venerdì 28 aprile 2017

Ewwa e il concorso di scrittura per le tastiere fumanti


La signora in maglia verde che firma il libro è la scrittrice Loretta Emiri, amica mia e degli Indios della foresta amazzonica, con i quali ha vissuto per una ventina d'anni tra gli anni Settanta e Novanta.
Non sono riuscita a intervistarla anche sul suo ultimo lavoro, ossia "A passo di tartaruga", ma per sua fortuna Loretta ha ottenuto articoli e recensioni certamente più importanti di quelli che avrei potuto scrivere io.
Ho scelto di pubblicare (o forse ripubblicare) la foto che le ho fatto durante l'incontro alla Casa della Memoria di Servigliano (Fm) nel febbraio dell'anno scorso per parlare di donne che usano la penna come modo per stare al mondo.

Loretta è una di quelle cui riesce particolarmente bene, considerati i non trascurabili sacrifici cui si sottopone ogni giorno per restare incollata alla tastiera e/o per non soccombere a quella vocina disfattista che ronza nelle orecchie di tutte le persone naturalmente portate a non prendersi troppo sul serio. Per fortuna, quel fastidioso Grillo parlante non ha avuto la meglio, per cui possiamo godere delle sue parole.

Oltre a lei, ce ne sono in giro di valenti, ciascuna nel proprio ambito di competenza. 
Sono dispiaciuta, per dire, di non poter ascoltare domani alle 18.30, alla sala Castellani di Porto San Giorgio, Alice Basso che parlerà del mestiere di ghost-writer.
Non vi nascondo che ho pensato spesso che avrei potuto buttarmici pure io, anche se, ovviamente, bisogna che ci sia uno scrittore-scrittore che mi ritenga in grado di prendere i suoi panni. 

Sono sicura che verranno fuori dettagli interessanti dall'incontro di domani, l'ultimo della serie di cinque (se non vado errata) organizzato dall'associazione European Writing Women (Ewwa) con il patrocinio dell'assessorato comunale alle Pari opportunità, intitolato "Non solo rosa".

Oltretutto, dalla foto del comunicato stampa che mi hanno inviato, Alice Basso pare abbastanza giovane da poter dare a chi è più vecchietto di lei la giusta riverniciata alle proprie idee sulle insidie e le opportunità offerte dal mondo editoriale. Chi può ci vada, insomma.

A proposito di dritte per le tastiere fumanti (mamma mia che brutta metafora), segnalo la novità offerta proprio dalla rete delle scrittrici, blogger, sceneggiatrici e traduttrici di cui fanno parte anche le promotrici della rassegna letteraria sangiorgese, ossia Christina Assouad ed Eleonora Vagnoni, rappresentanti per Ewwa delle regioni Marche e Abruzzo.

Si tratta del loro primo concorso letterario nazionale (aperto a donne e uomini) destinato alle storie di rinascita al femminile, con particolare attenzione a quelle riguardanti donne che hanno subito violenza. Oltre ai premi principali assegnati alle prime tre classificate, in altri termini, Ewwa ha previsto cinque menzioni speciali per articoli, reportage, saggi e trasmissioni giornalistiche che si sono occupate di violenza di genere.

Non ci sono soldi, questo è bene saperlo, ma non si paga per partecipare e in ogni caso già essere pubblicati in cartaceo e digitale (per chi ottiene il primo premio) e ricevere un e-reader per leggere in maggiore scioltezza non è affatto male.

Per ulteriori dettagli c'è un link: qui vi basta sapere che c'è tempo fino a fine anno per mandare i propri lavori.

A mio modesto parere, chi ha qualcosa di significativo da raccontare conviene che si butti a prescindere. Datemi retta: non esiste l'occasione della vita, ma tante mini-chance da... sbranare.

Roar.

Alla prossima.


martedì 25 aprile 2017

Dal mare a Fermo. E ritorno


Sono un tantino stanca, quindi perdonatemi per il tono un po' dimesso.
Le ultime due giornate sono state piuttosto strane.

La mattina di domenica ho partecipato alla Camminata delle donne con un po' di amiche di palestra e, oltre a fare la figura dell'idiota con lo speaker della manifestazione, con quella storia della colazione sbagliata come causa probabile della mia nausea dopo appena dieci minuti che correvo, ho rischiato pure di mettermi a piangere mentre ascoltavo la testimonianza di una donna che ha scelto di rasarsi a zero piuttosto che mettersi parrucche o fazzoletti per nascondere gli effetti della chemio. Una tizia affianco a me mi ha abbracciato e mi ha sussurrato: "Anche io ci sto passando". Mi sarei voluta sotterrare. Ma da un altro lato, se posso esserle stata di aiuto come spalla, va bene così.

Mia madre non ha perso i capelli, le si erano giusto un pochino diradati. Ma anche questo non è il punto.

Volevo esserci a quella Camminata, che ho scoperto essere legata al reparto di oncologia dell'ospedale di Fermo la scorsa edizione, l'ultima (almeno credo) a Porto Sant'Elpidio, dopo lo spostamento a Lu Portu, la cittadina in cui vivo.

Forse ero in ansia anche per questo motivo e poi perché, in fondo in fondo, sono una persona competitiva. Ho in mente almeno due episodi della mia infanzia che testimoniano il mio desiderio, sempre negato verbalmente, di primeggiare. Ma ve li risparmio.

Spero che la piantina grassa che ho comprato allo stand dell'Anpof (associazione Noi per l'oncologia del Fermano) attecchisca e diventi grande. L'aloe sul balcone dei miei sta magnificamente.

Spero ancora di più che quell'atmosfera gioiosa dell'altra mattina produca effetti duraturi in chi lotta ogni giorno, non solo per via della malattia.

Riesco solo a lanciare preghiere monche e banalotte, ma non ho ricette né strategie generali per affrontare il dolore.

Nella serata di domenica ho saputo della morte di Teo Tini, un bibliotecario di Fermo che ho solo sfiorato negli anni passati, ma che era riuscito a lasciarmi una forte impressione.
Difficile incontrare tutte insieme umanità, intelligenza e ironia: quando capita, non te lo scordi più.

Molto sentiti i ricordi dei suoi amici stamattina durante il funerale: mi ha colpito anche il sacerdote, che ne ha parlato come si farebbe tra intimi, non da un pulpito.
Ho anche avuto la sensazione che nessuno avesse bisogno di nascondersi nel parlare di lui.
Teo evidentemente sapeva leggere negli altri e il risultato si è visto nell'autenticità ritrovata in un rito che troppe volte suona stucchevole.

Il funerale di mia madre non è stato così vero, anche se il parroco, che ne raccoglieva le confessioni e che la conosceva da molti anni, non credo fingesse. Semplicemente non la conosceva davvero perché mia madre era schiva, molto schiva, molto, troppo forse, trattenuta. Non amava fare esibizione di sé, in altri termini, ma spesso finiva per censurare il suo innato istinto da leader.

Mi resterà sempre il dubbio che sia andata davvero così: che si sia ammalata per non aver creduto a sufficienza nella sua naturale capacità di primeggiare. Ma non so, forse proietto e basta quel che leggo in me. Che leader non sono: ho un altro temperamento, nutrito di chiaroscuri come il suo, ma molto più superficiale.

Tornando al bibliotecario e all'immagine che mi hanno restituito i tanti volti afflitti che lo salutavano, penso che lui fosse di una pasta speciale, silenziosa e attenta, che in qualche modo resterà.

Pur nella tristezza della circostanza, sono stata contenta di essere lì e di rivedere vari volti noti dei miei anni trascorsi a Fermo.

Verso il comune sul colle nutro sentimenti ambivalenti: non riesco a non associarlo ai fatti più dolorosi (è inutile negarlo) della mia vita marchigiana, ma d'altra parte, proprio per la loro estrema importanza, ogni volta che ne ripercorro le vie del centro storico, me ne ridiscendo al mare diversa, con un peso specifico maggiore.

Dicevano che Teo si era innamorato del mare di queste zone la prima volta che le vide durante il militare. Qualcosa di simile è successa anche a me durante la scuola di giornalismo.
Mi domando ogni tanto se davvero non sia tutto scritto.

Poi vado avanti, com'è ovvio.
Avverto però, lo ammetto, un legame con i volti, i suoni e le pietre di quelle salite e discese. Sto cercando di metterlo a fuoco, forse per farci pace o per chissà quale altra ragione.

Staremo a vedere.
Per il momento, meglio guardare il mare il più possibile da vicino, sotto quei fuochi che la notte scorsa l'hanno illuminato a giorno, costringendo i miei gatti a nascondersi in fondo al letto.

Ne ho sentito uno con un piede, andando a dormire.
E ho sorriso.

venerdì 21 aprile 2017

La vita che ho deciso arriverà: grazie, Paola Turci


Ho fatto una full immersion nella musica di Paola Turci per motivi di lavoro.
Mi ricordavo perfettamente Bambini che, non so dirvi perché, ma mi ha sempre colpito.

Quasi quasi mi vergognavo ad ammettere che mi piacesse, per quella forma di snobismo di sapore universitario dalla quale faccio ancora fatica a liberarmi.

Ebbene: ora lo dico.
Paola Turci fa un ottimo pop, nutrito tra l'altro da una grande voce e una notevole professionalità.

Ce ne fossero di cantautrici così in questo Paese di dilettanti.
Non che abbia nulla in contrario sul legittimo desiderio di cimentarsi con le arti: l'importante è sapere che c'è una bella differenza tra chi conosce il mestiere grazie anche alla lunga gavetta che la medesima Turci dice di aver fatto, e chi ne fa il più appassionato degli hobby.

Ho scelto questa canzone dell'album uscito lo scorso 31 marzo intitolato Il secondo cuore perché ne cita le parole in un verso. Avrei voluto metterci direttamente l'omonima che ha scritto per lei Enzo Avitabile, ma non sono riuscita a trovarla. 

La Turci mi ha spiegato che cosa significhi per lei questa espressione (lo sta dicendo a tutti i media che la stanno intervistando in questo periodo, per la verità), ma io gliela rubo per i miei tristi scopi da blogger.

Non si rinasce, almeno, non si rinasce una volta sola, considera la cantautrice, ma tutto ciò che siamo è frutto di ciò che siamo stati, quindi di continue trasformazioni. O rinascite, se ci piace di più.
Cambiamo, rinasciamo continuamente, fino alla fine, insomma.

Bella scoperta dell'acqua calda. 
Può essere. Però è vero che ci sono alcuni momenti speciali in cui avvertiamo più profondamente il processo di cambiamento. O di liberazione da inutili fardelli

Sento molto questo genere di messaggio nell'album della Turci, indipendentemente dagli arrangiamenti che non sempre mi convincono, in qualche caso usati (a mio avviso) per strizzare l'occhio ai consumatori di radio commerciali.

Mi piace la sua energia, mi ci riconosco, o forse aspiro a qualcosa di simile pure per me.

Credo dipenda dalla sua maturità come donna, penso davvero che il suo "fatti bella per te" possa significare molto per chi sta facendo i conti con il tempo che passa.
Il messaggio sarà anche semplice, detto diversamente, ma funziona, proprio perché detto da questa professionista dello spettacolo. 

Vent'anni fa, esattamente in questo giorno, mi sono laureata.
Doveva essere una data felice, di quelle che ti proiettano nel futuro.

Ci ho messo almeno una decina d'anni per superare il grosso delle conseguenze della mia prima vera crisi di crescita.
I dieci successivi mi sono serviti per recuperare il sorriso, lo stesso, ebbene sì, che ho visto nelle interviste e nelle clip di questa signora della musica.

Non si guarisce mai del tutto, ma niente, davvero niente, resta com'era. Per fortuna.

E' proprio questo passaggio della canzone che le ha scritto Avitabile ad avermi colpito di più.
In questo, secondo me Turci & co ci hanno visto giusto.

Quando capisci che va bene così, in conclusione, ossia quando lasci cadere illusioni e falsi miti, è proprio allora che tiri fuori il meglio di te.

Certo: ci vogliono denari o altro genere di risposte concrete, ma mi sono convinta da sola, già da prima di incrociare Paola sulla mia strada, che predisporsi al cambiamento porta qualcosa.

Ti aspetto al varco, vita che ho deciso.

mercoledì 12 aprile 2017

Mirkoeilcane e i gggiovani (resistenti) dell'Italia di oggi



Vedi i casi della vita.
Intervisto un'artista famosa romana per un'occasione speciale che si è tenuta a Recanati una decina di giorni fa e mi ritrovo impallinata ad ascoltare la musica di Mirkoeilcane
A parte il nome d'arte che mi lascia un po' perplessa (nel trascrivere i nomi dei sedici finalisti di Musicultura 2017, l'occasione speciale di cui sopra, avevo cancellato proprio il suo, convinta che fosse il titolo di un pezzo, mica un autore in carne ed ossa), di questo cantautore trentunenne romano che nella vita si chiama Mirko Mancini mi convince praticamente tutto.

Perché, ok, non so nulla di musica, suonavo male pure il flauto delle medie, ma è riuscito ugualmente a lasciarmi di stucco il suo talento mischiato a una notevole intelligenza.
Mirko mi ha passato gli Mp3 del primo album omonimo fatto in casa, quindi, secondo quanto dice lui, imperfetto. I suoi testi sono in rima baciata, vagamente rappeggiati in molti casi, in altri dal sound anni Ottanta che fa molto mia adolescenza (e sua nascita).

Ci deve essere anche una ragione inconscia sul perché la sua musica mi abbia colpito così tanto, per farla breve.

La canzone che ascolterete sopra racconta comunque una generazione che non conosco.
Quasi tutti i suoi testi non mi riguardano da vicino, se non per un punto: quel senso di invisibilità che l'autore si sente addosso o che affibbia ai suoi alter ego in musica e che sovente si mescola alla precarietà del lavoro.

A Musicultura Mirkoeilcane ha portato, come tutti gli altri partecipanti, due canzoni: a colpire la giuria è stata la seconda che si intitola Per fortuna, che, obiettivamente, è molto originale. La prima si chiamava Salvatore.

Ed è proprio di questa che volevo parlare.
Il protagonista della favola suonata è un cassiere di un supermercato, uno che batte i prezzi senza un'oncia di entusiasmo, mentre la gente e la vita gli scorrono davanti.
Nel grigiore generale, Salvatore si lascia però ancora un piccolo margine per sognare una via d'uscita, fosse pure solo ideale, componendo le sue canzoni.

Una storia minima, triste e demotivante, direte. Eppure in quelle poche parole c'è tutta la poesia della nuova Italia, fatta di ragazze e ragazzi che, magari il sabato sera, si mettono gli stessi pantaloni e fanno conversazioni banali, ma che in verità sono solo lo specchio di un Paese che vorrebbe distruggerli e basta. Perché tra loro ce ne sono tanti, ne sono certa, che non vorrebbero affatto passare da una serata uguale a un'altra con lo stesso risvolto e mocassini senza calze, a parlare di piastre per capelli o di nuovo look da postare sui social.

Mirko me l'ha detto: è un tipo polemico. Io avrei voluto rispondergli: e meno male.

Peccato che oltre a questo non avrei comunque potuto dirgli altro, se non, forse, di non mollare. Oppure avrei potuto suggerirgli di buttarsi prima possibile sul suo piano B, ossia fare il cittadino del mondo, pagandosi i viaggi lavorando qui e là.

Ma non lo penso davvero.
Secondo me, quel ragazzo, come gli altri (e le altre, ovvio) dotati di qualcosa da dire devono prendersi lo spazio che meritano non dico subito, ma almeno in tempi ragionevoli per non passare direttamente dall'infanzia alla tomba.

Ce la farà, non ce la farà?
Detto diversamente: ce la faremo, non ce la faremo?

Mi sta scoppiando la testa a forza di pensarci, ma temo di non conoscere la risposta.
E se la conoscessi sarebbe sbagliata, come avrebbe detto Quelo.

Ma la stagione non è adatta alla depressione.
Meglio tornare a parlare di rinascite etc etc.

In bocca al lupo a tutti noi.

sabato 8 aprile 2017

Nega, ridi e ama, il consolante (e autentico) libro di Rossella Boriosi


La mia settimana si è aperta all'insegna della confusione e così è andata avanti almeno fino a ieri pomeriggio. Il merito del mutamento in corso (un po' confusa lo sono ancora e d'altra parte lo sono sempre) è del libro "Nega, ridi e ama", di cui vedete sopra la copertina, scritto da Rossella Boriosi.

L'ho acquistato al primo dei cinque appuntamenti di "Non solo rosa", una rassegna di letteratura al femminile organizzata a Lu Portu da un'associazione di scrittrici, blogger e semplici appassionate di parole (European writing women association) con il patrocinio del Comune e dell'assessorato alle Pari Opportunità.
L'avevo preso sospinta da un'istintiva simpatia per l'autrice e per il coraggio, in verità molto naturale, con il quale ha scelto di parlare della sua menopausa.

Il giorno che l'ho vista, peraltro, non avevo idea di che cosa trattasse il suo libro, ma una vocina interiore mi stava dicendo da giorni che avrei fatto bene a leggerlo.
Ieri l'ho divorato.

Al di là dell'argomento in sé, che non nascondo mi spaventi alquanto, ho apprezzato la faccenda delle fasi attraverso le quali dovremmo affrontare tutti i passaggi più difficili della nostra vita.
Rossella raccontava di essersi ispirata alla teoria di Elizabeth Kubler (con l'umlaut sulla u) Ross sull'elaborazione del lutto, un'esperienza che conosco da vicino e che mi fa a tratti ancora male.

Quando ci capita di perdere qualcuno (o, nel caso della fertilità, qualcosa), dice la Boriosi, innanzitutto neghiamo il problema. Poi ci arrabbiamo (seconda fase), quindi cominciamo a farci i conti (negoziazione, terza fase), ci deprimiamo (quarta), ci ripigliamo (accettazione, quinta) e infine, se tutto va bene, rinasciamo.

La sesta fase, se non vado errata, è stata aggiunta dall'autrice.

Avendo scritto per anni su un blog aziendale che parlava di terza età e stili di vita, ho usato (e forse abusato) della parola "rinascita", soprattutto in periodo pasquale. Dopo la morte c'è la resurrezione, appunto una rinascita, una metafora usata non solo nel Cristianesimo per raccontare la ciclicità dell'esistenza.

Sono abbastanza sicura che questa cosa abbia un senso, soprattutto per noi donne. Ed è altrettanto plausibile che una volta superata la fase fertile della vita si vivano altri tipi di ciclo.

Mi piace la visione orientale non medicalizzata della menopausa, di cui parla Rossella. E pure io, in generale, trovo spesso più affascinanti le donne anziane delle giovani. Capisco però quanto sia complicato accettare età e fallimenti veri o presunti quando capisci che tra le gambe, accidenti, il sangue non uscirà più.
Ci si mette un po' ad abituarsi di essere uscite dall'infanzia, il pensiero di essere passate dall'altra parte della vita non è granché confortante, credo, nemmeno per chi pratica il Q Gong con grande impegno occidentalissimo (divertente il racconto che ne fa l'autrice che tenta di sperimentarlo, addormentandosi di brutto, su una spiaggia salentina).

Ragiono sul tempo che passa praticamente da sempre. La perdita di mia madre mi ha dato una scrollata non da poco, ma se negli ultimi due anni ho per lo meno fatto chiarezza su ciò che non voglio diventare di qui a qualche anno, temo di essere ancora lontana dalla rinascita di cui parla Rossella.

Occorre che mi prepari al cambiamento che verrà (ho assistito all'incontro con l'autrice il primo giorno di fiume rosso, ne ho letto le cronache il mese seguente il quarto già in remissione), ma intuisco che sarei davvero una persona nuova se la smettessi di farmi sovrastare dall'ansia.

Anche perché, quando eccedo con la finta organizzazione che do alle mie giornate, succedono cose come quella di ieri, ossia andare a un convegno una settimana prima di quella stabilita dal calendario. Ci rido su, ovvio, ma è stato in quel momento, dopo una passeggiata al sole con le tempie pulsanti per il raffreddore, che ho scelto di infilarmi sotto una coperta e di finire il libro di questa brillante e intelligente scrittrice.

Non si ride a crepapelle: almeno a me non è successo, perché ne avvertivo comunque la sottile nota drammatica. Invecchiare fa schifo, suvvia. Al contempo, mi sono lasciata andare alle sue parole con gentile senso di resa. Se un giorno un'estetista dovesse dirmi le stesse tremende verità sulle clienti post-climateriche non credo che ci tornerei mai più. Anzi: sono ben felice di farmi i peli da sola da tempo immemorabile. Sono ancora traumatizzata da quanto ebbe a dirmi la placida Oriana in merito alle mie cosce forti e un po' ballonzolanti in anni ancora verdissimi: "Mica vuoi diventare come quelle vecchie con le gambe che fanno deleng deleng?". Credo sia stata l'ultima volta che mi ha visto. W il silkepil.

Detto questo, sono grata a Rossella Boriosi per avermi ricondotto alla ragione.
Qualunque cosa farò negli anni prossimi, andrà bene, purché vi sia arrivata con la giusta dose di serenità.

A tutte noi, buone rinascite (alla faccia della retorica).

martedì 4 aprile 2017

Quello che rimane di te è tanto. Sempre di più (grazie, Julico)



Stamattina ho passato due ore piacevolissime in compagnia di Julian Corradini, alias Julico, un musicista e cantante italo-argentino che ho incontrato per un'intervista che devo ancora scrivere.
Lo ammetto: mi ha conquistata soprattutto per la sua intelligenza e (certo) anche bella presenza. Mi rendo conto che i due aspetti sono profondamente intrecciati in tutti noi, ma in questo trentenne biondo dalla pelle dorata, gli occhi grandi e il fisico ben piantato a terra spiccano particolarmente. Vi assicuro che direi lo stesso se si fosse trattato di una donna: basta vederlo muoversi e parlare per capire di che cosa sto parlando.

Detto ciò, ho scelto questa canzone che già mi aveva colpito prima ancora di conoscerne la genesi per un motivo molto preciso.

Oggi avresti compiuto 75 anni. Stavo quasi per sbagliare il numero, cosa non strana per me, ma piuttosto scioccante lo stesso.
Julian (che bel nome: lo stesso del mio nipote maggiore) mi ha detto di averla dedicata alla sua nonna paterna, cugina del calciatore Omar Sivori.

Quello che rimane è negli occhi, nelle mani e nei colori di chi resta.
Nei miei colori c'è molto di te e più invecchio e più capisco quanta parte di te sia in me.

Però la musica che accompagna questo testo a pensarci bene molto malinconico è leggera, ariosa, come eri tu, segno di fuoco di primavera.

Amavi le telenovelas sudamericane e negli ultimi anni ti piaceva pure guardarle in spagnolo.
Mi è venuto in mente proprio adesso mentre scrivo.
Ti avevamo anche regalato un vocabolario e mi pare pure un manuale di questa bella lingua. O forse erano ricette. 

Eri curiosa, avresti viaggiato di più, o comunque hai sognato di farlo.
Ho già parlato del bizzarro ritrovamento tra le tue carte più segrete di un poster dell'attore di Cuore Selvaggio, quello che interpretava Juan del Diablo, un uomo scomparso prematuramente, i capelli lunghi e lisci come questo artista oriundo marchigiano. 

Ti sarebbe piaciuto conoscerlo, avresti provato la stessa istintiva simpatia che ho sentito io.

La vita è una gran cosa, cara mamma. Non dovevi andartene così presto, ma so che sei stata capace di viverla fino all'ultimo, con una dignità che mi sta ancora insegnando tanto.

Non posso andare avanti.
Quello che rimane è intorno a me, più forte che mai.

Buon compleanno.


sabato 1 aprile 2017

Ciclone Montanini: arrivederci a mai più


Sto cercando di fare ordine tra le sensazioni che mi ha provocato lo spettacolo di Giorgio Montanini visto ieri sera nel teatro di Porto San Giorgio.

Ho avuto almeno un paio di volte la tentazione di andarmene via: del resto, Montanini in persona, comico nato a Fermo nel dicembre del 1977, come si legge nella nota biografica sul sito della Rai per il suo programma "Nemico pubblico", aveva esortato a farlo nel caso in cui le sue parole fossero risultate troppo urticanti.

Però non so bene a cosa si riferisse lui, se al cosiddetto turpiloquio (una parola che amava molto la mia mai giovane prof di greco) o al senso di superiorità nei suoi confronti capace obiettivamente di indurre in chi non si scandalizza o finge di non farlo.

Da brava autistica quale sono, se dovessi analizzare passaggio dopo passaggio il suo show, sarei costretta a dargli ragione su tutto.
Sul maschilismo dell'Italia, sui luoghi comuni a proposito dell'esperienza della paternità, sui danni causati da Papa Bergoglio all'anticlericalismo in particolare dei comunisti (ma direi a tutto il mondo radical chic nel quale per molto tempo ho creduto di poter entrare pure io), sul razzismo e la mediocrità della massa e via discorrendo.

Resta però il fatto che ascoltarlo e guardarne il corpo appesantito sulla scena non mi ha dato alcun piacere.
Anzi. Mi ha reso triste e incazzata. O forse l'ordine è alla rovescia.

Alla fine sono rimasta, facendo barchette di carta con i pezzi del biglietto, sovrastata in certi istanti dalla disperazione di essere lì e non da tutt'altra parte.

Sono sicura che abbia fatto tanta gavetta e che meriti di avere una chance, ma alla conclusione buonista sono arrivata solo a chiusura dello spettacolo quando ha ringraziato il pubblico parlando finalmente in italiano (il comico Francesco Capodaglio, con il suo sketch in sangiorgese stretto, mi ha fatto ridere più di lui, detto tra noi).

Mentre lo ascoltavo concionare in vernacolo, mi domandavo se lo stia usando anche nel tour nazionale in cui è impegnato in questo periodo. Per carità: è pieno di gente di palcoscenico che usa il dialetto ed è anche vero che certi concetti passano meglio se espressi nella lingua madre.  

Resta pur sempre il fatto che un intero spettacolo in fermano (ma per me sarebbe stato lo stesso se fosse stato in abruzzese, la mia lingua madre) mi ha dato il colpo di grazia.

Sì. Credo che su tutto quel che più ha ferito la mia idea di bellezza demodé sia la rozzezza modernissima di questo esponente della stand up comedy all'italiana. Si capisce che ha talento e professionalità e non posso negare che abbia qualche ragione a sottolineare l'ipocrisia di chi gli ha chiesto di mettere l'avviso vietato ai minori come sottopancia al suo show, al contrario di quanto capita con politici e portaborse di ogni risma liberi di dire impunemente qualsiasi oscenità.

Però mi sono sentita violentata e stamattina ho pianto come non mi capitava da un po'. Sarà colpa del ciclo o del climaterio incombente (femmina, pure anziana, eh lo so, triste destino nascere in Italia), ma non prevedo di rivederlo a breve.

Ho bisogno di bellezza, lo dicevo prima, e soprattutto di speranza. Cerco ogni giorno di vincere il dolore e la morte concentrandomi sui segnali di vita che vedo intorno a me.
Di sicuro lo farà nel suo privato anche questo comico quarantenne con la figlia e la compagna: per fortuna la realtà non ha mai una sola faccia. E so anche, o comunque lo immagino perché ci sono passata pure io, che perdere un genitore quando sei ancora abbastanza nelle pesti è un colpo piuttosto duro.

Le sue battute ciniche sul cancro ne allevieranno un po' la rabbia.
Solo che l'ha passata a me. 

E questo proprio non glielo posso perdonare.