lunedì 8 gennaio 2018

Vitaliano Trevisan, il lavoro e il dolore che fa bene


Ero indecisa se scrivere qualche riga su Works, il libro di Vitaliano Trevisan che ho finito di leggere ieri mattina. Non vorrei che si confondesse la forte impressione che hanno prodotto su di me le oltre seicento pagine che lo scrittore vicentino ha dedicato ai suoi svariati e più lavori che l'hanno impegnato dai tempi della scuola al 2002 con il mio personale percorso professionale così disastrato.

Certo, se Trevisan mi ha colpito vuol dire che ha toccato qualche corda che mi riguarda molto direttamente, ma il rischio che corro, quando succede com'è effettivamente successo con lui, è di diventare barbosa oltre ogni misura.

Posso solo dirvi che consiglio la lettura di questo viaggio nella ricca provincia italiana del Nord Est, partito negli anni Settanta del secolo scorso e approdato nei primi due dell'attuale, a chi abbia voglia di immergersi in una scrittura cervellotica e sinuosa, ironica e amara. 

Ho letto qui e là paludatissime recensioni che ne coglierebbero citazioni più e meno esplicite da Thomas Bernhard, un autore a me del tutto sconosciuto. Niente di più facile, visto che Trevisan lo nomina nel libro a più riprese come uno dei suoi tre numi tutelari, letterariamente parlando, insieme con Samuel Beckett e Ludwig Wittgenstein. La mia crassa ignoranza mi ha preservato finora dalla lettura pure degli altri due, quindi figuriamoci se mi metto a negare l'esistenza di punti di contatto tra lui e loro.

Sia come sia, Trevisan mi ha fatto invece nascere proprio la curiosità di saperne di più, di Bernhard and co, e in generale ho apprezzato la generosità con la quale si è messo a nudo, o ha finto di farlo (restando però credibilissimo), probabilmente, più di quello che dichiari in corso d'opera.

Dev'essere, in ogni caso, un grande rompicoglioni proprio come si dipinge, dotato contemporaneamente di un istinto speculativo (alla Wittgenstein?) non comune.
Oggi dice di vivere in un paesino di collina lontano dal centro storico "che gli fa schifo" e di passare poche ore al giorno a scrivere, e il resto a camminare o a spaccare la legna.

A vederlo, non dà l'idea che voglia fare il guru e francamente spero di non sbagliarmi.

Mi toccherà a breve restituire al legittimo proprietario una delle migliori scoperte dell'anno passato: un sentito grazie va a lui, e in generale agli organizzatori del Premio Volponi per la letteratura e l'impegno di civile, tornato a Lu Portu dopo vari anni di migrazioni.

E' già la seconda volta che uno dei libri in concorso (anche l'altra volta non il primo classificato) mi dice talmente tanto da provare quasi dispiacere di averlo concluso. In quel caso si trattava di Sebastiano Nata e il suo "Il valore dei giorni": tutt'altra atmosfera e storia, ma, per me, uguale generosità letteraria.

Che altro posso aggiungere?

C'è troppa retorica sul lavoro come modo per "realizzare se stessi", come dice l'autore di Works. Bisognerebbe, se possibile, tentare di capire chi si è e ciò che si può fare con il solo fatto di essere in vita a prescindere dalle proprie ambizioni, chissà se morali o materiali.

L'inquietudine e più ancora la depressione e la voglia di mandare tutto a ramengo sono fedeli compagne di chi arranca giorno dopo giorno senza una meta precisa, ma io credo, in ogni caso, nell'istinto di sopravvivenza, lo stesso penso che faccia Trevisan e molti di noi.

Meno male, poi, che ogni tanto qualcuno fissa sulla carta qualcosa di fondamentale. Di doloroso, anche, ma di quel genere che di dolore che fa bene, perché ti spinge a non addormentarti, o a farlo nei tempi giusti.

Perciò concludo il post e volto pagina. 
Fino al prossimo risveglio.

giovedì 19 ottobre 2017

George Winston, i gatti e la vita


E alla fine il posto in prima fila ce l'hanno sempre loro: gli amici a quattro zampe.
Sono mesi che non aggiorno il blog e non credo che tornerò a farlo in modo regolare, però ho proprio avvertito l'esigenza di ripassare di qua dopo aver letto un articolo dedicato a George Winston, pianista americano noto (soprattutto) per aver riarrangiato la musica di Vince Guaraldi da quest'ultimo composta per i film sui Peanuts.

Ignoravo quale ruolo avessero giocato i gatti nella vita di questo musicista, autore di un cd di commovente bellezza, intitolato Spring Carousel.

Nell'articolo si spiega come e dove l'abbia realizzato, ossia di sera nella sala musica dell'ospedale nel quale Winston era ricoverato dopo un serio intervento chirurgico.

Non so se questo pianista dal viso etereo e il sorriso rasserenante abbia sconfitto definitivamente il male, ma di sicuro i ventidue gatti che ha incontrato durante la sua esistenza dall'infanzia a oggi l'hanno aiutato a elevarsi al di sopra di ogni dolore.

Basta sentire la sua musica per capire di cosa sto parlando.
Ho corso con i brani di Spring Carousel nelle orecchie durante l'ultima dieci chilometri che ho affrontato in buona parte da sola. Era la prima volta che l'ascoltavo e ne ignoravo la genesi.
Eppure.

L'album è dedicato alla primavera, racconta sempre il musicista nell'intervista, ossia il periodo della sua convalescenza in ospedale.

Un'analoga primavera si è portata via mia madre, ma io non ho smesso di amarla, come stagione, né ho smesso di credere nel potere curativo dei gatti (ma anche dei cani, per chi li ha), che pure lei ha imparato a conoscere a partire da un certo momento della sua vita.

C'è qualcosa in queste creature che ti costringe alla contemplazione. La grigia che vedete sopra sulla radio, per dire, tutte le mattine mi miagola fortissimo finché non mi costringe a sedermi e a tenerla in braccio.
Non crediate che lo faccia per affetto: sono certa che voglia solo scaldarsi un po', ma non nascondo che il suo opportunismo mi piaccia davvero molto, perché è come se mi spingesse a fare altrettanto.

Molla gli ormeggi, biondina, sembra voglia dirmi, intiepidendomi le cosce.

Uno dei brani dell'album di Winston porta il nome di uno dei gatti più importanti nella sua vita (si chiama Pixie #13 in C - Gobajie).
L'intervistatore lo giudica particolarmente ispirato e in effetti ha ragione, forse anche perché anticipa bene i pezzi conclusivi dedicati all'amore, in tre diverse declinazioni, difficili da descrivere con le parole.

Se proprio devo sforzarmi, direi che nei brani di Winston (anche in quelli dedicati ai Peanuts) c'è sempre qualcosa che ti invita a lasciarti andare, esattamente come fanno i corpi di questi animali quando dormono.

Al contempo, una musica di così immensa grazia richiede un ascolto attento, così come fa la gatta grigia, quando mi assale con i suoi miagolii finché non mi trasformo nel suo scaldino.

Durante la corsa c'eravamo solo io, le mie gambe e le note di questo straordinario personaggio. Sono arrivata al traguardo quasi riposata. Qualcosa del genere mi capita dopo una seduta con la gatta sulle gambe, tolti gli scricchiolii delle giunture e lo stiramento sonoro molto poco felino.

Sono momenti di presente assoluto e di nostalgia.

Chissà se capisce quello che le dico. Perché, naturalmente, con i nostri piccoli amici si parla. In particolare, arriva sempre un momento in cui muovo un arto preceduto dal mio: "Ok, adesso è ora di scendere, forza". Di solito alza prima mezzo orecchio e solo al secondo o terzo micro movimento salta giù con un vago senso di fastidio. I cuscini umani non valgono una cicca, penserà.

La seduta mattutina mi costringe ad accettare lo scorrere del tempo, a spurgarmi, a volte, dai sensi di colpa per la mia protratta inattività.
La musica di Winston si adatta perfettamente a questo stato d'animo.

Intuisco la grandezza del privilegio che mi è capitato in sorte proprio durante attimi del genere.

Dov'è andata la rabbia? Perché, anzi, ero arrabbiata prima?

Poi, certo, il cd finisce e la gatta si accoccola nell'angolo del divano sulla sua copertina.

Io sono ancora in pigiama o in tuta, non ho nemmeno messo la crema sul viso e non so bene che cosa sarà della mia giornata, ma non è il caso di preoccuparsi.

La vita va avanti lo stesso.
E qualcosa accadrà.
Fino alla prossima seduta musico-felino-terapeutica.

sabato 8 luglio 2017

Voglio di più, stop agli anni amari



Sto per scrivere parole di lagna e di dolore, ma ne ho bisogno, quindi passate oltre, se vi annoio.
Ho scoperto Chantal Kreviazuk grazie a mio marito, molto attento alla musica, tanto più se declinata al femminile.

Lei è un'artista canadese a tutto tondo: oltre a cantare magnificamente, scrive musica e parole, recita ed è pure madre, mi pare di tre figli. In più, è bella e di classe, insomma: una strafiga, almeno per i miei parametri.
La canzone "Into me" che linko sopra fa parte dell'ultimo album intitolato "Hard sail", dedicato al suo matrimonio (in estrema sintesi): il marito di Chantal, manco a dirlo, è un musicista come lei, è belloccio e ora che ci penso sto per avere un attacco di bile.

Scherzo: mai stata un tipo invidioso, io. 
Il che porta al risvolto patetico della faccenda.
Non conoscevo il testo di "Into me" fino a pochissimo tempo fa, quando me lo sono scaricato.

Parla dell'inizio di una storia d'amore e dell'incredulità che prova lei, che al risveglio accanto a lui, si sente invadere dalla gioia quando realizza che lui, sì, proprio lui, non sta andando da nessuna parte.

Non capendone le parole (Chantal gorgheggia "you're not, you're not"), mi ero fissata sulla strofa in cui dice "I want more, I want more", seguito davari "more" in crescendo. 

Correndo con la sua musica nelle orecchie, li ho gridati un sacco di volte, come un inno di guerra (non senza prima essermi guardata intorno: folle sì, ma in solitaria).

"Voglio di più, di quello che credi", diceva Pino Daniele in tutt'altra canzone, parlando, in questo caso, di "anni amari".

Ne ho vissuti parecchi, di anni amari. Ora basta.
Curiosamente, mi sono ricordata di un monologo che in tempi non sospetti mi avevano affidato nella compagnia amatoriale di Chieti Scalo che ho frequentato nel periodo di transizione tra l'università e la scuola di giornalismo, che fino a poco tempo fa ho creduto fosse il più buio della mia vita.

Non rammento più le parole precise, ma impersonavo una donna forse dell'età che ho adesso, che racconta i fatti suoi ad altra gente seduta come lei sulle panchine di un parco.

"Ho avuto anni buoni nella vita, diciamo pure cinque o sei", dicevo a un certo punto. Più avanti nominavo quel "tarlo" che all'improvviso ti entra nella testa levandoti la serenità.

Quel monologo mi ha portato una iella pazzesca o più semplicemente, devo rassegnarmi, io non sono predisposta al "successo".

Davvero non so spiegarmi altrimenti il perché di alcune scelte di vita, alcuni cambi di rotta e ora, a pochi giorni dal mio compleanno, perché mi ritrovi ancora a comportarmi come una vecchissima adolescente.

In verità adesso so che cosa mi farebbe stare meglio, ma purtroppo non posso ottenerlo perché non dipende solo dalla mia volontà.
La visione americana dell'esistenza rassicura e quando la vedi nei film ti pare di poterla inverare pure tu (mi riferisco a quelle atmosfere da "Fame" e ai sogni da afferrare al volo).

La realtà è diversa, anche se, come si vede nel romantico video di Chantal, può capitare di avere "anni buoni" nella vita, momenti di gioia pura che poi non dimenticherai più.

La felicità insomma esiste, ne sono certa, ma è fatta di tanti "hard sails", duri viaggi come dice la bella canadese, da affrontare, se possibile, in due o più (in un'intervista parla con grande ironia e franchezza delle madri che diventano "bestie" pur di proteggere i loro cuccioli).

Non tutti abbiamo, però, uguale forza e fortuna per affrontare al meglio il lato "hard" della faccenda.

Sono scappata troppe volte spaventata non so bene da cosa, dalla città in cui sono cresciuta, dai lavori più strutturati. Persino la facoltà universitaria che ho scelto è indice della mia grande irresolutezza.

Ormai è tardi, troppo tardi, per molte cose, ma per lo meno ho imparato a godermi il più possibile gli attimi di leggerezza ogni volta che si presentano.

Vorrei solo scrollarmi di dosso del tutto questo senso di inadeguatezza alla vita che mi "pietrifica", come dice la Kreviazuk, parlando della paura che prova al pensiero che lui possa andarsene.

Al contempo, so che è giusto occuparsi del genitore in difficoltà, tirando fuori tutta la maturità di cui sono capace.

Si farà tutto quello che si deve, come sempre.
Spero solo di non arrivare alla fine della mia vita con quest'ombra di fallimento che mi porto addosso da troppo tempo. 

Voglio di più, voglio di più. 
Di più.

Un giorno imparerò a cantarlo per bene (la mia giovane insegnante di canto spero abbia abbastanza pazienza e pietà). E chissà se basterà questo per ottenerlo. 
Crediamoci.
Non ho altra scelta, d'altra parte.

mercoledì 28 giugno 2017

La ragazza del mondo e l'Arminuta, due a zero per l'umanità


Cercavo un collegamento tra "La ragazza del mondo", il film di Marco Danieli che ho visto venerdì scorso alla Comunità di Capodarco, per l'apertura dell'Altro festival, e "L'arminuta" di Donatella Di Pietrantonio.
Quando si dice il caso.
L'attrice protagonista che vedete sopra nella foto si chiama Sara Serraiocco ed è di Pescara.
L'autrice del libro che ha per protagonista una ragazza ancora più giovane vive a Penne. Forza Abruzzo, mi verrebbe da dire, ma solo perché sono una senza patria alla ricerca costante delle proprie radici.

Tolto l'orgoglio regionale, comunque, tra i personaggi visti e letti più o meno negli stessi giorni il legame c'è e ha a che fare con l'identità.
"Arminuta" vuol dire "ritornata" ed è il soprannome che viene affibbiato alla ragazzina al centro della storia dagli abitanti del paese nel quale torna a vivere, quando viene restituita alla famiglia biologica da quella adottiva, per ragioni che verranno spiegate durante la narrazione.

La ragazza del mondo è invece ciò che diventa Giulia-Sara, la diciannovenne testimone di Geova, che finisce per essere "disassociata", quando si scopre il suo legame d'amore con un ragazzo "di fuori" dalla comunità religiosa.

Al di là degli aspetti sociali delle due vicende (che pure sono significativi, altrimenti non si capirebbe granché della tensione narrativa che le pervade), sono rimasta colpita dalla forza di queste due giovani donne, capaci, ciascuna a modo proprio, di ricomporsi pezzo dopo pezzo dopo pesantissime fratture.

Alla fine del film (no spoiler, promesso) verrebbe da chiedersi che adulta diventerà Giulia, se riuscirà un domani ad amare nel modo giusto chi è dentro e chi è fuori dal mondo dal quale si è dovuta (o voluta?) allontanare. 
Nel caso dell'Arminuta, invece, si sa che la trama si avvia quando la protagonista ha più o meno trent'anni, per cui già si intuiscono i mutamenti prodotti dalla scoperta tardiva di avere due mamme o forse nessuna.

In entrambe le storie, il dolore resta lì, muto e galleggiante, come quando si è smesso finalmente di piangere, ma si è ancora spossati dalle lacrime.
E tuttavia uno spiraglio c'è ed è molto femminile sia per i personaggi che lo rappresentano sia per il modo in cui viene espresso.

Mi colpisce, anzi, a pensarci adesso, che il regista della "Ragazza del mondo" sia un uomo: è proprio vero, allora, che quando ci si mettono quelli che stanno dall'altra parte del cielo sono capaci di grande sensibilità, epurata, direi, dalla retorica in cui spesso, ahimè, noi donne finiamo per cadere.

Donatella Di Pietrantonio, al contrario, sa dare voce anche agli uomini, ai maschi direi meglio, nel modo giusto, ma pure per lei la salvezza della protagonista è declinata al femminile.

Il film con la magnifica Sara Serraiocco e la terza opera edita di una - a mio avviso - delle migliori scrittrici italiane contemporanee non sono perfetti ed è anche questa una ragione della loro bellezza. 

L'innamorato di Giulia poteva pure non essere un tossico-spacciatore, mentre qualche dialogo del libro poteva essere ancora meno esplicito di come è stato stampato, per aumentare la meravigliosa asciuttezza della prosa adottata dall'autrice. E tuttavia, ho amato tutti i personaggi principali di entrambe le opere: nel libro mi è piaciuto Vincenzo, il fratello-non fratello dell'Arminuta, e ancora di più la mamma ritrovata, con quell'incapacità apparente di compiere gesti d'affetto. 
Nel film, invece, nonostante quello che ho scritto prima, mi sono immedesimata nella disperazione di Libero, il ragazzo di Giulia interpretato da un assai convincente Michele Riondino.

Sono storie alle quali ti affezioni, insomma, capaci di riscuoterti dal torpore di giorni troppo identici a loro stessi. Già solo per questo motivo, non posso che dire grazie a chi ci ha lavorato con tutta la passione e la competenza che ci vuole.

Non basta una vita, probabilmente, per capire chi siamo e che diavolo ci facciamo qui: qualcuno, però, ha almeno il dono di fornire un po' di senso al nostro vagare. 
L'umanità ha ancora qualche chance.
Voglio crederci, fatelo pure voi.

giovedì 15 giugno 2017

Fenomeno Gabbani e il segreto del successo


Sono incappata nel fenomeno Gabbani per questioni di lavoro.
Ora: non credo sinceramente che mi procurerò tutta la sua discografia, ma devo ammettere di esserne rimasta conquistata.
Mi piace su tutto la sua grande ironia non stronza, ossia di quelle che non virano verso il sarcasmo, bensì del genere sagace e divertente.

Nella full immersion che ho fatto nei giorni scorsi, tra l'altro, ho ascoltato anche pezzi poetici e riflessivi. Io però sto parlando soprattutto dei testi, mentre so benissimo che un buon ottanta per cento del successo di questo trentaquattrenne carrarese dipende soprattutto dalla grande energia che trasmette la sua musica.

Di base gli arrangiamenti sono radiofonici, concepiti per far ballare (o comunque ballonzolare) le persone mentre fanno la spesa (o stirano, come farò io forse tra poco), e questo, per una pallosa come me, è un limite.

Almeno in generale.
In questo caso, invece, intendo nella canzone che linko sopra, il connubio tra testo, musica e commercio è perfetto e a me non viene che inchinarmi per tanta professionalità.

Perché diciamocelo: ci sono tanti bravi musicisti e discreti interpreti, ma nel successo, quello che ti rende un nuovo Celentano o Battisti, voglio dire, contano, oltre alla fortuna personale, una cazzutissima preparazione (anche fisica), idee e staff qualificato che curi ogni minimo aspetto del personaggio che aspiri a diventare.

Qualche anno fa, se ho visto bene cercando i suoi pezzi sul web, Gabbani non era così in forma come è apparso ieri sera sul palco di Fermo. Avrà di certo pure un personal trainer.
Anche il look, quel ciuffo scolpito e quelle t-shirt semplici ma curate, la barbetta disegnata sopra quel magnetico sorriso sono studiatissimi.

Più invecchio e più capisco, insomma, che se vuoi sfondare non puoi lasciare niente al caso.
E la spontaneità, direte?
La spontaneità la usi anch'essa come marketing se lo sai fare, altrimenti cerchi di nasconderla con l'aiuto di un insegnante di public speaking o con la respirazione yoga, se sei uno che va in panico a contatto con la folla.

Molto probabilmente Gabbani ha doti naturali di comunicatività, però non è così per molti aspiranti artisti, pur bravi e talentuosi.

Oltre una certa età, detto ancora meglio, se non si è riusciti a governare la propria emotività o al contrario il proprio eccesso di ego, è piuttosto improbabile che il successo alla fine arrivi.

Per riuscire non basta il talento, insomma. Bisogna invece pure avere l'umiltà di farsi rivoltare come calzini da chi ha visto qualcosa in noi, purché, naturalmente, questo qualcuno sia un professionista con le contro-palle.

Diffidate dai dilettanti della comunicazione e delle arti in genere, voi che credete ancora di avere qualcosa da lasciare ai posteri.

Una scrittrice che ho intervistato tempo fa e che rivedrò stasera in una conferenza, mi ha parlato dell'importanza della sua agente letteraria nel farla salire di livello quanto a casa editrice con cui pubblicare.

Per arrivarci, la stessa si è fatta un mazzo così nella scrittura, innanzitutto, ma anche in tutto quello che comporta diventare un personaggio pubblico. I vestiti sono tutto, il modo di atteggiare il corpo anche, l'uso della voce, etc etc.

Con questo, ovviamente, non voglio dire che ci si debba imbalsamare, anche perché, se il risultato finale è troppo giustapposto, poi il pubblico se ne accorge e ti bastona.

Sto dicendo però che non bisogna aver paura di farsi un po' modellare, quando chi lo fa ha chiaro con te l'obiettivo di farti brillare, non di trasformarti in un clown.

Gabbani riluce, insomma, e persino una criticona come me l'ha capito.

Tutto sta a vedere come saprà gestire nel tempo la sua fama. In conferenza stampa si diceva tranquillo per la consapevolezza che, comunque, cambiando lui come accadrà nel corso del tempo, cambierà anche la sua musica. Da parte sua continuerà a scrivere canzoni. Meno male.

Oh my darling, che simpatica scoperta.

martedì 13 giugno 2017

La storia non siamo noi, ma trattateci comunque da cittadini. Lettera ai vincitori delle amministrative


Se fosse stata in bianco e nero, o di colori meno metallici, la foto che pubblico sopra sembrerebbe provenire direttamente dagli anni Settanta-Ottanta.
Invece no: l'ho scattata ieri sera, al termine dei festeggiamenti per la rielezione del sindaco di Porto San Giorgio, Nicola Loira, uno di cui, secondo lo slogan elettorale, ci si potrebbe fidare.
A sventolarla, è un anziano, verso il quale non si può che provare un misto di tenerezza e malinconia.

Era dai tempi dell'università, a inizio Novanta del secolo scorso, che non vedevo una bandiera con la falce e il martello. Di sicuro sarà comparsa mille altre volte in analoghe manifestazioni, ma credo davvero che risalga a inizio Duemila l'ultima volta che ho preso parte a qualcosa di tinta rosseggiante, pur se in circostanze completamente diverse.

Non sono tipo da folla né amo, in linea generale, le sfilate di protesta con tanto di canti e tamburi (se sei incazzato, che ti canti, mi viene sempre da pensare). Mi sentivo fuori tempo massimo già a vent'anni, quando me ne andavo con la fotocamera analogica a immortalare i manifestanti che furono. Ho ancora da qualche parte un album con gli scatti raccolti a Firenze in occasione di una protesta anti-Berlusconi. Alcuni si erano messi in posa, esattamente come fanno i partecipanti a maratone e altre amenità di massa.

Credo che stare dall'altra parte dell'obiettivo protegga anche un po'. Che ci faccio qui? Ma è ovvio, scatto foto: mica crederete che la penso come voi?

Eppure.
Era già caduto il muro di Berlino quando frequentavo le feste dell'unità e simili. Anzi: ricordo anche vagamente un comizio di Fausto Bertinotti in un prato della periferia pisana. Ci si andava per stare con gli amici (toscaneggio pure, per l'occasione), ma evidentemente il mio cuore militava da quelle parti. Di certo non sono mai stata a un'analoga kermesse missina o post-non so cosa (c'era Fini, giusto. Le mie coinquiline un giorno sono tornate a casa con le bandierine italiane e me le hanno sventolate davanti alla faccia per provocarmi. Ci sono riuscite. Lo ammetto).

Insomma, dentro di me alberga una piccola comunista, amica dei deboli e degli sconfitti.
Mi dispiace sempre assistere al rammarico di chi ha perso: mi scatta istintivamente un istinto materno difficile da controllare.

Mi immedesimo più facilmente negli sfruttati e maltrattati di rinogaetaniana memoria.
Capisco, però, che dalla tristezza altrui occorra anche difendersi per non confondere le proprie con le altrui frustrazioni.

E poi ho realizzato un'altra cosa: bisogna anche saper gestire le vittorie.

Sedersi sugli allori è, come dicevano gli antichi, l'errore più grave che si possa compiere.
L'omino che agita la falce e martello probabilmente non lo sa, ma quel partito in cui hanno riposto le speranze generazioni e generazioni di italiani è diventato ostaggio di una classe dirigente che ormai gli allori ce li ha per biancheria intima.

Non sto parlando nello specifico del piccolo comune nel quale sono venuta a vivere, ma a giudicare dalle molte facce non più giovani presenti anche tra i neo consiglieri comunali del posto in cui ho comprato casa, investendovi denari e progetti per il mio futuro di persona altrettanto anzianotta, ci vorrà ancora un po' prima che, davvero, questo Paese (non solo Lu Portu) si riscuota dalla stasi in cui è piombato ormai da troppo tempo.

"La storia siamo noi", diceva la canzone di Francesco De Gregori utilizzata per aprire la festa per la vittoria, anche quella un classico dei miei anni verdi.
Mi intenerisco e provo anche un po' pena per me stessa pensando a quando, in sella alla bici con i freni a bacchetta, troppo alta per me e pericolosissima per come la guidavo, mi avviavo verso un altro quartiere periferico di Pisa, più o meno nello stesso periodo di adesso, per andare a servire al ristorante della festa di Rifondazione comunista. Per un bel pezzo sulla canna dell'improbabile mezzo di locomozione è rimasto appiccicato un bollino con il simbolo sovietico.

Ricordo pure un cuoco, forse quarantenne, uno anzianissimo per una come me fin troppo pischella per l'età che avevo, nell'atto di avvicinarmi al busto il suo forchettone per la carne. Broccolava un po', credo, ma se ce l'ho ancora fisso davanti agli occhi è solo per il senso di vergogna che ho provato. Polla da infilzare, ingenua e sognatrice come i tanti che negli ideali propagandati dal Pci e i suoi eredi ci hanno creduto davvero.

Poi gli anni passano e la storia, per l'appunto, prende nuovi corsi e tu te ne senti ogni giorno di più meno parte.
"Siete finiti!", dicevano dei giovinastri da un'auto in corsa che passava accanto alla festa pisana.

Qualcuno forse li avrà rintuzzati, ma sinceramente non so cosa avessi pensato io in quel momento.
Sotto sotto, però, ho sempre saputo che di quel mondo mi piaceva essenzialmente la vera o presunta veracità dei compagni di una volta, quelli che dopo aver mangiato i fagioli all'uccelletta si buttavano tutti in pista a ballare il liscio.

Mi parevano autentici, incapaci di scorrettezze o peggiori nefandezze.
La cosiddetta base tanto mitizzata pure nei programmi di Guzzanti e Dandini di quegli anni, gli eroi pasoliniani che in verità io non avevo mai frequentato, piccola borghese com'ero di famiglia.

A distanza di tanto tempo che cosa è rimasto di quella specie di ideale di purezza?
Lo incarnano forse solo i semplici come quell'anziano che sventola la bandiera nella foto o è possibile essere per lo meno credibili pur nel crescendo di amarezze che ti riserva l'età adulta?

Come proteggersi da volgarità e meschinità, nonostante tutto?
Non ho una risposta precisa, o forse una mi viene in mente.

E la indirizzo a chi ha vinto questa tornata: abbiate rispetto degli altri, fateci sentire parte del vostro progetto di città, non a chiacchiere, non ad amarcord musicali, ma con le opere.

Siate degni del vostro essere vincitori: siate condottieri di questa nave piena di rattoppi e cercate con il massimo dell'abnegazione di rimetterla in sesto.

Voglio sentirmi vincitrice anch'io, per una volta: non voltate la faccia a chi non fa parte della vostra famiglia. Abbiate rispetto per il ruolo che vi siete assunti.

E' già un miracolo, voglio dire, che chi ha accolto l'eredità di quel partito fortemente novecentesco possa ancora fare numeri importanti, non solo nella piccola città de Lu Portu.

Agite da amministratori, non da feudatari.
E' l'unica preghiera che vi rivolgo da cittadina, con la fotocamera al collo, dall'altra parte del palco.

Lasciate che alla fine dai miei scatti di fotoamatrice venga fuori anche la vostra anima. Mostrateci di averne una.

mercoledì 7 giugno 2017

Ti aspetto nei miei sogni

Tre anni fa, più o meno a quest'ora, mia mamma se n'è andata. Ho sempre il timore (e il terrore) di scadere nella retorica, per cui perdonatemi se non scriverò molto di più su quel momento.
Erano però vari giorni che pensavo di buttare giù qualche riga, partendo dal presente.

In tre anni la mia vita è cambiata quasi totalmente.
Ho la sensazione che mi si sia seccato il cuore, da una parte; dall'altra, di aver sgombrato la mia pur sempre confusionaria e velleitaria testa da un mucchio di ciarpame.

Come vorrei dirlo a lei, che pure, se lo sapesse, mi guarderebbe ancora con un misto di amore e scetticismo.
Quante volte ci siamo ritrovate in cucina, io seduta nella sedia di lato alla credenza, lei su quella che ora uso sempre io quando resto lì a guardare la tv la sera, spesso anche quando papà se ne va a letto.
Prima non vedevo l'ora che quest'ultimo sgomberasse per potermi piazzare sul divano a fare zapping sul mega-schermo (pure negli anni Ottanta il salotto era il luogo deputato all'apparecchio più grande).

Di ritorno dall'università mi fermavo a lungo, di solito dopo pranzo, a raccontarle i fatti rilevanti dei giorni passati lontano da lei. Qualche volta scendevo pure più sul personale, come quella volta - ce l'ho davanti ancora chiaramente - in cui le ho svelato di essermi fidanzata.

Conoscendola, doveva impazzire di gelosia e di rabbia: "chi sarà mai quest'ennesimo scansafatiche?" Di certo si augurava solo che non facessi qualche leggerezza, anche se, sul fronte sesso, in verità, sapeva essere piuttosto esplicita. "Guai a voi se fate la pizza". O qualcosa del genere, di solito riferito a qualche figlia di sedicente amica di collega, che, per l'appunto, l'aveva fatta e addio scuola e altri progetti.

Voleva proteggermi dall'amore, una parola così abusata la maggior parte delle volte in cui la si associa al rapporto sentimentale.

Lo sapete: non sono madre, per cui quella roba strappa-budella che ti succhia sangue ed energia da dentro la conosco solo per sentito dire.

So però che in molti casi aveva ragione lei: non c'è quasi nessun legame che duri per sempre, ma quando ne incontri qualcuno che vale la pena alimentare e far fiorire non c'è genitore che ti possa trattenere.

Mi dispiace di averlo capito troppo tardi, cioè di non averglielo potuto dire. Ma forse non avrei dovuto usare le parole: mi avrebbe sgamata guardandomi in faccia.

Per amare bisogna avere rispetto di sé, curarsi profondamente, ascoltarsi davvero.
Tu hai saputo amare me e Linda perché ci hai saputo parlare a volte con brutalità elefantiaca, ma insieme con rispetto.

"Sembri proprio una giornalista", commentavi leggendo qualche boiata che vi costringevo a sciropparvi. Mi è sempre piaciuto questo sano ridimensionamento del narcisismo da prima della classe e anche se faccio tuttora quotidianamente i conti la mia scarsa soddisfazione professionale, so che quella è l'unica strada per diventare persone equilibrate.

E' insomma come se, perdendoti, tu ti fossi installata stabilmente dentro di me aiutandomi quasi minuto per minuto a non sprecare energie in operazioni fallimentari, in relazioni inutili e altre cretinerie.

Non ho ancora la forza che hai dimostrato tu nell'ultima fase della tua vita né so nulla di quasi nulla su perché diavolo di ragione io sia piombata sulla terra.

So di più sulla fragilità umana, anche sulla tua e, se possibile, mi manchi ancora di più anche per questo. So pure che le lacrime non vanno sparse al vento come gocce di caligine.
Quando piangerò di nuovo, sul serio, sarò da sola: quelle lacrimucce di commozione che facevo fatica a mostrare da adolescente e che, invece, ogni tanto spuntano fuori adesso che mi avvio ai cinquanta, non sono altro che piccole melensaggini.

Dentro, sono un gigante, cara mamma, ma sto ancora crescendo, le articolazioni scricchiolano per questo (sì, come no).

Mi sono accorta di essere passata dalla terza persona al tu, parlando di lei. Parlando di te.

Perdonami per non aver capito tutto il dolore che provavi mentre te ne andavi. Per aver avuto così tanta paura della vita per lunghi, lunghissimi anni, da seguire alla lettera le tue raccomandazioni maternamente rigide anche quando non sarebbe stato necessario.

La verità è che io non ero in grado di amarti come tu hai fatto con me, ora lo so.

L'amore non si sceglie, l'amore arriva e basta, come io (e mia sorella) siamo arrivate da te.

Non so come chiudere: la banalità chiama.

Ti aspetto nei miei sogni.