole, spesso indigeribili, pronunciate dal fratello.
A voi che non eravate con me la sera del 7 marzo 2014, in uno dei molti piccoli scrigni d’arte nascosti sulle colline marchigiane, buona visione del sunto, sicuramente parziale, di quella magnifica serata.
Guardate, ascoltate, emozionatevi e riflettete.
Solo facendo tutte queste cose, e non solo in questa occasione, del resto, la vita acquista un senso.
O no?

lunedì 10 marzo 2014

Marcella e la vera amicizia. Per sempre

 
 
 
E poi succedono cose del genere. Piccoli miracoli che ti strappano un sorriso. E anche un po' di commozione trattenuta.
Marcella è mia amica da sempre.
Ci saremo anche allontanate, non solo geograficamente, ma la nostra essenza è ancora tutta qui, nella foto che vedete sopra e in quelle sotto.
 
E io, in fondo, l'ho sempre saputo.
Un'amicizia nata ancora prima di noi, grazie a quella, tuttora molto solida, tra i nostri genitori, non può perdersi solo per colpa della vita.
Marcella, forse, certe cose di me non le ha capite né potrà capirle.
Io, a mia volta, non sarò mai in grado di essere così naturalmente affettuosa, così naturalmente simpatica come lei.
 
Scrivo queste parole con molta lucidità.
Tra me e lei, la pallosa fifona sono sempre stata io.
Tra la mia e la sua Barbie la sua era sempre un pizzichino più bella della mia perché era giusto che fosse così: Marci non ha paura di mostrarsi, non ce l'ha mai avuta, o se ce l'ha avuta, l'ha saputo nascondere molto bene.
 
Io, invece, temevo il cavallo della Vidal, piangevo anzi, quando lo vedevo correre libero sulla spiaggia, ascoltando quella musica che adesso non so più come facesse.
Marcella è riccia, di quel riccio che ho sempre amato molto.
Ha un sorriso che mi riempie tuttora di gioia e che molti anni dopo ho ritrovato nella sua bellissima bambina.
 
E' stata la mia amica più importante, lei che mi faceva ascoltare Paul Young e mi usava come coretto quando sognava di diventare una cantante.
Lei mi ha fatto conoscere Michael Jackson e anche se facevo la snob già a tredici anni, sotto sotto avrei voluto imparare tutta la coreografia di Thriller.
 
Marcella è sempre stata coraggiosa, come io ho imparato solo dopo.
Non si è mai vergognata di mostrare le lacrime né ha mai finto, almeno non con me, sentimenti diversi da quelli che provava.
Non credo di aver mai avuto un'altra amica come lei.
 
Certo, c'era anche Mariangela, il terzo membro dei cosiddetti Tre Porcellini, com'eravamo affettuosamente chiamate dai nostri genitori.
Con Mariangela ho fatto però altri giochi. Grazie alla più piccola del trio, effettivamente, ho imparato a tirar fuori un po' più di carattere. Con Mariangela non potevo sedermi e fare la lagna, non me l'avrebbe permesso.
 
Con Marcella, invece, ero la spalla di questa piccola leader per dna.
Non mi pesava affatto seguirla a ruota, anche se dovevo spiazzarla un po' quando le parlavo del mio amico immaginario.
Ricordo proprio che mi diede (indirettamente, certo) della pazza quando le parlai di Andrea Dublino e di suo cugino, due giovani mai esistiti che io avevo collocato alle cinque palazzine, un quartiere di Chieti Scalo all'epoca considerato malfamato. 
 
Mi sa che aveva ragione. Un po' di pazzia, a ben vedere, nella mia famiglia c'è, ma di quella inoffensiva, che tutt'al più fa male solo a noi medesimi.
Marci, invece, è sempre stata sana, di una salute fisica e mentale che ho sempre ammirato.
 
Il che, ovviamente, non vuol dire che non abbia sofferto (da ragazzina, probabilmente, pensavo che solo io potessi provare sentimenti del genere. Ve l'ho detto: ero pallosa e presuntuosa), ma la sua vitalità ha sempre prevalso e io le sono immensamente grata di volermi ancora bene.
 
Oggi, Marcella, ho imparato a non nascondermi né cerco più di farmi accettare a tutti i costi.
Con te non ne avevo bisogno e infatti mi prendevi in giro per il cavallo di Vidal e per Andrea Dublino: non sai quanto mi hai aiutato a guardare all'esterno della mia testa, del mio cuore.
 
Con molte amiche, o cosiddette tali, incontrate più avanti negli anni, non sono più riuscita a essere così aperta: ho sempre pensato che fosse meglio recitare, anche solo parzialmente.
E mi sono trasformata nella donna "solare", nella Cica che consola, che sdrammatizza.
 
Non sono così o comunque non sono solo così.
E tu, e credo anche Mariangela, lo sapete.
 
Peccato non essere vicine, peccato non potersi parlare a cuore aperto, ridendo (magari!) di noi.
 
Dei tuoi meravigliosi occhiali in queste foto e della mia faccia da formaggino, sempre quella nonostante le rughe.
E dei nostri fondoschiena... il mio un po' più grande del tuo, è evidente!
 
Grazie di tutto.
Tua amica per sempre.
A.

 
 
Ps Bellissimo il parco macchine del cortile, eh già! W la A112!!!