lunedì 30 marzo 2015

I sorrisi sghembi di chi brama la rinascita: buona Pasqua a tutti


Nella fotografia che vedete sopra non mi piaccio affatto. Ma il motivo per cui l'ho pubblicata non è affatto narcisistico. Almeno, non in modo conscio.
Più o meno nello stesso punto, la bellezza di boh... trentacinque anni fa, fummo fotografati la sottoscritta con questa faccia da patata e il resto della mia famiglia di origine.
Ne ho parlato diffusamente nel periodo natalizio. Qui vi basti giusto sapere che lo scatto di questa volta è di ieri mattina: il luogo è Verona.

Sono stata nella bella, a tratti respingente, città veneta il fine settimana appena passato.
Ho rivisto l'autore del commovente ritratto degli anni che furono e l'ho ricambiato con la stessa moneta, fotografando lui e la sua nuova famiglia esattamente nel medesimo punto in cui eravamo stati immortalati noi quattro. Loro, ovviamente, non potevo pubblicarli. Perciò eccovi la foto che mi ha fatto il Bipede, giusto una mezz'oretta prima di quella di cui vi ho appena parlato.

Sono stata felice di rivedere un luogo nel quale, in verità, ero tornata nove anni fa, in occasione dell'indimenticabile concerto di Mark Knopfler ed Emmylou Harris all'arena. Anche quella, tra l'altro, era stata occasione di incontri molteplici: mi avevano raggiunta le mie ex compagne di casa di Milano, una delle quali è originaria proprio della città di Romeo e Giulietta.

Stavolta, invece, oltre a Rosina, Pino, Tonino, Silvia, Sofia e Gabriele, ho rivisto anche i nostri carissimi amici valdostani Lalla e Maurizio, e approfondito appena un po' di più la conoscenza con i loro amici Antonella e Mirco. Questi ultimi verranno giù nelle Marche la prossima estate, per cui la gita in cima alla torre dei Lamberti (bellissima Verona dall'alto!), la passeggiata e la cena sono stati giusto un anticipo dei giorni marini che spero passeremo insieme.

Mi piace far incontrare gli amici, anche se so bene quanto sia rischioso o semplicemente complicato. Temo in particolare di aver messo in imbarazzo due di loro (non dico chi), ma spero che possano perdonarmi: ci tenevo proprio a rivederli, anche solo per pochi minuti.

Mia madre ne sarebbe stata contenta. Da lei ho ereditato la socialità e anche una certa confusionarietà ansiosa. Mio padre, al telefono, pareva a sua volta contento per me.
Devo avergli fatto venire in mente le nostre vacanze, "quando erano piccole le bambine e giovani noi", ha scritto mia mamma in un bigliettino che accompagnava il vhs ricavato dalle bobine della vecchia cinepresa Super 8, da mio padre ripescata in fondo a uno degli armadi che abbiamo svuotato.

Stanotte l'ho sognata: stava bene, forse non al massimo, forse più o meno come l'ho vista il penultimo Natale, quando il male pareva avesse allentato la stretta.
Non voleva, per l'appunto, farsi stringere dal mio abbraccio, come se temesse che il senso di benessere ritrovato potesse smarrirsi al contatto con me.
Indossava la sua vestaglia rosso scuro, quella che le abbiamo visto più spesso nell'ultimo, troppo rapido, periodo.

Il prossimo 4 aprile sarebbe stato il suo compleanno. Ricordo troppo bene quello dell'anno scorso, ma non sono ancora in grado di dire come mi comporterò questo sabato né a Pasqua.

Sono giorni pieni di presente: mi vergogno quasi di ammettere di aver passato momenti belli durante questo mese. Dopo tanta stasi, preceduta da troppo dolore e angoscia pura, non riesco ancora a credere di essere riuscita a provare un po' di leggerezza.

La protagonista di Bones (uno dei miei attuali miti televisivi) direbbe che è colpa dell'educazione cattolica ricevuta, ma al di là di questo, quando soffri per davvero, guardi tutto con occhi totalmente differenti.

Vorrei ridere di cuore, lo confesso. Vorrei saltare da una stanza all'altra come facevo un po' prima della foto veronese di cui vi parlavo prima. Ogni tanto, certo, mi succede eccome di zampettare come la gatta Bice. La mia tendenza all'ironia (al sarcasmo, anzi) non mi abbandona mai.

E tuttavia non basta.
E' arrivata pure la primavera, persino qui a Fermo fa meno freddo (non in casa nostra: ieri al ritorno c'erano 15 gradi). Il cambiamento è necessario.
Alcuni arrivano del tutto inaspettati; altri bisogna impegnarsi continuamente a cercarli.

Che fatica, insomma. Sarà per questo che poi si ride a mezza bocca.
Per le risate con le lacrime ci vuole qualcosa di più.
Aspetto di vederle affiorare, accanto a quelle di commozione e di nostalgia, che ogni tanto, negli ultimi miei due viaggi verso nord, sono scese senza che potessi farci nulla.

Grazie, mamma, per tutto quello che mi hai dato.
Mi pare (lo dico piano) che stia germinando sempre di più.
Continuerò a non smarrirmi. Continuerò a rinascere, come tu hai saputo fare tutta la vita.

Buona Pasqua a tutti.

mercoledì 25 marzo 2015

Il sole che diventa luna e Giacomo Leopardi




Il fascino esercitato dalle eclissi di sole su di me è davvero grande. Nel '99 ho visto quella totale: poco più di due mesi dopo quell'esperienza indimenticabile, la mia vita è cambiata radicalmente.
Stavolta, però, non voglio tediarvi con i miei ricordi del Klondike.

Preferisco invece lasciare la parola a Giacomo Leopardi, aggiungendo giusto un altro dettaglio biografico.
Con il sommo poeta marchigiano, ho infatti in comune il solo segno zodiacale. Il che spiega, se l'astrologia ha appena un po' di ragione, come mai io ami così tanto la luna e il sole che ne prende le sembianze.

Ho chiamato il mio mini-album fotografico sul fenomeno celeste, che abbiamo osservato lo scorso venti marzo (il giorno del mio onomastico!) in buona parte dell'Europa e pure dell'Africa del Nord, "Che fai tu, sole-luna, in ciel".

Segue la poesia che me ne ha ispirato lo scontatissimo titolo: buona lettura.

CANTO NOTTURNO Dl UN PASTORE ERRANTE DELL' ASIA

Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai,
Silenziosa luna?
Sorgi la sera, e vai,
Contemplando i deserti; indi ti posi.
Ancor non sei tu paga
Di riandare i sempiterni calli?
Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga
Di mirar queste valli?
Somiglia alla tua vita
La vita del pastore.
Sorge in sul primo albore
Move la greggia oltre pel campo, e vede
Greggi, fontane ed erbe;
Poi stanco si riposa in su la sera:
Altro mai non ispera.
Dimmi, o luna: a che vale
Al pastor la sua vita,
La vostra vita a voi? dimmi: ove tende
Questo vagar mio breve,
Il tuo corso immortale?

Vecchierel bianco, infermo,
Mezzo vestito e scalzo,
Con gravissimo fascio in su le spalle,
Per montagna e per valle,
Per sassi acuti, ed alta rena, e fratte,
Al vento, alla tempesta, e quando avvampa
L'ora, e quando poi gela,
Corre via, corre, anela,
Varca torrenti e stagni,
Cade, risorge, e più e più s'affretta,
Senza posa o ristoro,
Lacero, sanguinoso; infin ch'arriva
Colà dove la via
E dove il tanto affaticar fu volto:
Abisso orrido, immenso,
Ov'ei precipitando, il tutto obblia.
Vergine luna, tale
E' la vita mortale.

Nasce l'uomo a fatica,
Ed è rischio di morte il nascimento.
Prova pena e tormento
Per prima cosa; e in sul principio stesso
La madre e il genitore
Il prende a consolar dell'esser nato.
Poi che crescendo viene,
L'uno e l'altro il sostiene, e via pur sempre
Con atti e con parole
Studiasi fargli core,
E consolarlo dell'umano stato:
Altro ufficio più grato
Non si fa da parenti alla lor prole.
Ma perchè dare al sole,
Perchè reggere in vita
Chi poi di quella consolar convenga?
Se la vita è sventura,
Perchè da noi si dura?
Intatta luna, tale
E' lo stato mortale.
Ma tu mortal non sei,
E forse del mio dir poco ti cale.

Pur tu, solinga, eterna peregrina,
Che sì pensosa sei, tu forse intendi,
Questo viver terreno,
Il patir nostro, il sospirar, che sia;
Che sia questo morir, questo supremo
Scolorar del sembiante,
E perir dalla terra, e venir meno
Ad ogni usata, amante compagnia.
E tu certo comprendi
Il perchè delle cose, e vedi il frutto
Del mattin, della sera,
Del tacito, infinito andar del tempo.
Tu sai, tu certo, a qual suo dolce amore
Rida la primavera,
A chi giovi l'ardore, e che procacci
Il verno co' suoi ghiacci.
Mille cose sai tu, mille discopri,
Che son celate al semplice pastore.
Spesso quand'io ti miro
Star così muta in sul deserto piano,
Che, in suo giro lontano, al ciel confina;
Ovver con la mia greggia
Seguirmi viaggiando a mano a mano;
E quando miro in cielo arder le stelle;
Dico fra me pensando:
A che tante facelle?
Che fa l'aria infinita, e quel profondo
Infinito Seren? che vuol dir questa
Solitudine immensa? ed io che sono?
Così meco ragiono: e della stanza
Smisurata e superba,
E dell'innumerabile famiglia;
Poi di tanto adoprar, di tanti moti
D'ogni celeste, ogni terrena cosa,
Girando senza posa,
Per tornar sempre là donde son mosse;
Uso alcuno, alcun frutto
Indovinar non so. Ma tu per certo,
Giovinetta immortal, conosci il tutto.
Questo io conosco e sento,
Che degli eterni giri,
Che dell'esser mio frale,
Qualche bene o contento
Avrà fors'altri; a me la vita è male.

O greggia mia che posi, oh te beata,
Che la miseria tua, credo, non sai!
Quanta invidia ti porto!
Non sol perchè d'affanno
Quasi libera vai;
Ch'ogni stento, ogni danno,
Ogni estremo timor subito scordi;
Ma più perchè giammai tedio non provi.
Quando tu siedi all'ombra, sovra l'erbe,
Tu se' queta e contenta;
E gran parte dell'anno
Senza noia consumi in quello stato.
Ed io pur seggo sovra l'erbe, all'ombra,
E un fastidio m'ingombra
La mente, ed uno spron quasi mi punge
Sì che, sedendo, più che mai son lunge
Da trovar pace o loco.
E pur nulla non bramo,
E non ho fino a qui cagion di pianto.
Quel che tu goda o quanto,
Non so già dir; ma fortunata sei.
Ed io godo ancor poco,
O greggia mia, nè di ciò sol mi lagno.
Se tu parlar sapessi, io chiederei:
Dimmi: perchè giacendo
A bell'agio, ozioso,
S'appaga ogni animale;
Me, s'io giaccio in riposo, il tedio assale?

Forse s'avess'io l'ale
Da volar su le nubi,
E noverar le stelle ad una ad una,
O come il tuono errar di giogo in giogo,
Più felice sarei, dolce mia greggia,
Più felice sarei, candida luna.
O forse erra dal vero,
Mirando all'altrui sorte, il mio pensiero:
Forse in qual forma, in quale
Stato che sia, dentro covile o cuna,
E' funesto a chi nasce il dì natale. 

lunedì 16 marzo 2015

Miracoli a Milano: resoconto per immagini del mio breve ritorno al Nord



Non ho molta voglia di aggiungere altre parole alle didascalie che vedrete scorrere nel videoclip, che ho finito di montare piuttosto velocemente poco fa.

Just one, to be completely honest with myself. Ho ottenuto il Toeic, ossia la certificazione internazionale di inglese per la quale ho cominciato a prepararmi due anni fa (con intensità MOLTO alta solo nell'ultimo periodo, eh).

Ho rivisto un po' di persone, ma non tutte quelle che avrei voluto (Luciana e Paolo, sono assai dispiaciuta di non essere riuscita a riabbracciarvi. Ciò significa solo che, come dico nel video, devo tornare presto).
Ascoltando i loro racconti, mi sono soffermata su ogni parola con reale desiderio di essere lì, evitando con molta naturalezza di soffermarmi troppo su ciò che NON ho avuto rispetto a quanto hanno avuto loro (figli compresi) negli ultimi dieci anni.

Mi sono goduta il più possibile il presente, insomma.

Si tratta, ve l'assicuro, di un risultato ancora più grande del voto che ho preso all'esame, considerato il soggetto nevrotico e ansioso che sta digitando.

Adesso è come se fosse il 2 gennaio e dovessi riprogrammare tutto l'anno che verrà.
Non è facile (anzi: per certi versi l'ansia degli ultimi tempi mi sta dando la misura di ciò che mi aspetta).

Non so nemmeno bene da dove cominciare (non credetemi: questo dannato cervello bacato sa sempre, alla fine, da dove partire), ma il cielo novembrino di oggi non mi inganna.
La primavera è praticamente arrivata e se anche la mia personale temo stia finendo già da mo', fa niente. 

Qualcosa accadrà.
Accade sempre.

Alla prossima, amici.

mercoledì 4 marzo 2015

Siamo (anche) il nostro passato. Perciò: why worry?



Il sito della scuola d'inglese sul quale mi sto preparando per il Toeic non funziona? Perché preoccuparsi? "Si dovrebbe ridere dopo un dolore, dovrebbe tornare il sole dopo la pioggia. Quindi perché preoccuparsi ora?".

Lo dire Mark Knopfler nella sua bellissima Why worry?, che qui propongo in una versione del 2009, valida, presumo, ancora oggi. 
E' così diversa dalla originale, ossia quella registrata per Brothers in arms: l'ho ascoltata poco fa mentre stiravo (non potendo studiare: sono molto multi-tasking).

Vi dirò che quasi quasi la preferisco nella versione contemporanea: secondo me, la voce di Mark è addirittura diventata più sexy adesso
Probabilmente c'entra anche la produzione del suono (mi baso su quanto mi riferisce il Bipede in merito), che negli anni Ottanta era (forse) più patinata.

In ogni caso, ieri ho rivisto di nuovo il documentario della Bbc che ho pubblicato nel precedente post (NB ora bloccato dai proprietari e quindi non più disponibile... ahimè) e, oltre a confermare la grandissima emozione provata la prima volta che l'ho visto, mi sono soffermata di più sul passaggio in cui si sentono le note di Why worry e di alcune colonne sonore che il musicista-songwriter di Glasgow ha composto per svariati film poco noti in Italia.

Mi piace moltissimo il punto in cui dice di aver inserito suggestioni provenienti dal mondo celtico (la prima c è pronunciata come una K, cosa che ignoravo), così, quasi senza accorgersene.
E' normale che succeda così, considera più o meno, perché tutto ciò che siamo oggi è frutto del nostro passato e di quello di chi è venuto prima di noi.

Potremo girare tutto il mondo, insomma, ma quello che porteremo alla luce nelle cose che facciamo, sarà sempre fortemente impastato di ciò che abbiamo conosciuto più intimamente. Anche senza accorgercene. Attraverso il latte materno, per dire.

La "mia" Majella sarà sempre con me, mia madre sarà sempre mia madre e io la porterò con me, sempre.
Perciò, why worry?

Buon ascolto e buoni percorsi a tutti.

martedì 24 febbraio 2015

Mark Knopfler e la felicità necessaria



Il documentario della BBC che pubblico sopra (NB: è stato bloccato dai proprietari qualche tempo dopo aver pubblicato questo post. Ne sono molto dispiaciuta, ma non ci si può fare niente...) mi è stato segnalato (com'era facilmente deducibile per chi ci conosce) dal Bipede. 
Non potrò mai smettere di ringraziarlo per avermi fatto conoscere a fondo Mark Knopfler, che è molto di più della voce dei mitici Dire Straits. Chi, come me, ha scoperto la sua produzione solistica, prendendosi naturalmente il giusto tempo per studiarne (proprio) le canzoni, saprà senza bisogno di ulteriori parole quanto grande sia questo immenso songwriter nativo di Glasgow.

Come già detto su questo spazio in passato, quando mi sono rimessa a studiare inglese, sono partita proprio dai testi di Mark per farmi un po' di vocabolario. Un'operazione davvero complessa che non ho ancora terminato né credo concluderò a breve.
Non solo perché, com'è ovvio, non si finisce mai di apprendere quali e quante siano le sfumature di una lingua (pure della propria), ma anche perché l'artista britannico ha una ricchezza espressiva davvero straordinaria.

Basta guardare e ascoltare ciò che dice in questo documentario uscito in occasione del suo terzultimo disco (considerando il prossimo in uscita in 9 marzo) Get Lucky.

Sapevo dell'abitudine di Mark di portarsi dietro un taccuino per trascriverne, tutte le volte che ci fosse stato bisogno, dettagli di vita rubata girando tra la gente; ciò che invece ignoravo fino a ieri è che abbia fatto agli albori della sua vita adulta (a soli 15 anni) il giornalista (il copy boy, più esattamente).
Certo, non ha mai sentito - lo dice proprio letteralmente - di avere "l'inchiostro nelle vene", ma a mio modestissimo avviso nel suo sangue c'è sempre stato molto di più del liquido nero-bluastro che usiamo per scrivere.
Quanti ne nascono, infatti, al mondo di artisti che sanno disegnare suonando e scrivere cantando

Per me Knopfler è un mago delle sinestesie, ossia uno di quei rari casi in cui, ascoltando la sua musica e leggendo le microstorie contenute nei suoi testi, ti lasci andare, smetti di pensare al tuo presente e ti metti in viaggio.

Non è un caso se uno dei dischi che amo di più è quello con Emmylou, affascinante cantante folk made in USA, che compare anche nel video qui sopra. Ascoltandoli duettare insieme, mi sembra di percorrere insieme con loro quelle immense strade che ammiro sempre nei telefilm americani, e soprattutto mi sembra che sia ancora tutto possibile.

Nel penultimo lavoro, che sto riascoltando in questi giorni, di canzoni che ti portano lontano lontano (oltre Milano e i gasometri, direbbe il "mio" maestro astigiano), ce ne sono parecchie.
Spettacolare è, ovvio, Privateering, il pezzo che dà il titolo all'album, che parla di pirati veri e metaforici.

Ma tra le più emozionanti, per me, c'è Seattle, che parla di pioggia e di amore, di un amore che si nutre sotto e con la pioggia che cade a secchiate sulla città Usa. Una delle molte che vorrei visitare.

L'ultimo mese è stato molto duro, come non mi succedeva da tempo.
Il 26 febbraio del 1997 ho avuto una crisi d'ansia fortissima in una libreria di Pisa. La mia prima vera crisi d'ansia: da allora niente è stato più come prima. Ne ho parlato più volte, soprattutto ne ho ricavato un racconto diversi anni dopo che, pur con i difetti congeniti alla mia scrittura, ha ancora qualcosa di potente.

Non sono più la stessa di quegli anni, ne sono consapevole.
Però, in meno di un anno mi sono ritrovata senza la donna che più di tutte mi ha sempre spinta, allora come prima e come dopo, a proseguire con la mia vita, e con un papà molto più fragile.

L'ho già scritto: sono diventata adulta tardi e una parte di me temo non crescerà mai (lo testimonia pure la mia bassa statura).
Fa niente, l'importante è conoscere i propri limiti e giocarci quando non si può fare altrimenti (come faccio spesso con i miei 152 centimetri sopra il livello del mare).

Mark e il suo immaginario così ricco, la lucidità con cui, poco più che quarantenne, ha detto basta (lo si vede bene nel documentario) alla sua scintillante vita di popstar, mi ricordano gli strappi che ho compiuto pure io nel mio piccolo, in nome della ricerca di un senso più profondo nelle cose, quello che "si nasconde dietro alle persone", come canta Cristina Donà in uno dei pezzi più belli del suo Così vicini.

Quel che più mi piace e forse mi rassicura è che questo genio della musica e delle parole oggi, a quasi 66 anni, sia - visibilmente - una persona felice. Lo testimonia l'altro, brevissimo, video che mi ha linkato sempre il Bipede, che racconta alcuni momenti delle sue giornate più recenti, forse di un anno fa, mentre stava registrando Tracker, l'album di prossima uscita.

Lo trovate qui sotto:



Che cosa significa felicità, direte voi?
Per me, più o meno quella cosa lì che si vede mentre Mark gioca con il suo cane, prova la macchina d'epoca e poi va nello studio di registrazione, tra i suoi colleghi e sicuramente amici fidati.

La felicità è riuscire, insomma, a trovare il proprio posto nel mondo imparando a fare ciò che più ci piace. Tutto qui, pensate? Beh, vi sfido a provarmi quanto sia semplice.

Se per voi è stato così, ne sono per l'appunto felice.
Per me, invece, è dura: soggettivamente sono incline all'esaurimento (e vabbè), ma oggettivamente ci vorrebbero condizioni un po' più favorevoli.

Per fortuna arriva la musica e le passioni altrui, dalle quali, a volte, com'è successo ieri mattina, mentre guardavo Mark, mi lascio facilmente contagiare.

Lui non può saperlo, o forse lo sa eccome: nel mondo ci saranno tante persone confuse, preoccupate, incerte e con problemi anche decisamente più seri dei miei che, ascoltandolo, si sono magicamente sentite meglio.

E' questo il senso più vero dell'arte: offrire oasi di consolazione vera e in un certo senso gratuita.

Spero solo di arrivare allo stesso grado di pacificazione che mostra quest'uomo dai piccoli, intensi, occhi blu.
Certo, come ha dichiarato in un'intervista Paolo Conte, "il felice", prima bisogna "lavorare molto".
Forse è proprio questo il problema.

Ma questa è un'altra storia.
Ne parlerò (forse) in un altro post.

A voi, buona vita e buone ricerche.
La vita è sempre dannatamente interessante.
Non scordiamocelo mai.

venerdì 13 febbraio 2015

Andare oltre le bassezze vere e metaforiche. Quess è la sè



"Oggi siamo arrivate in Bassonia: sono alti tutti non più di un metro e cinquanta. Mi sento a casa."

E poco sotto, con la mia scritturaccia da pollo: "UMPF!".

La frase che riporto sopra è di mia sorella. E' tratta da un diario di viaggio (se così lo si può definire) che ho tenuto nel lontano 1991, anno del nostro primo (indimenticabile) giro per la Renania.

Ricordo molti momenti di quei giorni d'estate. Forse anche perché ho riletto quelle pagine svariate volte negli anni.
L'altra sera, nel mio letto d'ottone teatino, ho riaperto l'agendina con la chiusura a lucchetto e la copertina rigida decorata con immagini da scrittoio di tempi ancora più antichi.

L'ho fatto ben consapevole dei rischi che avrei corso.
Ogni volta che mi rileggo, pure adesso, mi sento immancabilmente un'idiota.
Ai tempi lo ero, anzi, meno di oggi.
Questo perché allora, quando scrivevo che "dovevo concentrarmi sul lavoro", avevo più di qualche ragione per dirlo. Sapevo, l'ho proprio vergato, di avere "tutta la vita davanti" e di certo all'epoca non potevo immaginare di far parte di quella che Mario Monti diversi anni dopo ha definito la generazione perduta.

Non ho alcuna voglia (ma per carità) di fare la lagna, in questo momento.
Anzi, dovrei proprio spegnere e fare tutt'altro (magari una doccia: ho dei capelli improponibili), ma non ho resistito. Dovevo passare di qua visti quanti giorni sono passati dall'ultima volta.

Mia sorella mi ha sempre benevolmente (o no? dovrò chiederglielo) preso in giro per l'altezza.
Non me la sono mai presa, giuro. Mi dà molto (MOLTO) più fastidio quando lei (o chi per lei, veramente) mi dà consigli di vita. Soprattutto se non sono richiesti.
Temo di aver ereditato questo tratto un po' ispido del carattere da mio padre.

Ho passato giornate piuttosto pesanti con lui e - purtroppo - per via di lui.
Non è colpa di nessuno, lo so io e lo sa anche lui, ma dopo una certa età le cose si complicano anziché semplificarsi.

Si vorrebbe essere più maturi, più pazienti e invece accade non di rado il contrario.
Ieri me ne sono (quasi) scappata.

In tutta la pesantezza accumulata, però, ci sono stati anche alcuni momenti di verità che prima o poi dovevano arrivare.
Uno di questi è stato proprio la rilettura di quelle pagine antiche, come facevo ai tempi o giù di lì. Da giovane, infatti, mi rileggevo proprio per fissare le cazzate scritte nella memoria e tentare di andare oltre.

Bisognerebbe sempre tentare di andare oltre. Il carattere (come dico spesso) non si cambia, ma a certi comportamenti abusati bisognerebbe mettere uno stop. Quando mi rileggevo, mi autostoppavo. Ecco: mi autostopperò pure stavolta.
Ridendo della mia bassa statura e di tutte le altre mie e altrui bassezze.

Quess è la sè (traduzione libera: questo è), come va ripetendo mio padre sempre più spesso, soprattutto al telefono, con una certa qual (preoccupante e mattonante) gravità.

Però tè raggione (ha ragione).

O no?


mercoledì 28 gennaio 2015

Andre Agassi, la palestra e il mio motto del 2015: prima senti, poi (forse) pensa


Abbiamo posato per questa fotografia giovedì dell'altra settimana.
Per chi non dovesse riconoscermi subito, dico solo che di sicuro non sono tra le ragazze (e l'unico uomo del gruppo, l'insegnante di yoga Raul) in piedi.

Due giorni prima ci avevano esortato a indossare la maglia nuova della società sportiva Fermo 85, di cui faccio parte ormai da quasi cinque anni. Non riesco ancora a credere che sia passato già così tanto tempo, anche perché i primi due anni (o giù di lì) non mi sarei mai immaginata quanto quelle ore che trascorro lì, mescolata a signore e ragazze delle età più disparate, sarebbero diventate per me boccate preziose di ossigeno.
Chi mi conosce lo sa, perché ne parlo spesso: sono grata alle istruttrici Tiziana Bastiani e Rita Sacripanti (e pure a Raul, di cui, ahimè, ignoro il cognome) per avermi spinta a prendermi di nuovo cura del mio corpo.

Ho sempre amato fare sport all'aperto: a tennis, purtroppo, sono riuscita a giocare solo poche volte dalla scorsa estate durante la quale mi ero ripromessa di ricominciare e tuttavia adesso so con certezza che, volendo, potrei farlo.
Adoro sentire i miei muscoli che lavorano, il cuore che accelera e il sudore che m'imperla la schiena. Mi piace constatare che riesco ancora a piegarmi piuttosto bene e che, tutto sommato, riesco a cavarmela pure con le coreografie di step e aerobica, verso le quali, da ragazza, provavo una certa ostilità.

Tutto è cominciato, del resto, quando ero molto piccola, forse verso i 7-8 anni: cicciottella com'ero, mia madre pensò che potesse farmi bene muovermi un po', così mi iscrisse a un corso di ginnastica ritmica. Ero veramente negata: ricordo ancora, a essere sincera, come si fa il passo composto, ma detestavo che mi si dicesse di muovermi a comando.
Eppure fisicamente ero assai sciolta. Lo giuro, non sto scherzando: riuscivo a scendere in spaccata facendo giusto un salto nell'aria. Sapevo portare su soprattutto la gamba sinistra come vedevo fare da Heather Parisi.
Bastava però che mi si dicesse di seguire dei passi pre-costituiti perché andassi in crisi trasformandomi in un legnaccio inamovibile.

Ero pure dotata di un discreto scatto, come ebbi modo di sperimentare sulla pista d'atletica dello stadio Angelini di Chieti Scalo qualche anno dopo il fallimento con la ginnastica ritmica. Vinsi una gara, anche, ma non c'era storia: gli altri bambini erano più piccoli, non potevo che essere la più forte.

Al liceo, infatti, quando mi spedirono a gareggiare, fallii miseramente: persi l'equilibrio direttamente sui blocchi di partenza e uscii subito dalla corsia. Ho sempre detestato i rumori forti: il bang della pistola, probabilmente, doveva avermi messo paura prima ancora di essere esploso. Ma non cerchiamo scuse patetiche, soprattutto a distanza di ben trent'anni.

Poi c'è stato il tennis, di cui ho già parlato in un post.
Qui dico solo che ho appena finito Open in inglese, l'autobiografia di Andre Agassi, aggiungendo che avrei dovuto leggerlo anni fa per fare pace con la mia ansia da prestazione. Anche perché, a differenza del grandissimo campione di Vegas, come lui chiama la sua città natale (anche se il padre è di origini iraniane), a me nessuno ha mai chiesto di tirar fuori un talento che non ho mai sicuramente mai posseduto, a differenza sua e della grandissima (e strafichissima) moglie Steffi Graf.

E tuttavia consiglio Open a tutti quelli che amano lo sport e le sfide in generale: per affrontarle, dice in soldoni Andre e il suo ghost writer (che il campione ringrazia pubblicamente nella post-fazione, il che me lo ha reso decisamente più simpatico di come lo percepivo inizialmente quando, snobisticamente, dicevo di NON volerlo leggere), bisogna smettere di pensare e imparare, invece, a sentire.

Se pensi di vincere, non vinci; se senti che qualcosa può accadere, accadrà, se non proprio quella, magari un'altra, persino più importante.

Per lui, nella versione romanzata del suo passato di campione riluttante, smettere di giocare ha coinciso con una vera e propria rinascita. L'Agassi di oggi, un anno e poco più di me, è un uomo completo, e lo si vede anche nelle interviste. Per quanto siano costruite (gli americani sono dei maestri nelle fiction: pure la più scalcinata è più credibile di una qualsiasi soap nostrana), basta guardare Andre negli occhi per capire che, diamine, è uno felice ed è talmente felice che non si vergogna di farcelo vedere. Beato lui. E beata Stefanie (come preferisce farsi chiamare la sua bionda consorte) e i loro bambini.

Come tutti gli esseri umani, avranno (e provocheranno) di certo scazzi, dolori, frustrazioni, meschinità, etc etc, ma guardandoli insieme nell'intervista alla BBC che linko sotto, ho avvertito la stessa naturale energia vitale che percepisco ogni volta che vado in palestra, nella "mia" modesta palestra di provincia, tra signorine e signore di cui ignoro quasi tutto, ma con cui divido i miei sorrisi e la mia fatica ogni qual volta ci si chiede di affrontare un esercizio più complicato.

Quando sono lì dentro, mi sento forte come una campionessa, felice come una bambina e libera come una donna.

Approfitto perciò della foto di gruppo, dolcemente mossa, per l'ennesimo grazie alla vita.
Il presente è nebuloso (fuori fa un freddo cane), ma gli stati di grazia non hanno niente a che fare con i nostri pensieri e i nostri giudizi, spesso emessi a prescindere, con quella tipica presunzione di noi esseri umani.

Sentire è molto più potente. Eccome se lo è. Ogni tanto va fissato sulla carta, giusto per non scordarselo.
Non vedo l'ora che sia domani, ore 19.15.