martedì 13 giugno 2017

La storia non siamo noi, ma trattateci comunque da cittadini. Lettera ai vincitori delle amministrative


Se fosse stata in bianco e nero, o di colori meno metallici, la foto che pubblico sopra sembrerebbe provenire direttamente dagli anni Settanta-Ottanta.
Invece no: l'ho scattata ieri sera, al termine dei festeggiamenti per la rielezione del sindaco di Porto San Giorgio, Nicola Loira, uno di cui, secondo lo slogan elettorale, ci si potrebbe fidare.
A sventolarla, è un anziano, verso il quale non si può che provare un misto di tenerezza e malinconia.

Era dai tempi dell'università, a inizio Novanta del secolo scorso, che non vedevo una bandiera con la falce e il martello. Di sicuro sarà comparsa mille altre volte in analoghe manifestazioni, ma credo davvero che risalga a inizio Duemila l'ultima volta che ho preso parte a qualcosa di tinta rosseggiante, pur se in circostanze completamente diverse.

Non sono tipo da folla né amo, in linea generale, le sfilate di protesta con tanto di canti e tamburi (se sei incazzato, che ti canti, mi viene sempre da pensare). Mi sentivo fuori tempo massimo già a vent'anni, quando me ne andavo con la fotocamera analogica a immortalare i manifestanti che furono. Ho ancora da qualche parte un album con gli scatti raccolti a Firenze in occasione di una protesta anti-Berlusconi. Alcuni si erano messi in posa, esattamente come fanno i partecipanti a maratone e altre amenità di massa.

Credo che stare dall'altra parte dell'obiettivo protegga anche un po'. Che ci faccio qui? Ma è ovvio, scatto foto: mica crederete che la penso come voi?

Eppure.
Era già caduto il muro di Berlino quando frequentavo le feste dell'unità e simili. Anzi: ricordo anche vagamente un comizio di Fausto Bertinotti in un prato della periferia pisana. Ci si andava per stare con gli amici (toscaneggio pure, per l'occasione), ma evidentemente il mio cuore militava da quelle parti. Di certo non sono mai stata a un'analoga kermesse missina o post-non so cosa (c'era Fini, giusto. Le mie coinquiline un giorno sono tornate a casa con le bandierine italiane e me le hanno sventolate davanti alla faccia per provocarmi. Ci sono riuscite. Lo ammetto).

Insomma, dentro di me alberga una piccola comunista, amica dei deboli e degli sconfitti.
Mi dispiace sempre assistere al rammarico di chi ha perso: mi scatta istintivamente un istinto materno difficile da controllare.

Mi immedesimo più facilmente negli sfruttati e maltrattati di rinogaetaniana memoria.
Capisco, però, che dalla tristezza altrui occorra anche difendersi per non confondere le proprie con le altrui frustrazioni.

E poi ho realizzato un'altra cosa: bisogna anche saper gestire le vittorie.

Sedersi sugli allori è, come dicevano gli antichi, l'errore più grave che si possa compiere.
L'omino che agita la falce e martello probabilmente non lo sa, ma quel partito in cui hanno riposto le speranze generazioni e generazioni di italiani è diventato ostaggio di una classe dirigente che ormai gli allori ce li ha per biancheria intima.

Non sto parlando nello specifico del piccolo comune nel quale sono venuta a vivere, ma a giudicare dalle molte facce non più giovani presenti anche tra i neo consiglieri comunali del posto in cui ho comprato casa, investendovi denari e progetti per il mio futuro di persona altrettanto anzianotta, ci vorrà ancora un po' prima che, davvero, questo Paese (non solo Lu Portu) si riscuota dalla stasi in cui è piombato ormai da troppo tempo.

"La storia siamo noi", diceva la canzone di Francesco De Gregori utilizzata per aprire la festa per la vittoria, anche quella un classico dei miei anni verdi.
Mi intenerisco e provo anche un po' pena per me stessa pensando a quando, in sella alla bici con i freni a bacchetta, troppo alta per me e pericolosissima per come la guidavo, mi avviavo verso un altro quartiere periferico di Pisa, più o meno nello stesso periodo di adesso, per andare a servire al ristorante della festa di Rifondazione comunista. Per un bel pezzo sulla canna dell'improbabile mezzo di locomozione è rimasto appiccicato un bollino con il simbolo sovietico.

Ricordo pure un cuoco, forse quarantenne, uno anzianissimo per una come me fin troppo pischella per l'età che avevo, nell'atto di avvicinarmi al busto il suo forchettone per la carne. Broccolava un po', credo, ma se ce l'ho ancora fisso davanti agli occhi è solo per il senso di vergogna che ho provato. Polla da infilzare, ingenua e sognatrice come i tanti che negli ideali propagandati dal Pci e i suoi eredi ci hanno creduto davvero.

Poi gli anni passano e la storia, per l'appunto, prende nuovi corsi e tu te ne senti ogni giorno di più meno parte.
"Siete finiti!", dicevano dei giovinastri da un'auto in corsa che passava accanto alla festa pisana.

Qualcuno forse li avrà rintuzzati, ma sinceramente non so cosa avessi pensato io in quel momento.
Sotto sotto, però, ho sempre saputo che di quel mondo mi piaceva essenzialmente la vera o presunta veracità dei compagni di una volta, quelli che dopo aver mangiato i fagioli all'uccelletta si buttavano tutti in pista a ballare il liscio.

Mi parevano autentici, incapaci di scorrettezze o peggiori nefandezze.
La cosiddetta base tanto mitizzata pure nei programmi di Guzzanti e Dandini di quegli anni, gli eroi pasoliniani che in verità io non avevo mai frequentato, piccola borghese com'ero di famiglia.

A distanza di tanto tempo che cosa è rimasto di quella specie di ideale di purezza?
Lo incarnano forse solo i semplici come quell'anziano che sventola la bandiera nella foto o è possibile essere per lo meno credibili pur nel crescendo di amarezze che ti riserva l'età adulta?

Come proteggersi da volgarità e meschinità, nonostante tutto?
Non ho una risposta precisa, o forse una mi viene in mente.

E la indirizzo a chi ha vinto questa tornata: abbiate rispetto degli altri, fateci sentire parte del vostro progetto di città, non a chiacchiere, non ad amarcord musicali, ma con le opere.

Siate degni del vostro essere vincitori: siate condottieri di questa nave piena di rattoppi e cercate con il massimo dell'abnegazione di rimetterla in sesto.

Voglio sentirmi vincitrice anch'io, per una volta: non voltate la faccia a chi non fa parte della vostra famiglia. Abbiate rispetto per il ruolo che vi siete assunti.

E' già un miracolo, voglio dire, che chi ha accolto l'eredità di quel partito fortemente novecentesco possa ancora fare numeri importanti, non solo nella piccola città de Lu Portu.

Agite da amministratori, non da feudatari.
E' l'unica preghiera che vi rivolgo da cittadina, con la fotocamera al collo, dall'altra parte del palco.

Lasciate che alla fine dai miei scatti di fotoamatrice venga fuori anche la vostra anima. Mostrateci di averne una.

mercoledì 7 giugno 2017

Ti aspetto nei miei sogni

Tre anni fa, più o meno a quest'ora, mia mamma se n'è andata. Ho sempre il timore (e il terrore) di scadere nella retorica, per cui perdonatemi se non scriverò molto di più su quel momento.
Erano però vari giorni che pensavo di buttare giù qualche riga, partendo dal presente.

In tre anni la mia vita è cambiata quasi totalmente.
Ho la sensazione che mi si sia seccato il cuore, da una parte; dall'altra, di aver sgombrato la mia pur sempre confusionaria e velleitaria testa da un mucchio di ciarpame.

Come vorrei dirlo a lei, che pure, se lo sapesse, mi guarderebbe ancora con un misto di amore e scetticismo.
Quante volte ci siamo ritrovate in cucina, io seduta nella sedia di lato alla credenza, lei su quella che ora uso sempre io quando resto lì a guardare la tv la sera, spesso anche quando papà se ne va a letto.
Prima non vedevo l'ora che quest'ultimo sgomberasse per potermi piazzare sul divano a fare zapping sul mega-schermo (pure negli anni Ottanta il salotto era il luogo deputato all'apparecchio più grande).

Di ritorno dall'università mi fermavo a lungo, di solito dopo pranzo, a raccontarle i fatti rilevanti dei giorni passati lontano da lei. Qualche volta scendevo pure più sul personale, come quella volta - ce l'ho davanti ancora chiaramente - in cui le ho svelato di essermi fidanzata.

Conoscendola, doveva impazzire di gelosia e di rabbia: "chi sarà mai quest'ennesimo scansafatiche?" Di certo si augurava solo che non facessi qualche leggerezza, anche se, sul fronte sesso, in verità, sapeva essere piuttosto esplicita. "Guai a voi se fate la pizza". O qualcosa del genere, di solito riferito a qualche figlia di sedicente amica di collega, che, per l'appunto, l'aveva fatta e addio scuola e altri progetti.

Voleva proteggermi dall'amore, una parola così abusata la maggior parte delle volte in cui la si associa al rapporto sentimentale.

Lo sapete: non sono madre, per cui quella roba strappa-budella che ti succhia sangue ed energia da dentro la conosco solo per sentito dire.

So però che in molti casi aveva ragione lei: non c'è quasi nessun legame che duri per sempre, ma quando ne incontri qualcuno che vale la pena alimentare e far fiorire non c'è genitore che ti possa trattenere.

Mi dispiace di averlo capito troppo tardi, cioè di non averglielo potuto dire. Ma forse non avrei dovuto usare le parole: mi avrebbe sgamata guardandomi in faccia.

Per amare bisogna avere rispetto di sé, curarsi profondamente, ascoltarsi davvero.
Tu hai saputo amare me e Linda perché ci hai saputo parlare a volte con brutalità elefantiaca, ma insieme con rispetto.

"Sembri proprio una giornalista", commentavi leggendo qualche boiata che vi costringevo a sciropparvi. Mi è sempre piaciuto questo sano ridimensionamento del narcisismo da prima della classe e anche se faccio tuttora quotidianamente i conti la mia scarsa soddisfazione professionale, so che quella è l'unica strada per diventare persone equilibrate.

E' insomma come se, perdendoti, tu ti fossi installata stabilmente dentro di me aiutandomi quasi minuto per minuto a non sprecare energie in operazioni fallimentari, in relazioni inutili e altre cretinerie.

Non ho ancora la forza che hai dimostrato tu nell'ultima fase della tua vita né so nulla di quasi nulla su perché diavolo di ragione io sia piombata sulla terra.

So di più sulla fragilità umana, anche sulla tua e, se possibile, mi manchi ancora di più anche per questo. So pure che le lacrime non vanno sparse al vento come gocce di caligine.
Quando piangerò di nuovo, sul serio, sarò da sola: quelle lacrimucce di commozione che facevo fatica a mostrare da adolescente e che, invece, ogni tanto spuntano fuori adesso che mi avvio ai cinquanta, non sono altro che piccole melensaggini.

Dentro, sono un gigante, cara mamma, ma sto ancora crescendo, le articolazioni scricchiolano per questo (sì, come no).

Mi sono accorta di essere passata dalla terza persona al tu, parlando di lei. Parlando di te.

Perdonami per non aver capito tutto il dolore che provavi mentre te ne andavi. Per aver avuto così tanta paura della vita per lunghi, lunghissimi anni, da seguire alla lettera le tue raccomandazioni maternamente rigide anche quando non sarebbe stato necessario.

La verità è che io non ero in grado di amarti come tu hai fatto con me, ora lo so.

L'amore non si sceglie, l'amore arriva e basta, come io (e mia sorella) siamo arrivate da te.

Non so come chiudere: la banalità chiama.

Ti aspetto nei miei sogni.

domenica 21 maggio 2017

Non sono più giovane, che sollievo


Era un pezzo che pensavo di eliminare la pagina "Gli sfaccendati". Non perché adesso sia molto più affaccendata di quando l'avevo creata, ma perché ho capito che il messaggio che lanciavo era sbagliato.

Il giovane che vedete nella foto sgranata è Jack London, morto suicida a trent'anni dopo aver lasciato alla storia della letteratura libri famosissimi soprattutto tra i ragazzi che furono fino a qualche anno fa.

Ho regalato a Natale Zanna Bianca al mio nipote maggiore, ma credo non l'abbia ancora letto, visto che è rimasto a casa dei miei genitori. A breve glielo prenderò in prestito (sono una fautrice dei regali boomerang), orfana come mi sento tuttora di Martin Eden, non so se l'ultimo romanzo di questo tormentato autore statunitense vissuto a cavallo tra Otto e Novecento.

L'impressione che mi ha lasciato addosso (lui sì che era uno che andava dritto al sodo) è ancora fortissima e temo non se ne andrà più.

Il suo alter-ego letterario raggiunge la fama (con le valanghe di denari che ne conseguono) quando per lui è "troppo tardi", la frase che lui medesimo usa per titolare il libro che gliela procura, aperta metafora della condizione probabilmente provata davvero da London. Eden, in altri termini, non regge al peso di essere arrivato dove voleva, dopo anni e anni di autentiche privazioni per di-rozzarsi e imparare a scrivere davvero (mica gli articoli? Quelli "gli avrebbero rovinato lo stile", dice a un certo punto), e solo per effetto di "lavoro già eseguito".

Il protagonista dell'imperdibile romanzo è proprio ossessionato da queste ultime parole, non riuscendo a capacitarsi che all'improvviso, senza alcuna ragione apparente, a qualcuno interessino le sue opere appena un attimo dopo che lui ha smesso di crederci.

Non voglio rivelarvi il finale, perché, davvero, vale la pena immergersi in questa fondamentale storia, scoperta grazie a un amico negoziante mentre ne acquistavo un altro per il gruppo lettura di cui faccio parte. Ho tentato, anzi, in tutti i modi di proporlo agli altri membri, ma in fondo in fondo sono gelosa dell'effetto che ha avuto su di me e mi addolorerebbe se qualcuno di cui ho stima non lo capisse.

Troppo tardi per un fare un sacco di cose anche per me. 

Non sono più giovane, non lo sono più da un pezzo, ma la vergogna che provo per la mia condizione di precarietà mi ha spinto ancora troppe volte a fingere di essere alla ricerca di occasioni ed esperienze nuove, come se tutto quel che ho fatto finora non fosse "lavoro già eseguito", ossia tempo usato da me intensamente (pagato o non pagato, non importa) per crescere (e invecchiare).

Martin Eden mi ha permesso di capire con chiarezza semplicemente questo: non ho bisogno di nascondermi e cedere all'imbruttimento del tempo, ma neanche di apparire garrula e felice per forza.

Sembra una conclusione banalissima, di certo lo sarà, ma per me ha un grande valore.

Troverò una maniera più stabile per campare, ne sono certa. Ma non sarà quello a regalarmi la serenità, come il magnifico Eden-London aveva capito. A differenza sua, però, non sono più giovane, per cui non sarà necessario compiere gesti estremi per marcare la mia totale estraneità al mondo dei vincenti.

Mi basterà trovare il mio posto nel mondo, aperto e accogliente quanto basta per le persone che avranno la pazienza di non aspettarsi nulla da me. 

Mi attende un duro lavoro. Finalmente.

domenica 14 maggio 2017

Auguri, mamme (e in bocca al lupo alla mia bouganville)



Ho comprato una bouganville ad albero al mercato dei fiori: è stata l'unica pianta che mi ha attratto su tutte quelle che ho visto, anche se davvero non ho idea se sarò in grado di farla sopravvivere. La vera minaccia è, oltre alla mia scarsa propensione per il giardinaggio, la gatta grigia, che ama spezzare i boccioli dei garofani (per il momento messi al riparo dai suoi dannati canini sull'altro balcone).
Staremo a vedere. Il motivo per cui ho scelto proprio questa graziosa piantina è molto infantile: si chiama come me, con una x al posto delle due s. Cercando una foto per questo post, ho letto giusto ora qualche consiglio per coltivarla. La vedo dura.

Non sto scrivendo, per la verità, solo per aggiornarvi sui miei propositi green, ma anche perché domani è un giorno che in altri tempi mi avrebbe messo allegria.
Non riuscivo a guardare tutti quei cuori e quei cartelli che richiamavano la festa mobile dedicata alla mamma.

Nei giorni scorsi ho parlato con otto diverse madri di bambini e ragazzi di età ed esperienze diverse. Il risultato uscirà domani (ormai oggi) sul quotidiano per cui collaboro, ma quello che non ci sarà è proprio l'effetto che hanno prodotto su di me, che mamma non sono, le loro parole e i loro sguardi.

Avevo fatto un lavoro simile per i papà, ma in questo caso sapevo già prima di buttarmi a capofitto nell'organizzazione di un incontro dopo l'altro (faticosissimo incastrarsi con gli orari contingentati delle mamme!) che ne sarei riemersa un po' cambiata

E se sento di non essere più esattamente la stessa di prima già al solo ascolto delle loro profonde trasformazioni, figuriamoci che cosa mi sarebbe successo se l'avessi provato anch'io personalmente.

Ve lo posso dire, non me ne vergogno: le donne che hanno il coraggio di fare figli sono imbattibili. Certo, esistono casi difficili, orribili addirittura, ma se non si è psicopatiche o particolarmente in bolletta oppure - certo - impossibilitate per motivi di salute, dalla maternità si ha solo da guadagnare.

Attenzione, però. Il miglioramento personale che ne viene fuori può essere pure totalizzante e determinare la fine di ogni romanticismo

Se non si ha affianco un partner che a sua volta comprenda appieno che diavolo di miracolo è vedere una creatura che ti spunta come dal niente, che abbia la forza sovrumana di innaffiarla, potarla e fortificarla più o meno come viene naturale alla mamma, non c'è unione che tenga.

Per fortuna ce ne sono tanti che hanno queste caratteristiche, ma le donne che nutrano dentro se stesse l'ardito desiderio di dare la vita devono scegliere con attenzione il seme che le feconderà.

Non sto scherzando: a meno di incidenti fortuiti o di colpi di fulmine incontrollabili, bisognerebbe prendere l'uomo che ti corteggia e intervistarlo per bene: tu che intenzione c'hai? Mi metti incinta e poi sparisci? Cos'è tua mamma per te? Vuoi viaggiare? Sei un fan di Erode? Etc etc.

Capisco benissimo che sia complicato e che potrebbe sembrare un po' calcolatore, ma chi glielo dice, poi, al piccino che papà non sa fare niente, che si sente messo da parte proprio da quest'alieno in miniatura e che la playstation proprio non la vuole cedere? 

Ma probabilmente al grosso delle coppie che decide di riprodursi (o che si sorprende della novità in arrivo) basta uno sguardo d'intesa di massima per capire che ci si va a genio l'uno con l'altra (cambiate pure le declinazioni di genere, se vi pare).

Io, comunque, ho la massima stima per chi si è imbarcato in questi straordinari viaggi.
E comprendo sempre di più quanto sia per loro complicato dialogare con chi non li sta affrontando.

Mi piacerebbe, vi confesso pure questo, che non facessero sentire noi non genitori come delle povere creature incomplete, come si percepisce negli occhi condiscendenti di alcuni di questi meravigliosi avventurieri.

E tuttavia, nel profondo del mio cuore, mi sento di dar loro ragione pure ai compatenti: se non hai figli, sai davvero molto poco della vita e del perché, accidenti, ti servano denari per campare.

In una società rurale, magari, bastava avere almeno il pane e un tetto e di tablet, scarpe di marca e zaini fighetti non se ne parlava proprio.

Ma il punto è sempre lo stesso: si fa di tutto e di più per i figli perché è giusto e bello.

E terribilmente commovente.
E se l'avessi capito diversi anni fa, sarebbe stato tutto più semplice. 
E dire che ho avuto un esempio straordinario di mamma. Forse persino troppo.
Magari è stato così grande da farmi sentire protetta e coccolata ben oltre gli anni in cui avrei dovuto organizzare serrate interviste ai miei possibili fecondatori.

O semplicemente dovevo diventare adulta in un'altra maniera, con la sua perdita.

Non si torna indietro, per cui quel che fatto è fatto, ma di quell'energia assoluta che ho visto in lei e nelle mamme che mi hanno aperto il loro cuore sull'infinito amore di cui sono state capaci, farò tesoro. Sempre di più.

Auguri a tutte le mamme, di ieri, di oggi e di domani.

venerdì 28 aprile 2017

Ewwa e il concorso di scrittura per le tastiere fumanti


La signora in maglia verde che firma il libro è la scrittrice Loretta Emiri, amica mia e degli Indios della foresta amazzonica, con i quali ha vissuto per una ventina d'anni tra gli anni Settanta e Novanta.
Non sono riuscita a intervistarla anche sul suo ultimo lavoro, ossia "A passo di tartaruga", ma per sua fortuna Loretta ha ottenuto articoli e recensioni certamente più importanti di quelli che avrei potuto scrivere io.
Ho scelto di pubblicare (o forse ripubblicare) la foto che le ho fatto durante l'incontro alla Casa della Memoria di Servigliano (Fm) nel febbraio dell'anno scorso per parlare di donne che usano la penna come modo per stare al mondo.

Loretta è una di quelle cui riesce particolarmente bene, considerati i non trascurabili sacrifici cui si sottopone ogni giorno per restare incollata alla tastiera e/o per non soccombere a quella vocina disfattista che ronza nelle orecchie di tutte le persone naturalmente portate a non prendersi troppo sul serio. Per fortuna, quel fastidioso Grillo parlante non ha avuto la meglio, per cui possiamo godere delle sue parole.

Oltre a lei, ce ne sono in giro di valenti, ciascuna nel proprio ambito di competenza. 
Sono dispiaciuta, per dire, di non poter ascoltare domani alle 18.30, alla sala Castellani di Porto San Giorgio, Alice Basso che parlerà del mestiere di ghost-writer.
Non vi nascondo che ho pensato spesso che avrei potuto buttarmici pure io, anche se, ovviamente, bisogna che ci sia uno scrittore-scrittore che mi ritenga in grado di prendere i suoi panni. 

Sono sicura che verranno fuori dettagli interessanti dall'incontro di domani, l'ultimo della serie di cinque (se non vado errata) organizzato dall'associazione European Writing Women (Ewwa) con il patrocinio dell'assessorato comunale alle Pari opportunità, intitolato "Non solo rosa".

Oltretutto, dalla foto del comunicato stampa che mi hanno inviato, Alice Basso pare abbastanza giovane da poter dare a chi è più vecchietto di lei la giusta riverniciata alle proprie idee sulle insidie e le opportunità offerte dal mondo editoriale. Chi può ci vada, insomma.

A proposito di dritte per le tastiere fumanti (mamma mia che brutta metafora), segnalo la novità offerta proprio dalla rete delle scrittrici, blogger, sceneggiatrici e traduttrici di cui fanno parte anche le promotrici della rassegna letteraria sangiorgese, ossia Christina Assouad ed Eleonora Vagnoni, rappresentanti per Ewwa delle regioni Marche e Abruzzo.

Si tratta del loro primo concorso letterario nazionale (aperto a donne e uomini) destinato alle storie di rinascita al femminile, con particolare attenzione a quelle riguardanti donne che hanno subito violenza. Oltre ai premi principali assegnati alle prime tre classificate, in altri termini, Ewwa ha previsto cinque menzioni speciali per articoli, reportage, saggi e trasmissioni giornalistiche che si sono occupate di violenza di genere.

Non ci sono soldi, questo è bene saperlo, ma non si paga per partecipare e in ogni caso già essere pubblicati in cartaceo e digitale (per chi ottiene il primo premio) e ricevere un e-reader per leggere in maggiore scioltezza non è affatto male.

Per ulteriori dettagli c'è un link: qui vi basta sapere che c'è tempo fino a fine anno per mandare i propri lavori.

A mio modesto parere, chi ha qualcosa di significativo da raccontare conviene che si butti a prescindere. Datemi retta: non esiste l'occasione della vita, ma tante mini-chance da... sbranare.

Roar.

Alla prossima.


martedì 25 aprile 2017

Dal mare a Fermo. E ritorno


Sono un tantino stanca, quindi perdonatemi per il tono un po' dimesso.
Le ultime due giornate sono state piuttosto strane.

La mattina di domenica ho partecipato alla Camminata delle donne con un po' di amiche di palestra e, oltre a fare la figura dell'idiota con lo speaker della manifestazione, con quella storia della colazione sbagliata come causa probabile della mia nausea dopo appena dieci minuti che correvo, ho rischiato pure di mettermi a piangere mentre ascoltavo la testimonianza di una donna che ha scelto di rasarsi a zero piuttosto che mettersi parrucche o fazzoletti per nascondere gli effetti della chemio. Una tizia affianco a me mi ha abbracciato e mi ha sussurrato: "Anche io ci sto passando". Mi sarei voluta sotterrare. Ma da un altro lato, se posso esserle stata di aiuto come spalla, va bene così.

Mia madre non ha perso i capelli, le si erano giusto un pochino diradati. Ma anche questo non è il punto.

Volevo esserci a quella Camminata, che ho scoperto essere legata al reparto di oncologia dell'ospedale di Fermo la scorsa edizione, l'ultima (almeno credo) a Porto Sant'Elpidio, dopo lo spostamento a Lu Portu, la cittadina in cui vivo.

Forse ero in ansia anche per questo motivo e poi perché, in fondo in fondo, sono una persona competitiva. Ho in mente almeno due episodi della mia infanzia che testimoniano il mio desiderio, sempre negato verbalmente, di primeggiare. Ma ve li risparmio.

Spero che la piantina grassa che ho comprato allo stand dell'Anpof (associazione Noi per l'oncologia del Fermano) attecchisca e diventi grande. L'aloe sul balcone dei miei sta magnificamente.

Spero ancora di più che quell'atmosfera gioiosa dell'altra mattina produca effetti duraturi in chi lotta ogni giorno, non solo per via della malattia.

Riesco solo a lanciare preghiere monche e banalotte, ma non ho ricette né strategie generali per affrontare il dolore.

Nella serata di domenica ho saputo della morte di Teo Tini, un bibliotecario di Fermo che ho solo sfiorato negli anni passati, ma che era riuscito a lasciarmi una forte impressione.
Difficile incontrare tutte insieme umanità, intelligenza e ironia: quando capita, non te lo scordi più.

Molto sentiti i ricordi dei suoi amici stamattina durante il funerale: mi ha colpito anche il sacerdote, che ne ha parlato come si farebbe tra intimi, non da un pulpito.
Ho anche avuto la sensazione che nessuno avesse bisogno di nascondersi nel parlare di lui.
Teo evidentemente sapeva leggere negli altri e il risultato si è visto nell'autenticità ritrovata in un rito che troppe volte suona stucchevole.

Il funerale di mia madre non è stato così vero, anche se il parroco, che ne raccoglieva le confessioni e che la conosceva da molti anni, non credo fingesse. Semplicemente non la conosceva davvero perché mia madre era schiva, molto schiva, molto, troppo forse, trattenuta. Non amava fare esibizione di sé, in altri termini, ma spesso finiva per censurare il suo innato istinto da leader.

Mi resterà sempre il dubbio che sia andata davvero così: che si sia ammalata per non aver creduto a sufficienza nella sua naturale capacità di primeggiare. Ma non so, forse proietto e basta quel che leggo in me. Che leader non sono: ho un altro temperamento, nutrito di chiaroscuri come il suo, ma molto più superficiale.

Tornando al bibliotecario e all'immagine che mi hanno restituito i tanti volti afflitti che lo salutavano, penso che lui fosse di una pasta speciale, silenziosa e attenta, che in qualche modo resterà.

Pur nella tristezza della circostanza, sono stata contenta di essere lì e di rivedere vari volti noti dei miei anni trascorsi a Fermo.

Verso il comune sul colle nutro sentimenti ambivalenti: non riesco a non associarlo ai fatti più dolorosi (è inutile negarlo) della mia vita marchigiana, ma d'altra parte, proprio per la loro estrema importanza, ogni volta che ne ripercorro le vie del centro storico, me ne ridiscendo al mare diversa, con un peso specifico maggiore.

Dicevano che Teo si era innamorato del mare di queste zone la prima volta che le vide durante il militare. Qualcosa di simile è successa anche a me durante la scuola di giornalismo.
Mi domando ogni tanto se davvero non sia tutto scritto.

Poi vado avanti, com'è ovvio.
Avverto però, lo ammetto, un legame con i volti, i suoni e le pietre di quelle salite e discese. Sto cercando di metterlo a fuoco, forse per farci pace o per chissà quale altra ragione.

Staremo a vedere.
Per il momento, meglio guardare il mare il più possibile da vicino, sotto quei fuochi che la notte scorsa l'hanno illuminato a giorno, costringendo i miei gatti a nascondersi in fondo al letto.

Ne ho sentito uno con un piede, andando a dormire.
E ho sorriso.

venerdì 21 aprile 2017

La vita che ho deciso arriverà: grazie, Paola Turci


Ho fatto una full immersion nella musica di Paola Turci per motivi di lavoro.
Mi ricordavo perfettamente Bambini che, non so dirvi perché, ma mi ha sempre colpito.

Quasi quasi mi vergognavo ad ammettere che mi piacesse, per quella forma di snobismo di sapore universitario dalla quale faccio ancora fatica a liberarmi.

Ebbene: ora lo dico.
Paola Turci fa un ottimo pop, nutrito tra l'altro da una grande voce e una notevole professionalità.

Ce ne fossero di cantautrici così in questo Paese di dilettanti.
Non che abbia nulla in contrario sul legittimo desiderio di cimentarsi con le arti: l'importante è sapere che c'è una bella differenza tra chi conosce il mestiere grazie anche alla lunga gavetta che la medesima Turci dice di aver fatto, e chi ne fa il più appassionato degli hobby.

Ho scelto questa canzone dell'album uscito lo scorso 31 marzo intitolato Il secondo cuore perché ne cita le parole in un verso. Avrei voluto metterci direttamente l'omonima che ha scritto per lei Enzo Avitabile, ma non sono riuscita a trovarla. 

La Turci mi ha spiegato che cosa significhi per lei questa espressione (lo sta dicendo a tutti i media che la stanno intervistando in questo periodo, per la verità), ma io gliela rubo per i miei tristi scopi da blogger.

Non si rinasce, almeno, non si rinasce una volta sola, considera la cantautrice, ma tutto ciò che siamo è frutto di ciò che siamo stati, quindi di continue trasformazioni. O rinascite, se ci piace di più.
Cambiamo, rinasciamo continuamente, fino alla fine, insomma.

Bella scoperta dell'acqua calda. 
Può essere. Però è vero che ci sono alcuni momenti speciali in cui avvertiamo più profondamente il processo di cambiamento. O di liberazione da inutili fardelli

Sento molto questo genere di messaggio nell'album della Turci, indipendentemente dagli arrangiamenti che non sempre mi convincono, in qualche caso usati (a mio avviso) per strizzare l'occhio ai consumatori di radio commerciali.

Mi piace la sua energia, mi ci riconosco, o forse aspiro a qualcosa di simile pure per me.

Credo dipenda dalla sua maturità come donna, penso davvero che il suo "fatti bella per te" possa significare molto per chi sta facendo i conti con il tempo che passa.
Il messaggio sarà anche semplice, detto diversamente, ma funziona, proprio perché detto da questa professionista dello spettacolo. 

Vent'anni fa, esattamente in questo giorno, mi sono laureata.
Doveva essere una data felice, di quelle che ti proiettano nel futuro.

Ci ho messo almeno una decina d'anni per superare il grosso delle conseguenze della mia prima vera crisi di crescita.
I dieci successivi mi sono serviti per recuperare il sorriso, lo stesso, ebbene sì, che ho visto nelle interviste e nelle clip di questa signora della musica.

Non si guarisce mai del tutto, ma niente, davvero niente, resta com'era. Per fortuna.

E' proprio questo passaggio della canzone che le ha scritto Avitabile ad avermi colpito di più.
In questo, secondo me Turci & co ci hanno visto giusto.

Quando capisci che va bene così, in conclusione, ossia quando lasci cadere illusioni e falsi miti, è proprio allora che tiri fuori il meglio di te.

Certo: ci vogliono denari o altro genere di risposte concrete, ma mi sono convinta da sola, già da prima di incrociare Paola sulla mia strada, che predisporsi al cambiamento porta qualcosa.

Ti aspetto al varco, vita che ho deciso.