mercoledì 30 dicembre 2015

Eroi per un giorno, eroi per sempre: buon 2016 a tutti noi


Heroes è un grande successo di David Bowie, scritto (e presumo composto) con Brian Eno.
Da ignorante (quasi) integrale della musica, l'ho scoperto solo pochi giorni fa, ascoltando Andrea Schroeder, che l'ha reinterpretato in tedesco.
Come sapete, sto studiando pure la lingua crucca, onde superare (ma chissà quando ci riuscirò) lo smacco del concorsone Rai, al quale, almeno auf Deutsch, non ho preso neanche un punto.

Ebbene: ascoltare la voce profonda, alla Marianne Faithfull, di questa affascinante musicista tedesca, nel negozio di dischi e libri di cui vi ho già parlato, mi ha fatto venire una gran voglia di conoscerla meglio.

L'intero disco (uscito l'anno scorso) si chiama Where the wild oceans end e contiene diverse tracce notevoli (Until the end è super, ma mi piace moltissimo anche Summer came to say goodbye, forse perché parla della stagione in cui sono nata io, l'estate, la più crudele di tutte per antonomasia).

Helden, come immaginerete, significa "eroi" e parla (se ho capito bene il testo tedesco) di due che si sentono tali almeno per un giorno. Il motivo, almeno nella versione tedesca, non è subito intellegibile (per una che sa il tedesco come lo so io, almeno). In quella di Bowie, invece, lo è assai di più: si parla di una coppia che, essendo capace di nuotare come delfini (penso metaforicamente), finalmente si sente libera di amarsi, quindi di diventare re e regina, vincendo su quelli che normalmente li annienterebbero.

In tedesco, più o meno, il senso è lo stesso, con la differenza che qui si cita il muro (penso non casualmente) e che il ritmo è molto meno vorticoso che nell'originale inglese.

Andando via dalla parrucchiera, sotto il cielo che scuriva, ho ascoltato a tutto volume Andrea e i suoi Helden e mi è parso di esserlo pure io.

Siamo in molti a essere tali, anche se non ce ne accorgiamo. Ne siamo consapevoli a sprazzi quando amiamo e siamo riamati.
Detesto la retorica per cui la faccio breve: sarebbe davvero bello se nel 2016 stati di grazia come quelli descritti da Andrea Schroeder e da David Bowie (che ho visto in un concerto da Berlino del 2010, restandone fulminata) si moltiplicassero.

Sentirsi eroi nella quotidianità, anche quando tutti gli altri pensano di noi il contrario, deve essere, è, una sensazione straordinaria.
Lo auguro a tutti voi, a me, a noi che sappiamo quanta fatica ci voglia per non farci schiacciare come schifose cimici.

Nuotando, possibilmente in compagnia di chi amiamo, da qualche parte, prima o poi, approderemo.
E saremo re e regine. Per un giorno. E per sempre.
Buon anno!

venerdì 18 dicembre 2015

Buon Natale di leggerezza a tutti


La mano di bambina che vedete appartiene a Matilde, la figlia della mia amica Laura, entrambe spuntate, con mia grande sorpresa, all'inaugurazione della mostra collettiva di Fermo di artisti, veri e presunti (della seconda categoria la sottoscritta).
E' stata lei a ordinarmi di scattare la foto con la sua bambolina accanto alla mia solita faccia sorridente. E quando un tipo come Matilde ti dice di fare una cosa, tu non puoi che eseguire.

Sono contenta dell'accoglienza che il manifesto (e il video: quanto m'è piaciuto realizzarlo) sulla palestra ha avuto tra le mie compagne di corso. Sto aspettando i commenti dell'insegnante più anziana, la super-tosta Rita, ma lo ammetto: l'applauso improvvisato che mi hanno fatto ieri nello stanzone teatro dei nostri volteggi ed esercizi ginnici mi ha alleggerito assai.

Mi ci voleva.

Non so come viviate voi i giorni pre-natalizi, ma a me, man mano che invecchio, va aumentando il sentimento di malinconia. Mi ci vorrebbe, molto probabilmente, un po' di svago scaccia-pensieri, forse un'uscita con le amiche di un tempo, una birretta in più, insomma, cazzeggio innocente. Spero sia possibile durante le ferie. Degli altri. Alt: non mi lagno, sennò il mio compagno di liceo mi rimprovera.

La settimana che si va chiudendo, del resto, è stata abbastanza impegnativa: due giorni fa, per dire, ero così stanca che alle dieci e mezzo di sera sono crollata. Non si può essere sempre energici, in definitiva.

Una cosa, però, dovete saperla: se fossi passata di qui ieri o il giorno prima, avrei rischiato di ammorbarvi con nuove, autoreferenzialissime riflessioni sul concetto di rabbia. L'avete scampata bella.
Accenno solo alle cause dello sventato sproloquio, ossia il funerale laico al quale ho partecipato, in onore di Mario Dondero.

Ho visto persone e ascoltato cose che voi umani non potreste nemmeno immaginare.
Il figlio Bruno, forte accento francese, ha lasciato emergere un po' della sua incazzatura di figlio di un padre spesso assente. E meno male: sennò il ritratto dell'eroe senza macchia, del santo laico sarebbe stato quasi insopportabile. Lo dice una che ha voluto bene al suddetto eroe, come già sapete.

Ma ripeto: lasciamo andare.
A mente fredda, mi resta di quelle ore un sapore dolce-amaro, meno fastidioso (molto meno) della morsa d'angoscia che ogni tanto mi prende ancora quando torno a Chieti, un luogo così simile nei suoi riti piccolo-borghesi alla cittadina del Girfalco.
Le pubbliche esequie, in altre parole, devono necessariamente contenere qualche elemento farsesco, soprattutto in provincia. Quindi, detto alla Crozza che fa Mentana, eeeeh, ci sta, ci stava.

Fortuna che il tempo mite e il mare piattissimo (come l'ho visto stamattina, dopo vari giorni senza essermi affacciata sul lungomare) placano la vis polemica che ogni tanto m'afferra.

Sono talmente tornata in me che, anzi, alla fine, ieri ho fatto pure l'albero (e disposto il mini-presepe sotto il medesimo: quanto mi piace la pecora con le ali che veglia sulla grotta di Gesù Bambino), tutta contenta come sicuramente sarà stata la simpaticissima Matilde, quando hanno allestito il suo.
Il primo albero di Natale a casa mia: accidenti. Sì, l'ho pensato guardandolo acceso nella casa buia, di ritorno dalla palestra.

In fondo, non va tutto male. E' tutto tremendamente faticoso, questo sì, ma pazienza.
E l'orologio costosissimo che ho adocchiato sul giornale come auto-regalo che non mi farò, non importa, l'anno prossimo, magari, mi avrebbe già stufato.

Sono saggia, vero? Ditemi di sì: con i pazzi, ve lo consiglio, è meglio fare così.

Cerco solo, umanamente, di nutrire di levità il presente, di coltivarla, proprio.
Non è sempre possibile, ma praticabile come atteggiamento di massima.

Concludo, perciò, augurando anche a voi analoghi percorsi: lasciatevi andare alla leggerezza, che non significa vuota superficialità, semmai il contrario.

Soltanto chi ha provato pesantezze vere, infatti, sa che cosa significa lasciarsele cadere, anche solo per pochi minuti, dalle spalle o dalle gambe. Un po' come quando ti togli le cavigliere o lasci andare i pesetti a terra, alla fine di un ciclo di esercizi che poi dovrai ripetere.

Ecco: volevo dirvi solo questo, amiche e amici di Madamatap.
Auguri di vero cuore.

lunedì 14 dicembre 2015

Dedicato a Mario Dondero

Edoardo Sanguineti, visto da Mario Dondero

Non se ne doveva andare. Non è giusto, anche se dannatamente umano, come lui, tra i grandi della terra. Uno di quelli dotati della straordinaria capacità di valorizzare tutti, ma proprio tutti.

Fortuna che ho fatto in tempo a incrociarlo e a intervistarlo nell'ottobre del 2010.

Non ho mai rilanciato nulla in modo così esplicito: lo faccio a titolo di pura testimonianza.

E perché a Mario ho voluto bene davvero (come è successo, lo so, a tutti quelli che l'hanno incontrato).

Salutaci l'Eden. Rendilo verde e giovane, come te.


Mario Dondero, il fotografo innamorato dell’umanità


Mario Dondero, visto da Danilo De Marco

“Le piace questa cravatta?”. All’appuntamento Mario Dondero, il fotogiornalista più blasé d’Italia, arriva con un leggero ritardo. Ma arriva e “il ciak si gira” scatta in un lampo. Voleva essere elegante per l’appuntamento, dice, perciò si è messo quella cravatta, che sì, è di un bel verde oliva. Mario dice che l’ha pagata pochi euro, ma chissà se è vero, considerato quel che scrivono di lui i numerosi amici di questo signore della fotografia in bianco e nero, assolutamente (anche se non per pregiudizio ideologico, come poi preciserà) analogica, nato a Milano (ma genovese nell’essenza, com’era suo padre) il 6 maggio del 1928. Molti di loro fanno i giornalisti e gli scrittori, di qui i ritratti sempre molto letterari apparsi sui media. Due anni fa, per esempio, gli è stato dedicato un libro intitolato Dondero 4 20, per i suoi ottant’anni o anzi, per meglio dire, per i suoi vent’anni ripetuti quattro volte. Perché Mario non si sente proprio vecchio, anche se ha accettato di buon grado di incontrare Muoversi Insieme, forse per uno scopo più alto. Al fotografo interessato principalmente all’umanità dei soggetti immortalati nella sua lunghissima carriera piuttosto che alla qualità estetica dell’inquadratura adottata, preme parlare di generazioni, di memoria e di speranza, legati da fili fragilissimi che rischiano di spezzarsi, come racconta nell’intervista che segue. Buona lettura.
Che idea ha del tempo, suo personale?
Non so bene se sono nella seconda, terza o quarta età. In tutti i modi, direi che la vita mi ha abbastanza risparmiato sul piano fisico.
Tra poco presiederà la giuria del Premio Chatwin-camminando per il mondo: è vero che va sempre a piedi?
Sì, non ho la macchina e trovo che camminare e prendere i mezzi pubblici renda più allegri: si fanno degli incontri, si parla, ci si sente dentro la comunità, il che è un tonico dello spirito molto importante. E poi sa perché non mi sento vecchio?
Perché?
Perché amo le donne (ha appena scherzato simpaticamente con una giovane cameriera, scegliendo il thè “Lingua di fuoco”)… la verità è che io ho sempre amato l’amore e trovo che non sia affatto vero che sparisce con gli anni. L’unica cosa che cambia è che si può essere affetti da difetti fisici che non si aveva da giovani, ma l’immaginario legato all’amore è sempre permanente. Quando si è perso questo, si è davvero passati nella quarta età.
Che poi può succedere anche da giovani di smarrirlo, non crede?
In effetti trovo che ci sia una crisi delle relazioni umane piuttosto preoccupante: per me il simbolo di questo è l’ipermercato. Prima c’erano i caffeucci, l’ortolano, le botteghe, se invece trasferisci la vita nel centro commerciale, quando si sono spente le luci è finito tutto. Ma sei sicuro che non ti piace la mia cravatta? (Al nostro tavolino si è unito anche Carlo Madesani, il responsabile di Camera 16, una galleria fotografica di Milano che ha organizzato una mostra sulle foto di Mario che aprirà il prossimo 11 novembre: la cravatta cambia collo).
Come vede il nostro tempo, quindi?
Sento un declino nazionale molto forte: mi sembra che si stiano smarrendo la simpatia, l’allegria e addirittura la speranza. Forse quest’ultima è solo occultata, in ogni caso bisogna farla rinascere.
Come?
Bisogna che chi ha vissuto intensamente passi il testimone parlando con i giovani. Spesso vado nei licei e nelle università e scopro che molti studenti ignorano pagine importanti della storia, non per colpa loro. Invece la memoria della storia va conservata come lezione per il futuro perciò uso la mia piccola tribuna di giornalista come via d’uscita dalla solitudine.
Anche la sua personale? La spaventa la solitudine?
Direi di no. Invece sono un cultore della “reverie”, alla francese: per esempio mi piace guardare il mare in tempesta, particolarmente il Tirreno, il mare della mia infanzia a Camogli, oppure quello del Nord Europa: ad Aberdeen, in Scozia, i pescherecci stanno in verticale rispetto all’onda…
Ha buona memoria?
Medicalmente mi pare di averne una forte del passato remoto e più debole del prossimo. Mi pare che sia un classico dell’invecchiamento, no?
Dicono…  Da poco è stato insignito del premio “Città del diario” a Pieve Santo Stefano, dedicato ai linguaggi della memoria: in generale che cos’è la memoria, per lei?
Ricordarsi dei momenti significativi del passato. Per esempio, andare sulla tomba di Robert Capa: se ho fatto il fotografo lo devo a lui (Mario e Carlo, molto probabilmente, partiranno a dicembre per un viaggio in Usa coast to coast, però a bordo dei pullman Greyhound, per un reportage sulle foto inedite da poco ritrovate di uno dei fondatori dell’agenzia fotografica Magnum e della sua fidanzata Gerda Taro).
Che cosa le piace di Robert Capa?
Non tanto il suo coraggio nell’affrontare il rischio bellico, ma il suo sguardo umano, la sua capacità di narrare la storia con un occhio semplice senza elemento estetico sovrapposto. Per me è un modello di umanità.
Su internet gira un video molto bello realizzato dagli studenti dell’università di Teramo in cui lei dice di non aver mai badato troppo all’aspetto artigianale della fotografia: non le piaceva stare in camera oscura, preferiva stare all’aperto…
Ho detto così? In effetti è vero, l’aspetto artigianale m’interessa nella misura in cui mi serve.
Allora perché usa solo la fotografia analogica? Il digitale, in fondo, può essere più comodo…
Ma io non ho una preclusione ideologica al digitale, che tra l’altro ti permette di fare foto in tutte le condizioni, per esempio anche quando la luce è scarsa. Diciamo che a esserne rovinati sono i fotografi, mentre nel campo della narrazione il digitale funziona bene. E poi ho paura che si possano perdere nel computer (nel frattempo Mario ha salutato Giovanni Marrozzini, un giovane fotografo, interessandosi dei suoi progetti futuri: gli stringe la mano quando sente che anche lui usa la pellicola).
Si considera un uomo di talento, un artista o che cos’altro?
Sono un sostenitore delle attività plurime, anche se nella vita ho fatto in prevalenza foto. Per esempio, mi piace molto la radio (è appena tornato dalla festa per i sessant’anni di Radiotre). In generale, non voglio essere incastonato in un cassetto, anche se in Francia sono stato classificato come fotografo letterario per un solo scatto (la celebre foto che ha segnato la nascita del gruppo del Nouveau roman). Devo dire però che quando do consigli ai giovani dico sempre di trovarsi una loro nicchia, cioè di specializzarsi in qualcosa che nessun altro sa fare.
Che cosa l’appassiona particolarmente?
Senz’altro la politica, anche se i romanzi spesso attraversano le epoche meglio di quanto facciano i libri storici (poco prima si è accorto che ha dimenticato da qualche parte un libro in francese di Vasilij Grossman e manda Carlo a cercarlo che per fortuna lo ritrova. Quindi lo mostra al giovane fotografo e ai suoi amici). Due anni fa sono stato annoverato, chissà perché, in un lotto di intellettuali (c’era anche Edoardo Sanguineti che Mario ha fotograto negli anni Sessanta) per parlare durante un programma radiofonico di cinque libri per me significativi.
Posso saperne i titoli?
Certo, sono tutti da consigliare ai lettori: Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi, La luna e i falò di Cesare Pavese, Il deserto della Libia di Mario Tobino, Autoritratto di un reporter di Ryszard Kapuściński e Pappagalli Verdi di Gino Strada.
Ha realizzato un reportage dall’Afghanistan visitando l’ospedale di Emergency: perché consiglia il libro di Strada?
Sa che cosa sono i pappagalli verdi? Sono mine anti-uomo di fabbricazione sovietica, ma in Afghanistan se ne trovano anche di italiane: si tratta delle pericolosissime Valmara (in una sua foto si vede un bambino afghano che ne tiene una in grembo come fosse un giocattolo).
Ha fatto il partigiano quand’era molto giovane. Che ricordo ha di quella esperienza?
Avevo diciassette anni, sono stato in Val d’Ossola per quattro mesi fino al grande rastrellamento del ’44: mentre la vivevo non mi rendevo conto di quel che rischiavo. L’ho capito dopo. Una volta ero a Mathausen e guardando nel sacrario degli italiani, ho visto la piccola foto di un ragazzo nato il 6 maggio del ’28 come me: lui era morto, io no. È stato un colpo molto forte.
Il telefonino di Mario squilla più volte finché decide che sia meglio spegnerlo. Non riesce a schiacciare il tasto giusto, così fa in tempo a organizzare una serata a casa sua rinnovata in “stile Rive Gauche Cinquanta” forse in ricordo dei suoi quasi quarant’anni vissuti a Parigi, con il suo amico scrittore Angelo Ferracuti. Soprattutto, comunica alla sua compagna e a una giovane amica dove si trova il bar in cui sta bevendo il suo thè “infuocato”. Mentre sta dicendo che tra le sue “attività plurime” gli piace cantare, ballare e conclude lanciando un’appassionata dichiarazione d’amore al Genoa, la sua squadra del cuore “filosofica” (chissà poi perché), arrivano le due donne e Mario chiede, non si sa bene a chi: “Non trovate che ci sia un’atmosfera erotica?”.
La risposta esatta è certo che sì: c’è tutto l’eros di una vita speciale, passata a illuminare volti di povera gente o di personaggi famosi senza neanche bisogno del flash.

venerdì 11 dicembre 2015

Stoner, post bis sul concetto di eroismo

Sono costretta a dedicare un secondo post a Stoner, il romanzo di John Williams che ho finito di leggere ieri pomeriggio.
Sono un tipo impulsivo (non so se si era capito) e in più sono - ancora per poco - una giornalista: le due cose messe insieme - ahimè - producono pressappochismo.

Sì: è vero che John Mc Gahern attribuisce al protagonista del bellissimo libro la patente di eroe. Prima di lui, però, l'aveva fatto colui che l'aveva inventato.
Per rendere onore e giustizia a questo scrittore così enorme, vi traduco qui il brano dell'intervista uscita pochi anni prima della sua scomparsa (avvenuta nel 1994), nella quale Williams spiega meglio di come potrebbe fare chiunque altro chi sia per lui Stoner.

Vado. E scusatemi per la traduzione imperfetta (meglio, spero, di quella di Google).

Io penso che sia un eroe vero. Molte persone che hanno letto il romanzo credono che Stoner abbia avuto una vita così triste e brutta. Io penso invece che ne abbia avuta una davvero ottima. Di sicuro, molto migliore di quanto capiti alla maggior parte della gente. Ha potuto fare quel che voleva fare, ha provato anche qualche sentimento verso quello che faceva, ha esperito in qualche maniera il senso dell'importanza del lavoro che svolgeva. E' stato un testimone dei valori che contano... Il punto centrale nel romanzo per me è proprio il senso di Stoner per il lavoro. Insegnare per lui è un lavoro - un lavoro inteso nel senso più buono e onorevole della parola. Il suo lavoro gli ha dato un particolare tipo di identità e lo ha reso ciò che è stato... E' l'amore inteso in questo modo che è essenziale. E se si ama qualcosa, lo si capirà. E se lo si capisce, s'imparerà molto. La mancanza di quell'amore si traduce in un cattivo insegnante... Nessuno può mai conoscere tutte le conseguenze di ciò che si fa. Io penso che tutto si riassuma in ciò che ho cercato di fare in "Stoner". Non si può che seguire la propria fede. Ciò che conta è permettere alla tradizione di andare avanti, perché la tradizione è civilizzazione".

Immagino - ma correggetemi se sbaglio - che la parola "tradition" significhi qualcosa come obbligatorietà dell'istruzione (education all'inglese, che è ben di più), come unico baluardo contro la barbarie e l'ignoranza (all'italiana maniera).
Insomma: Stoner, con il suo lavoro, ha permesso ad altre persone di dotarsi di qualche strumento per conoscere se stessi e il mondo senza paraocchi.

Credo che chi fa bene il suo lavoro, fosse pure il calzolaio, compia un'analoga operazione.
Perciò la vita del protagonista di questo malinconico, a tratti straziante libro, è stata bella ed eroica.
E anche se quasi nessuno dei colleghi e pochi dei suoi studenti sembrano sapere chi fosse davvero, è ben curioso il destino che, al di là delle pagine, questo personaggio letterario ha avuto realmente.

John Williams, probabilmente, ci sta ridendo su.

Rileggendo l'introduzione di John MCGahern, ho poi fatto una seconda scoperta: gli altri romanzi di Williams sono completamente diversi da Stoner.
Aspetterò giusto un attimo, ma credo che me li procurerò.

A voi buon lavoro.

giovedì 10 dicembre 2015

Stoner, il senso di una vita


Sto per compiere uno sforzo quasi sovrumano: offrirvi una recensione a caldo di Stoner, il romanzo di John Williams scritto nel 1965, diventato un caso letterario solo un paio di anni fa.
Personalmente, ne sono venuta a conoscenza solo il mese scorso, quindi ben dopo il periodo in cui, persino sui giornali italiani, notoriamente in ritardo sull'attualità che conta davvero, ne era giunta l'eco.

Ho appena riletto l'intervista a Ian Mc Ewan a La Repubblica, in cui lo scrittore inglese spiega come mai ne sia rimasto completamente conquistato. Leggetela pure voi, se vi pare.

Qui invece vi dico perché, se ne avete il coraggio, dovreste farvene conquistare anche voi.

In 288 pagine - quante sono nella versione inglese che orgogliosamente sono riuscita a finire quasi senza aprire il vocabolario - scorre una vita minima solo all'apparenza.
William Stoner è un professore di letteratura all'università del Missouri, proveniente da una famiglia contadina. Alla materia che poi insegnerà si appassiona durante gli studi di agraria da un giorno all'altro, quasi senza rendersene conto.

Ed è proprio nella parola passione la chiave di tutta la sua storia. E nel suo opposto: l'indifferenza, forse si potrebbe usare meglio la parola inglese "ignorance", di cui Williams e il suo Stoner parlano verso la fine in modo preciso.

In tempi di condivisioni all'eccesso delle proprie superficiali emozioni, leggere di uno che a un certo punto della vita si accorge di non essere affatto diverso dai genitori e dai genitori dei genitori e via andando ancora più indietro nelle generazioni, nella capacità, attitudine del sangue direi meglio, di mostrarsi al mondo con una specie di maschera neutra, mi ha fatto pressoché sobbalzare.

Conosco persone che fanno la stessa cosa, educate a un riserbo di sapore contadino che ha tutta la mia ammirazione. Un pochino così è anche mio padre. E forse pure il solito Maestro astigiano, che pure di estrazione contadina non è.

Stoner, alla fine, è un eroe, e sono assolutamente d'accordo con lo scrittore che ne ha curato l'introduzione nella versione che ho io del romanzo (John McGahern) sul fatto che se tristezza c'è un questa storia, è la tristezza di ogni vita. Di quella di ciascuno di noi.

Per apprezzarlo, però, dovete essere disposti a guardarvi dentro e a riconoscere il senso di "failure" (c'è scritto proprio così) che ci afferra più o meno tutti nei rapidi bilanci che facciamo tra un anno e l'altro.

Il protagonista si interroga se non si possa giudicare così la sua vita verso la fine (non vi dico in quale circostanza, potreste desistere dall'aprire il libro), ma ancora più sorprendente e, direi quasi rasserenante nella sua segreta ironia, è la conclusione alla quale arriva.

Nella vita è riuscito a ottenere proprio tutto. Esattamente tutto quello che ha desiderato: insegnamento, matrimonio, casa, figlia, amante, letteratura, scrittura. Pure sul suo nemico collega di università riesce a ottenere una specie di vittoria morale.

In Stoner domina dunque una certezza: niente ha senso se non la vita in sé. Basta solo esserne consapevoli, semmai sta tutto lì il problema. Il protagonista di questa commovente storia è uno di quei fortunati che l'hanno capito per tempo.
Chissà che cosa ne pensava veramente il suo autore, che è stato un professore di letteratura come il suo personaggio, ma ha precisato non esservi alcun elemento autobiografico in quel che ha lasciato in eredità a noi posteri.

Sinceramente, io ci credo poco. Certo, uno scrittore degno di questo nome è sempre in grado di mescolare la realtà con la finzione facendo affidamento sulla propria abilità con le parole.
Ritengo tuttavia che si riesca a essere credibili solo quando si racconta qualcosa che si conosce molto bene. Intimamente bene.

Intimità. Ecco: Stoner è una di quelle storie da assaporare in solitudine, facendosi anzi vanto di essere capaci di starsene lì minuti, ore, a dialogare in silenzio con frasi e periodi così ben allineati.

Non ho idea di come siano gli altri romanzi di Williams.
Sono in ogni caso davvero grata al gruppo di lettura creato da Romina Coccia nel piccolo negozio Mingus di Porto San Giorgio per aver scelto questo suo romanzo come libro del mese.
Non so se agli altri abbia fatto lo stesso effetto che ha fatto a me.

Ne parleremo martedì prossimo, giorno previsto per l'incontro-resoconto.
Spero di poterci essere.

mercoledì 9 dicembre 2015

La giusta terapia anti sindrome da Calimero


Ho scattato la foto che ripubblico sopra esattamente quattro anni fa, l'anno dei miei primi quaranta (e passa), lo stesso in cui ho conosciuto Bibi Iacopini, prima, e Patrizia Di Ruscio, dopo.
Sto parlando dei due organizzatori di #Intanto, la mostra collettiva natalizia che ha trasformato uno spazio "temporaneamente" non utilizzato come l'ex mercato coperto di Fermo in un mega salone espositivo per i molti talenti e artisti provenienti in massima parte dalla provincia.

Tolta la prima edizione (in cui non conoscevo ancora praticamente nessuno in città), ho partecipato sempre. Anzi: ho osato partecipare.
Perché scrivo così? 
Perché, obiettivamente, il livello di alcuni espositori è notevole (basti pensare a Pierluigi Savini tre anni fa, per citare un vero artista. Ma ne ho in mente anche altri). 
Quest'anno, poi, è stato previsto anche un omaggio a Mario Dondero e sono sicura che diverse cose mi sorprenderanno. E forse trasmetteranno un po' di malinconia.

Sono giorni abbastanza opachi, d'altra parte. Quattro anni fa è cominciato il mio declino professionale e anche se, contemporaneamente, ho scoperto di non aver del tutto perso la creatività che mi attribuivo in anni più verdi, il bilancio continua a sembrarmi negativo.

Lagnarsi è il peggio che si possa fare, quindi soprassiedo.
Durante il ponte appena passato, mi ha tuttavia fatto una certa impressione notare quanto siano cresciuti i nipoti e quanto la vita vada avanti per tutti, me compresa.

Quattro anni fa non avrei mai immaginato di perdere mia madre, né di ritrovarmi a fare, certe volte, da madre a mio padre. Quest'ultimo, in verità, mi dà ancora un sacco di dritte (e di punti), ma è evidente che sia più fragile, anche se non sempre riesco ad accettarlo. 
Quanto vorrei che si potesse tornare indietro, in alcuni momenti.
Come vorrei non sentirmi così inutile, in certe situazioni. 

Sapete che cosa penso davvero?
Sono afflitta da una specie di sindrome da Calimero.
In alcuni momenti, diciamo in concomitanza con il dannato ciclo femminile, mi pare che gli altri siano tutti migliori di me, più realizzati e felici di me e che mi tengano a distanza apposta per questo.

Non voglio pensare a che cosa farò quando saranno sparite le crisi mensili per l'avvento della menopausa.
Sicuramente troverò un'altra scusa per alimentare il pulcino nero che è in me.

E meno male che ci ironizzo su.

Ho passato troppo tempo da sola, a cantarmela e suonarmela davanti a uno schermo, alternando le chiacchiere di passaggio con i negozianti alla solitudine domestica.
Studiare per il concorso, alla fine, mi ha fatto bene anche perché mi ha costretta a dare una finalità a questi lunghi anni di distanza da tutto

Però mi sono chiesta oggi (e alle altre crisi mensili precedenti): sarei capace di reggere alle relazioni sociali degli ambienti di lavoro? Quanta fatica farei a riadattarmi a stare in mezzo alla gente non cinque minuti, ma ore?

L'aspetto più terribile del sentirsi Calimero è proprio questo: mi prenderebbero ancora di più per un'aliena? Riuscirei a nascondere il senso d'inadeguatezza alla vita che, temo, mi si legga in faccia?

Gli altri (le altre) si faranno tutte queste pippe mentali o è davvero arrivata l'ora di darsi alla pesca?

Non credo che esistano risposte, però avevo bisogno di questo breve momento di verità.
Oltre i sorrisi che uso come divisa d'ordinanza.

mercoledì 2 dicembre 2015

Raccontare ciò che si sa. E ricominciare



Non immaginavo che facendo stretching mi venisse una gobba così, ma comunque non mi posso lamentare. Sono stata immortalata in questa guisa ieri sera nella mia amata palestra, durante la lezione con Rita Sacripanti, l'insegnante di fitness più tosta che io abbia mai conosciuto. Una maga, oltretutto, degli abbinamenti tutina-calzini-fasciapercapelli-scarpedaginnastica.

L'autrice dello scatto è Tiziana Bastiana, l'altra insegnante appartenente all'Associazione sportiva Fermo 85, che di solito incontro il lunedì e spesso il giovedì (in alternanza con Rita), la sola che sia riuscita a farmi volteggiare (all'incirca) e salire e scendere dallo step senza eccessiva ansia.
Alle mie ore nella palestra di Fermo ho già dedicato almeno un paio di post, per cui cerco di non ripetermi.

Ieri e l'altro ieri, però, ho finalmente messo in pratica un proposito che maturavo da tempo: fotografare la lezione, le donne che dividono con me gli allenamenti e le istruttrici. Soprattutto loro.
Il tutto (o meglio: una piccola parte del reportage nipponico che ultimerò domani sera con la lezione di zumba, che io non frequento, ma che è assai meritevole d'attenzione) finirà nella mostra natalizia all'ex mercato coperto della cittadina del Girfalco.

Ho avuto l'idea giovedì scorso, praticamente quasi in zona Cesarini (la mostra si apre il 12 dicembre prossimo), dopo giorni durante i quali mi scervellavo nel tentativo di escogitare qualcosa di originale.
Ballonzollando a ritmo di musica, mi si è accesa la lampadina di Archimede: falla semplice, racconta ciò che sai.

E così sto facendo, anche con un certo orgoglio e anche se l'impegno e la fatica ci sono ugualmente, quasi non sembra di provarli.

Più o meno gli stessi sentimenti ho avvertito stamattina pagando l'ultima rata che sancisce definitivamente l'acquisto del mio appartamento.
Sono, come potete immaginare, preoccupata per il conto che via via scende, ma al contempo sento fortemente di aver fatto la cosa giusta.

Quindi mi allungo, oltre i miei 152 centimetri, respiro più profondamente e attendo con fiducia il domani.
E a chi crede che lasciare il giornalismo significhi mollare, beh, non è così.
Significa con coraggio ricominciare.
Da qualche parte qualcuno sta sorridendo con me.

Hop hop...