mercoledì 28 gennaio 2015

Andre Agassi, la palestra e il mio motto del 2015: prima senti, poi (forse) pensa


Abbiamo posato per questa fotografia giovedì dell'altra settimana.
Per chi non dovesse riconoscermi subito, dico solo che di sicuro non sono tra le ragazze (e l'unico uomo del gruppo, l'insegnante di yoga Raul) in piedi.

Due giorni prima ci avevano esortato a indossare la maglia nuova della società sportiva Fermo 85, di cui faccio parte ormai da quasi cinque anni. Non riesco ancora a credere che sia passato già così tanto tempo, anche perché i primi due anni (o giù di lì) non mi sarei mai immaginata quanto quelle ore che trascorro lì, mescolata a signore e ragazze delle età più disparate, sarebbero diventate per me boccate preziose di ossigeno.
Chi mi conosce lo sa, perché ne parlo spesso: sono grata alle istruttrici Tiziana Bastiani e Rita Sacripanti (e pure a Raul, di cui, ahimè, ignoro il cognome) per avermi spinta a prendermi di nuovo cura del mio corpo.

Ho sempre amato fare sport all'aperto: a tennis, purtroppo, sono riuscita a giocare solo poche volte dalla scorsa estate durante la quale mi ero ripromessa di ricominciare e tuttavia adesso so con certezza che, volendo, potrei farlo.
Adoro sentire i miei muscoli che lavorano, il cuore che accelera e il sudore che m'imperla la schiena. Mi piace constatare che riesco ancora a piegarmi piuttosto bene e che, tutto sommato, riesco a cavarmela pure con le coreografie di step e aerobica, verso le quali, da ragazza, provavo una certa ostilità.

Tutto è cominciato, del resto, quando ero molto piccola, forse verso i 7-8 anni: cicciottella com'ero, mia madre pensò che potesse farmi bene muovermi un po', così mi iscrisse a un corso di ginnastica ritmica. Ero veramente negata: ricordo ancora, a essere sincera, come si fa il passo composto, ma detestavo che mi si dicesse di muovermi a comando.
Eppure fisicamente ero assai sciolta. Lo giuro, non sto scherzando: riuscivo a scendere in spaccata facendo giusto un salto nell'aria. Sapevo portare su soprattutto la gamba sinistra come vedevo fare da Heather Parisi.
Bastava però che mi si dicesse di seguire dei passi pre-costituiti perché andassi in crisi trasformandomi in un legnaccio inamovibile.

Ero pure dotata di un discreto scatto, come ebbi modo di sperimentare sulla pista d'atletica dello stadio Angelini di Chieti Scalo qualche anno dopo il fallimento con la ginnastica ritmica. Vinsi una gara, anche, ma non c'era storia: gli altri bambini erano più piccoli, non potevo che essere la più forte.

Al liceo, infatti, quando mi spedirono a gareggiare, fallii miseramente: persi l'equilibrio direttamente sui blocchi di partenza e uscii subito dalla corsia. Ho sempre detestato i rumori forti: il bang della pistola, probabilmente, doveva avermi messo paura prima ancora di essere esploso. Ma non cerchiamo scuse patetiche, soprattutto a distanza di ben trent'anni.

Poi c'è stato il tennis, di cui ho già parlato in un post.
Qui dico solo che ho appena finito Open in inglese, l'autobiografia di Andre Agassi, aggiungendo che avrei dovuto leggerlo anni fa per fare pace con la mia ansia da prestazione. Anche perché, a differenza del grandissimo campione di Vegas, come lui chiama la sua città natale (anche se il padre è di origini iraniane), a me nessuno ha mai chiesto di tirar fuori un talento che non ho mai sicuramente mai posseduto, a differenza sua e della grandissima (e strafichissima) moglie Steffi Graf.

E tuttavia consiglio Open a tutti quelli che amano lo sport e le sfide in generale: per affrontarle, dice in soldoni Andre e il suo ghost writer (che il campione ringrazia pubblicamente nella post-fazione, il che me lo ha reso decisamente più simpatico di come lo percepivo inizialmente quando, snobisticamente, dicevo di NON volerlo leggere), bisogna smettere di pensare e imparare, invece, a sentire.

Se pensi di vincere, non vinci; se senti che qualcosa può accadere, accadrà, se non proprio quella, magari un'altra, persino più importante.

Per lui, nella versione romanzata del suo passato di campione riluttante, smettere di giocare ha coinciso con una vera e propria rinascita. L'Agassi di oggi, un anno e poco più di me, è un uomo completo, e lo si vede anche nelle interviste. Per quanto siano costruite (gli americani sono dei maestri nelle fiction: pure la più scalcinata è più credibile di una qualsiasi soap nostrana), basta guardare Andre negli occhi per capire che, diamine, è uno felice ed è talmente felice che non si vergogna di farcelo vedere. Beato lui. E beata Stefanie (come preferisce farsi chiamare la sua bionda consorte) e i loro bambini.

Come tutti gli esseri umani, avranno (e provocheranno) di certo scazzi, dolori, frustrazioni, meschinità, etc etc, ma guardandoli insieme nell'intervista alla BBC che linko sotto, ho avvertito la stessa naturale energia vitale che percepisco ogni volta che vado in palestra, nella "mia" modesta palestra di provincia, tra signorine e signore di cui ignoro quasi tutto, ma con cui divido i miei sorrisi e la mia fatica ogni qual volta ci si chiede di affrontare un esercizio più complicato.

Quando sono lì dentro, mi sento forte come una campionessa, felice come una bambina e libera come una donna.

Approfitto perciò della foto di gruppo, dolcemente mossa, per l'ennesimo grazie alla vita.
Il presente è nebuloso (fuori fa un freddo cane), ma gli stati di grazia non hanno niente a che fare con i nostri pensieri e i nostri giudizi, spesso emessi a prescindere, con quella tipica presunzione di noi esseri umani.

Sentire è molto più potente. Eccome se lo è. Ogni tanto va fissato sulla carta, giusto per non scordarselo.
Non vedo l'ora che sia domani, ore 19.15.



martedì 20 gennaio 2015

Le radici e il clan allenato alla pazienza


Spero proprio che mio zio Gigi non se ne abbia a male (mio padre, ormai, è diventato una star di questo blog), ma oggi desideravo proprio questo ennesimo amarcord.
La fotografia che pubblico stavolta era tra le centinaia conservate da mia mamma nel suo armadio stracolmo di oggetti disparati, come quasi tutti i mobili della casa parentale.

In questo momento vi stanno rovistando dentro mio padre e la sua zia-sorella, una persona dotata di una simpatia straordinaria, che negli ultimi anni si era molto affezionata alla sua nipote-sorella acquisita. Con la sua meravigliosa r moscia, ci stritola (non solo metaforicamente) e ci dice di amarci tutti. E' così bello sentirsi dire "ti amo" da lei, ti viene naturale ridirglielo ridendo, sì, ma con sincera convinzione.

E insomma. Eravamo a Francavilla Beach, se non vado errata qui avevo 29 anni: se ho ragione, ero giusto a metà della scuola di giornalismo. E doveva essere già fine estate. Perché durante l'estate facevo gli stage, quindi è improbabile che potessi essere in vacanza che so, a metà luglio.

Mio padre, che oggi ha detto di non aver mai amato il mare, esibisce una bella abbronzatura. Idem mia sorella. Credo (ma non ne ho la certezza) che la foto sia stata scattata dalla mamma, ed è in ogni caso evidente che siamo tutti molto rilassati.

Amo (come direbbe la zia-sorella-prozia-zia) il senso di pace che più o meno ha sempre regnato nella nostra famiglia. Nel tempo ho imparato ad affrontare atmosfere diciamo così più concitate e a discutere pure piuttosto aspramente, quando necessario.
Però i dialoghi difficili, i fraintendimenti e gli accapigliamenti mi affaticano assai.

E' così piacevole, invece, essere compresi al volo, fare battute intellegibili per chi ascolta e pure servirsi naturalmente di un linguaggio non verbale consolidato.
Del resto, siamo abbastanza clanici, se posso usare questa specie di neologismo, e infatti chi prova a entrare nella nostra famiglia allargata non sempre si sente subito a suo agio. Anche perché l'ospitalità meridionale può creare ancora più imbarazzo. "Mangia, mangia, prendine ancora, hai mangiato? perché non ne prendi ancora?", etc etc. E l'ospite di turno non sempre se la sa cavare.

Il tipo nero con cappellino si chiama Rai, Ibrahim per la precisione. Ai tempi era un giunco, oggi ha messo su una bella pancia di benessere; anno dopo anno abbiamo continuato a incontrarci sulla stessa spiaggia.
Gli ho mandato una copia della foto qualche mese fa direttamente in Senegal. Non ho idea se l'abbia ricevuta, ma ci tenevo tanto che la avesse anche lui.
Rai è rimasto molto colpito dal nostro lutto: "e la mamma?", ci ha chiesto pure la scorsa estate come fa sempre ogni anno.
Non riusciva a crederci. Aveva capito che tipo era, che tipi siamo.
Da buon commerciante già da tempo aveva rinunciato a venderci le sue borse taroccate, ma quando ha potuto ci ha portato collane e vestiti. E noi l'abbiamo accolto nel clan. Ufficialmente. E' pure venuto a vedere i piccini quando erano neonati.

Adesso i nipoti lo salutano e ci scherzano, il piccolo lo chiama Rai Uno.
Ricordo benissimo la prima volta che l'abbiamo incontrato: mia mamma amava fare acquisti sotto l'ombrellone. La nostra casa di Francavilla è ancora zeppa di animali di legno: li prendeva da un altro venditore, anche lui non poteva crederci che quella cliente tanto brava non ci fosse più.

Mi è capitato di rivedere questa fotografia e svariate altre perché ne stavo cercando una della sottoscritta per un lavoro che forse dovrò fare.
Non riesco ancora, in certi momenti, a capacitarmi che la mia mamma sia da un'altra parte.
In certi istanti la sento qui con me, in altri, semplicemente, mi sembra di non avere più passato.

Quella ragazza sorridente con il costume rosa mi sembra così diversa dalla donna di quasi 44 anni di oggi (a proposito: oggi è il mio mezzo compleanno. Ne ho parlato un paio di anni fa del significato di questo giorno per la matta che sono).

Dovevo appena aver bevuto una granita. Allora era assai caldo, perché non mi sembra di aver mai amato in modo particolare le granite. Mi piacevano i gelati confezionati (mi piacciono pure ora, veramente), e se potevo, ne mangiavo uno dopo il bagno del pomeriggio, come fanno adesso i nipoti.

A loro lo prendeva sempre la nonna: era anzi il loro appuntamento del pomeriggio. Sono stati proprio i bambini a farmi conoscere il cornetto sbagliato, una vera sciccheria.

Manca troppo mia mamma, manca a tutti noi, per poterne ancora parlare come di qualcuno che non c'è più.
Oggi ho messo i suoi pantaloni e i suoi orecchini. E l'ho cercata nello specchio guardandomi fisso negli occhi.
Un giorno, non adesso, la riascolterò mentre recita una poesia di Leopardi in una registrazione che ho fatto partire dal mio pc quando eravamo su skype quasi presagendo quel che sarebbe successo di lì a poco.
Leopardi è intriso di questa terra in cui vivo ormai da più di dieci anni. Una terra affascinante e segreta, con me, ahimè, non troppo clanica, mai abbastanza familiare, comunque.

Vorrei imparare a conoscerla davvero, spero di averne ancora la possibilità.
Sono grata ai miei per avermi insegnato a non arrendermi. A mia mamma in particolare per aver creduto sempre in me.
Se resisto, se sogno ancora, è per via delle salde radici di quel clan allenato alla pazienza che vedete sopra.

Posso solo dire, di nuovo, grazie.
E correre in palestra!

mercoledì 14 gennaio 2015

Il notturno di Alcmane e il Suonno di Paolo Conte, meravigliose furfanterie



Giorni fa la mia amica grafica Maria Loreta Pagnani mi ha chiesto un piacere: le occorreva qualche riferimento letterario per un lavoro che sta per intraprendere. Ringraziandola per la grande fiducia riposta nelle mie antiche reminiscenze scolastiche, le ho detto che ci avrei provato.

Sarebbe stato bello se avessi avuto il tempo, la scorsa settimana, di risfogliare i miei testi di scuola, ancora in bella evidenza su uno degli scaffali ricolmi di libri di casa dei miei. 
E invece mi sono ritrovata a farlo qui, nella torre fermana (il corpo irrigidito dal freddo), davanti al pc. Pazienza. Forse non mi sarebbe venuto in mente con altrettanta immediatezza il collegamento che ho fatto appena qualche minuto fa tra la canzone di Nelson che riporto sopra (ovviamente del mio Maestro astigiano) e il Notturno di Alcmane che sono andata a ripescare compulsando il Web.

Riporto qui sotto la versione accreditata come la più corretta da una rivista di dotti grecisti che ho pescato per caso surfando:

"Dormono le cime dei monti e le gole, i picchi e i dirupi, e le schiere di animali, quanti nutre la nera terra, e le fiere abitatrici dei monti e la stirpe delle api e i mostri negli abissi del mare purpureo; dormono le schiere degli uccelli dalle ali distese".


Si tratta - dicono i suddetti grecisti - della traduzione curata da "A. Garzya, Napoli 1954", che differisce non di poco per esempio da quella offerta da Giovanni Pascoli e da altri poeti che - scusate la mia abissale e purpurea ignoranza - io proprio non conoscevo.

Trovate le varie versioni nel link che ho riportato sopra, compresa quella di Mauro Pagani in genovese, di cui ho giusto adesso recuperato il link alla versione cantata presumo sempre dal musicista amico di Fabrizio De André.

Bella, eh, però, manco a dirlo, io preferisco l'Avvocato. E in particolare Suonno e' tutto o suonno, non so bene perché, mi è sorta spontaneamente alla memoria non appena ho riletto i versi di Alcmane. Versi che al liceo mi piacevano moltissimo.

Leggiucchiando qui e là su altri siti di dotti grecisti, ho scoperto che quel tipo di poetica discende pari pari dalla lirica di Omero. E del resto, da quel poco che rammento, il creatore degli immortali Iliade e Odissea (sempre che siano entrambi tutti suoi), aveva attinto a piene mani dalla tradizione orale precedente.

Com'è antica la nostra cultura, accidenti.
Inconsapevolmente, siamo tutti ladri di questa gente qui, pure il mio Avvocato lo è (mi perdoni, lui sa - e come no - quanto mi abbia avvinta per sempre). 
Il collegamento che io colgo tra questa splendida ballata cantata nel suo goffo piemontese-napoletano e i versi di Alcmane è insomma frutto di secoli, millenni anzi, di connessioni precedenti tra una generazione e l'altra di aedi, di musicisti, di poeti e di scrittori.

E' tutto molto affascinante e insieme così lontano dall'attualità.
Le poche volte che me ne faccio travolgere (com'è successo con Charlie Hebdo), dopo sento un forte bisogno di purificazione.
Il presente mi fa veramente troppo arrabbiare e/o deprimere.

Solo di notte, quando tutto è suonno, sento che i sogni non sono finiti e anch'io, come le fiere abitatrici dei monti o gli uccelli dalle ali distese, chiudo gli occhi e attendo la prossima preda che prima o poi riuscirò a bramire, balzando da un cespuglio o piombando da una cima.

Al risveglio, poi, è tutt'un'altra storia, ma che importa. La notte è promessa, incantatrice e tentatrice. Lo confermano il violino e il flauto di Conte e quel leggero sintetizzatore che accompagnano la fusione tra il cielo di lui e di lei.

Grazie, Maria Loreta, per avermi fornito questo gancio.
A voi tutti, buone furfanterie azzurre.

lunedì 12 gennaio 2015

Alla ricerca dell'ironia perduta, contro i profeti della pesantezza

Sentite, che cosa vi dire? Non ci posso fare niente, ma a me il dibattito di stamattina su Prima Pagina (Radiotre) tra gli ascoltatori e la giornalista di Libero Elisa Calessi (una bella e professionale giovane donna con un accento nordico tutto strittu strittu strittu... brutto anche l'eccesso di romanesco, eh, ma un po' di dizione collettiva non guasterebbe) ha fatto calare il latte alle ginocchia.

Offendere qualcun altro non è mai bello, ci mancherebbe altro. Però insomma, a me il politicamente scorretto spesso piace, soprattutto quando è democratico.
Non sto parlando di quello di Charlie Hebdo o del nostrano Vernacoliere (che pure mi ha strappato più di una risata ai tempi dell'università pisana), ma del buon vecchio Totò.

Prendete per esempio questa scena di Totò Sceicco:




Oppure quest'altra:




O da quest'altro film (Totò Le Mokò):






Beh, sono cresciuta, come molti nell'ex Regno Borbonico in particolare, con i film di Totò e il risultato sapete qual è? Continuano a farmi ridere tuttora. E non credo di essere la sola. Prendete, per esempio, Marco Presta del Ruggito del Coniglio, che nel suo modo di fare ironia ha preso tantissimo dal nostro Principe della risata.

Una risata liberatoria su tutto e tutti, la sua, frutto di un talento naturale difficilissimo da imbrigliare e da replicare (il grosso di queste gag erano improvvisate, come nel jazz). Un genio che, naturalmente, ai tempi non capivano in molti.

Non tutti i film di Totò sono belli, certo, e alcuni sono obiettivamente datati. Ma molti passaggi, soprattutto di quelli in cui il raffinato attore e poeta napoletano era ancora abbastanza giovane, se li guardi, non te li scordi più. Addirittura i miei nipoti, ossia quanto di più distante anagraficamente potrebbe esserci da quell'Italia che neanche io ho conosciuto, ridono di gusto.

E' stata mia sorella a proporgliene qualche pezzetto, da Miseria e Nobiltà, da Totò cerca casa, Totò Le Mokò per l'appunto e Totò Tarzan. In quest'ultimo, per dire, il Principe non risparmia pure qualche battutina sulla evidente femminilità di uno dei personaggi, alla faccia dei codici anti-discriminazione di adesso. 

La vera domanda che mi faccio è quindi la seguente: oggi saremmo in grado di partorire di nuovo un genio così? Se nascesse, saremmo in grado di capirlo o sarebbe uguale a cinquant'anni fa se non peggio? 
Sinceramente, io temo che sia vera la seconda che ho detto.

La generazione dei miei genitori, piena - sicuramente - di preconcetti sul diverso in generale è stata però in grado di crescere persone libere. E con la testa aperta. Non sto parlando solo di me, ovvio; parlo dei molti miei coetanei, etero, gay, trans, bisex, atei, credenti, miscredenti, clericali e anti-clericali, che possono LIBERAMENTE confrontarsi, discutere ed eventualmente accapigliarsi.

In molti di noi, però, vedo troppo spesso un limite, dato proprio dal grande privilegio che abbiamo avuto: l'assenza o per lo meno la carenza dell'ironia, l'unico strumento che ci permetterebbe di sdrammatizzare prima di tutto il nostro ego e poi quello degli altri.

Ve lo dico proprio apertamente: a me tutti sti' giovani barbuti che imbracciano i kalashnikov mi hanno rotto le palle che non ho. E trovo veramente incomprensibile che ci siano delle donne che li adorino, tra l'altro.

Non mi piace però ugualmente la condanna incazzata alla Ferrara e l'evocazione (veramente pericolosissima) della guerra santa con quella gravità da attori di terz'ordine che fa da esatto contraltare alla patetica serietà di quelli che un giornalista del Centro che è diventato il mito personale mio e di mio marito chiama cammellieri.

Perdonatemi, ma sono stanca di tutta questa pesantezza.

Non sono tempi facili, è così banale ribadirlo.
Però che palle, ragazzi.

Assorbito lo shock per la strage di Parigi (e per tutte quelle che succedono tutti i giorni nel mondo, ok, comprese le povere bambine kamikaze. Mamma mia che orrore), dobbiamo trovare la forza per alleggerire il carico, altrimenti come facciamo ad andare avanti?

Ognuno trovi il suo metodo, per carità, però, almeno, proviamoci. 
Lo confesso: io, qualche volta, quando sono particolarmente scornata, guardo i cartoni animati.
Ci sono pure altre attività interessanti che si potrebbero fare per scuoterci di dosso la pesantezza.
Non sto qui a scendere nei dettagli, ma insomma.

Quel che conta è solo questo: non dimentichiamoci di ridere e di auto-prenderci in giro.
Davvero: solo le uniche due armi che potrebbero salvarci, se non dalla bomba o la mitragliata bastarda di qualche idiota con turbante e non, ma almeno dalla morte in vita.

Di zombie in giro ce ne sono già troppi.
Non diamogliela per vinta.

Giusto per inciso, prima di chiudere: Totò, terrone come me, prendeva per il naso pure i suoi conterranei. Quel personaggio da basso avanspettacolo di Salvini è in grado di fare altrettanto?

A voi la risposta. La mia è questa:


giovedì 8 gennaio 2015

Charlie Hebdo e la guerra (bastarda) alla civiltà


Non ne ero sicura, ma mi era parso guardando l'infografica sui giornali. Adesso che ho controllato su GoogleMaps ne ho avuto la certezza: Rue Nicolas Appert, la via della strage bastarda, e Rue Poisonniere, quella in cui si trova il Grand Rex Theatre, dove il 26 e il 27 gennaio prossimi suonerà Paolo Conte, sono piuttosto vicini. Circa 18 minuti di metrò per cinque o sei fermate. Niente, considerate le distanze nell grandi città.

Se già ero scioccata di mio, come molti, naturalmente, questo dettaglio in più privato, tipico del mio modo di scrivere almeno su questo spazio, mi ha ulteriromente rattristato.

Con quale spirito un italiano così amato dai francesi come il Maestro astigiano potrà esibirsi tra sole due settimane da questa vigliacca mattanza?

Con quale spirito verrà preso il nuovo numero di Charlie Hebdo previsto presto in edicola dai colleghi, i collaboratori e amici delle dodici vittime Charb, Wolinski, Cabu, Tignous, Honoré, Fred, Maris, la guardia del corpo di Charb, Renaud, e i poliziotti Ahmed e Frank, il portiere Frederic, e l'unica vittima donna (salvo ulteriori tragici aggiornamenti) Elsa Cayat?

Ascoltando stasera un pezzetto di Caterpillar su RadioDue, ho sentito che più di un ascoltatore ha chiesto di riceverne una copia. Sicuramente il settimanale Internazionale sta preparando un numero speciale: speriamo che lo traducano e lo portino anche tra noi.

Non conoscevo la storia di Charlie Hebdo, ma, vista la mia passione per i disegni parlanti, mi sarebbe potuto capitare di imbattermici, un giorno o l'altro.
Più concretamente, potevo effettivamente partire per Parigi, come congetturavo di fare solo sabato scorso, sfogliando la guida della città europea per eccellenza.

Ho sempre amato la Ville Lumiere fin dai tempi della scuola: adoravo, letteralmente, la storia della Rivoluzione Francese e ho studiato con interesse l'Illuminismo.
Se sono come sono adesso, anzi, un po' di merito ce l'hanno proprio i "Blè", con il loro snobismo respingente.

Guardando le copertine del settimanale satirico colpito a morte sul Sole24Ore, mi sono ritrovata persino a ridere di battutacce obiettivamente pesanti, ma così - francamente - liberatorie e zero ipocrita politically correct.
Ho scoperto che Stephane Charbonnier, il direttore 47enne, freddato tra i primi, amava copiare i disegni di Tintin e di Lucky Luke quand'era un ragazzino. Da poco ho scoperto il secondo, grazie ai miei nipoti: mi figuro l'occhialuto ex ragazzo cattivissimo folgorato dalla matita più o meno all'età che hanno adesso i figli di mia sorella.

E mi sono immaginata tutta la simpatica canaglieria di Wolinski, erotomane dichiarato e misogino per gioco. Me li sono visti proprio scegliere i temi delle loro vignette, dei loro pezzi, quante risate sguaiate e dementi si saranno fatti. Quanta vita sarà corsa tra le pareti della prima sede del giornale, distrutta da un attentato due anni fa, e quella nuova, una casa tra tante che nemmeno quei criminali asembra che abbiano saputo riconoscere.

Non è stato solo Charlie Hebdo a essere stato brutalizzato: lo è stato proprio lo spirito di un popolo con una storia grande, con un orgoglio che la maggioranza di noi italiani non ha mai provato nei confronti della nostra patria.

Non voglio addentrarmi in inutili disquisizioni sulla matrice jihadista del barbaro attentato.
Posso solo dire che il presente è davvero fosco e dopo quello che è successo a due passi da dove sorgeva la Bastiglia lo è ancora di più.

Non ho avuto (forse) mai abbastanza coraggio nelle mie scelte professionali e non solo. Posso però assicurarvi che, se la guerra alla civiltà fosse dichiarata apertamente (abbiate il coraggio di prendervi la responsabilità dei vostri crimini, terroristi del C.), io saprei da che parte stare.

Vive la libertè.


lunedì 5 gennaio 2015

Ciao, Joe, Ed e Pino. E grazie

Edward Hermann, alias il grandissimo Richard Gilmore e non solo

Occupata come sono stata ad affrontare il primo Natale senza la mia mamma, non ho avuto la forza né la voglia di dedicare qualche parola a due, da stanotte tre, personaggi pubblici che hanno influito sulla mia vita. I primi due su quella recente, l'ultimo in ordine di tempo sulla mia prima adolescenza.

Sto parlando di Joe Cocker, scomparso alla Vigilia di Natale, di Edward Hermann, scomparso alla vigilia del nuovo anno, e di Pino Daniele, che se n'è andato giusto alla vigilia della Befana.
Sull'ultimo proprio in questo momento si stanno versando molte lacrime, alcune di coccodrillo come sempre capita in circostanze simili, per cui mi limito per il momento solo a rilanciare nuovamente il pezzo di Massimo Del Papa, sentitamente sobrio come solo un asso della parola come lui sa fare quando vuole.

Su Joe Cocker rilancio di nuovo il mio provetto cognato, ma aggiungo giusto che alla vibrante voce di Sheffield ho in passato dedicato più di un post. Giusto la scorsa estate, dopo aver ricevuto dal Bipede il suo ultimo live, mi ero detta che mi sarebbe assai piaciuto vederlo dal vivo. Non ho fatto in tempo, ma da un altro punto di vista ho fatto in tempo: a conoscerlo e apprezzarlo come era giusto fare. Te ne sei andato anche tu troppo presto, Joe. Non dovevi proprio farci questa, accidenti. Non appena avrò la forza, riascolterò l'album Fire it up, che ho ancora nella mia scassata pennetta-radio, accanto alle poche cose nuove che vi ho inserito (Cristina Donà, intendo: l'ultimo e Tregua, il primo).

Della perdita di Edward Hermann, invece, sono sicura che sono in pochi a dolersi, almeno in Italia, o per lo meno tra la maggioranza di quelli che non hanno seguito la saga delle Gilmore.
Richard, il nonno di Rory e il padre di Lorelai, è sopravvissuto, durante le sette stagioni, a due diversi brutti colpi, il secondo più grave del primo. Alto un metro e novantacinque, 71 anni compiuti lo scorso 21 luglio (un giorno dopo il mio compleanno), questo mega attore nato a Washington DC ti dava l'idea della solidità fisica ed emotiva.
Non avevo idea che se lo stesse mangiando a brandelli un tumore al cervello. A porre fine alla sua agonia, hanno infatti pensato i familiari (l'amatissima seconda moglie in particolare, rimasta incinta di Ed nel 1981, durante le riprese di un film, quando l'attore era ancora legato alla prima moglie), che hanno dato l'ok al distacco da tutti i macchinari.

Della sua scomparsa ho saputo tornando in treno il primo dell'anno, dallo smartphone di mio marito. Inebetita dall'assenza di sonno, sono rimasta senza parole e senza lacrime, come mi è successo anche stamattina, quando, compulsando il mio lento accricco telefonico, ho scoperto dell'ennesima scomparsa.

Associo Pino Daniele a mia sorella Linda e ai suoi anni inquieti di adolescente. La guardavo con ammirazione (cosa che sotto sotto faccio anche adesso), perché la trovavo sofisticata nei suoi gusti, nell'abbigliamento innanzitutto, ma anche in quelli musicali.
Grazie a Linda ho conosciuto Vai mo' e Nero a metà, in particolare, e sempre grazie a lei ho scoperto di amare assai i ritmi latino-brasiliani (anni dopo ha avuto il periodo Caetano Veloso e Gilberto Gil) e in generale di non riuscire a vivere senza una qualche colonna sonora.

Nel tempo ho naturalmente sviluppato un gusto autonomo, ma quel che accade a 13-14-15 anni ti resta attaccato alle vene più di un'infezione.
Dedico ai miei anni verdi (e a quelli di molti di voi, passati, presenti e futuri) una delle canzoni di Pino che ho amato di più:



Aggiungo giusto una postilla: voi che ci avete fatto sognare, piangere, ridere e pensare non siete vissuti invano. Fortunate le persone che vi hanno incontrato.

Grazie.

domenica 4 gennaio 2015

Diavolo Rosso, che vita: buon compleanno, Maestro

Oggi sono stata chiamata effervescente da una cara amica: non nascondo che l'aggettivo mi abbia fatto piacere, tanto più perché, per molto tempo, di bollicine nelle mie vene ne sono scorse davvero poche. Gli ultimi giorni del 2014 e i primi del neonato di soli quattro giorni, però, sono stati miracolosamente straordinari, per cui, grazie Silvina: un po' di effervescenza mi si addice proprio in questo momento.

Ieri, per dire, ho fatto una pazzia, di quelle che nella mia situazione lavorativa nulla non mi sarei mai dovuta concedere: mi sono comprata ben due paia di scarpe nuove. Del primo (scarponcini blu di non so quale sfumatura; ma una veramente glamour, comunque) avevo obiettivamente bisogno e per 44 euro direi che ci potevo pure stare dentro. Del secondo, invece, beh... ma come potevo lasciare in quella nicchietta tanto splendore giapponese? Sì, perché sono scarpe Made in Japan, tutte naturali, veramente fichissime, con quella lampo sul tallone e la punta da Nonna Papera.

Come le ho provate, ho capito che erano le mie. Ridendo dentro di me, oltretutto, mi sono pure detta: dovrò pur avere un aspetto super-fico (ovviamente tarato sulle mie micro-possibilità) quando partirò per Parigi alla volta del Grand Rex Theatre, dove il 26 e 27 gennaio prossimi suona (e canta) il mio Maestro Paolo Conte.

Non contenta, ho pure cercato sulla guida di Parigi in libreria l'indirizzo preciso del teatro (Rue Poisonniere qualcosa: che bell'indirizzo) e gli hotel in zona.
Che male c'è a sognare a occhi aperti?
Era così tanto tempo che non me lo concedevo.

Avverto un'energia strana, come se veramente Branko e gli altri astrologi de noantri avessero ragione. Oppure, più probabilmente, sto covando l'influenza, visti gli sbalzi di temperatura di questi giorni. E comunque, finché dura, me la godo.

Dedico ai sognatori di ritorno come me Diavolo Rosso, una delle più belle canzoni dell'avvocato astigiano, augurando innanzitutto a lui, che giusto il giorno della Befana compirà 78 magnifici inverni, un affettuoso buon compleanno (manco se fosse mio padre) a voi di conservare il più possibile, in ogni momento, la voglia di vivere. Oltre ogni dolore.

Buone Epifanie a tutti.