mercoledì 28 febbraio 2018

Il concorso Inps? Semplice come Peppe



Non avevo mai visto lo spot della ministra Madia e ignoravo, almeno fino all'altro ieri, chi fosse Peppe. Adesso credo che non lo dimenticherò mai più.

A imprimermelo per sempre nella memoria ci ha pensato la preselezione Inps, alla quale mi sono molto incautamente iscritta.

Non starò qui a ripercorrere le solite tappe delle sfighe professionali che mi hanno portato a partecipare a questo grande rito ordalico. Mi limito solo a narrarvi le tappe di una giornata cominciata intorno alle cinque e trenta nella nostra beneamata capitale d'Italia.

Faccio una buona colazione, comprensiva di arancia iniziale e tisana finale, e mi avvio verso la stazione di Tiburtina. E' la mattina seguente all'arrivo del Burian.

Scopro che il treno che avrei dovuto prendere è stato cancellato, ma poco male: sono approdata sui binari talmente presto grazie all'incredibile palesarsi del 71, autobus noto per i suoi epici ritardi, da riuscire a prendere la corsa prima. Bardata come Armaduck, o come diavolo si scrive.

Penso: tutto questo è un segno, la selezione andrà alla grande e io sarò presto seduta sullo scranno più vicino a mister Boeri. 

Tu chiamale se vuoi, illusioni.

Sbarcata in zona fiera, una landa desolata che con quelle macchie di ghiaccio a leopardo fa tanto pensare alla Svezia di Rebecka Martinssonn, il pm più scoglionato dei gialli di Giallo, seguo la scia umana verso l'area est.

Impossibile sbagliare, a patto di non seguire il gruppuscolo che, non si sa perché, entra in una malinconica area di servizio anziché seguire, come facciamo io e un giovane candidato con una bizzarra sciarpa a stelle e strisce, un altro dotato di navigatore, che il suddetto tiene fisso davanti agli occhi come un breviario.

Dunque, ci siamo. E io realizzo, e lo svelo pure al succitato giovane con sciarpa yankee prima di lasciarlo andare al suo destino, che io, in quell'ameno posto, ci sono già stata.

E già. Sette anni fa, o quasi. All'ennesima crisi di rigetto per un lavoro che non dà uno straccio di sicurezza a meno di non avere la botta di culo (e la bravura, certo) di farsi incollare il deretano su una sedia delle poche testate giornalistiche (degne di questo nome) rimaste.

Quella volta era l'Istat e pure quella volta, accucchiai un po' di giorni per riesumare nozioni varie aritmetico-universitarie, a questo giro condite anche con un pizzico di geografia, storia, letteratura italiana da liceo e, udite udite, educazione civica, una materia che non pensavo nemmeno si studiasse più.

Non avevo molte chance, diciamolo, ed è anche per questo che man mano che si avvicinava la giornata di tregenda che sto per descrivervi, saliva in me sempre di più il desiderio di battere in ritirata.

Eppure, non mi piaceva l'idea di aver speso sedici euro (fortuna lo sconto feltrinelli) per comprarmi il manuale dei quiz più striminzito di tutti quelli in commercio (usciti, da notare, ben prima che si rendessero note le date della preselezione) né di averne buttati quasi 150 per prendermi l'ennesima certificazione di inglese, prerequisito (contestatissimo) per poter partecipare al concorso.

A dirla tutta, manco quella mi è riuscita bene, visto che ho ottenuto un B2 parziale che a volermi fare le pulci, mi dovevano contestare subito, così ci mettevo subito una pietra sopra.

Ma i riti di iniziazione verso la nuova, luminosa vita che mi aspetta andavano compiuti fino in fondo, quindi mi appropinquo all'ingresso della fiera. Quand'ecco che scorgo una faccia nota a poca distanza da me.

Appena prima, vedo un microfono con la scritta bianca su sfondo verde che recita: ANSA. Lo tiene in pugno una donna bionda. Accanto a lei, eccolo là: coppola su cappottino scuro di buon taglio, sorriso smagliante e aperto come un tempo sui capelli ingrigiti e corti. E pensare che una ventina d'anni fa circa (minchia: UNA VENTINA??? vado a sotterrarmi) li aveva come Caparezza o Branduardi, se preferite.

Faccio di tutto per non farmi beccare. Va bene tutto, penso, ma il compagno della scuola di giornalismo, nonché ex fidanzato di una mia coinquilina con taccuino d'ordinanza, no, non ce la posso fare.

Mi innervosisco un po', lo ammetto. Per fortuna ho ancora il telefonino, così comincio a messaggiarmi con mia sorella soprattutto per raccontarle del malcapitato incontro.

Rifletto: a parte il piumino rosso, per il resto sono ben nascosta dal mio ridicolo cappello da elfo, gli occhiali e la sciarpa. E poi, si sa, non svetto esattamente sulla folla.

Mi mescolo perciò ai ragazzi che fanno la fila per lasciare bagagli e zaini. Il tipo si avvicina alla coda, io mi giro per dargli le spalle. Avessi avuto anche un giornale, me lo sarei spiegato davanti alla faccia facendoci due buchini. 

La fila scorre lenta, ma in qualche maniera arrivo in fondo, pago due euro (mortacci loro) e consegno tutti i miei beni, portafoglio compreso, agli addetti al guardaroba.
Mal me ne incolga: me ne rendo conto dopo, al momento di rientrarne in possesso.
A quel punto, comunque, saranno a stento le nove e mezzo.

Tracce che preannuncino l'inizio della prova (che poi avverrà alle 12.36, diciamo con calma) non ve ne sono.

Il mio amico, però, è ancora pericolosamente tra noi, per cui mi tengo in movimento per continuare a schivarlo, da un lato, dall'altro per capire come si comporta in casi come questo.

Scriverà un pezzo di colore? Intervisterà qualche disgraziata/o scegliendo a caso come avevo fatto io, in analoga, molto meno ben pagata, circostanza circa un anno fa?

A proposito: sono rimasta in contatto con la coppia di giovani infermieri salentini, venuti a Fermo per un concorso che poi non so come sia finito. Li ho accompagnati in macchina alla stazione per non fargli fare un bel tratto a piedi al termine della prova. Mi hanno raccontato che avevano deciso di partecipare alle stesse selezioni in giro per l'Italia nella speranza di passarle insieme per potersi finalmente sistemare. Che teneri. 

Ho provato analoghi sentimenti anche l'altro ieri, rendendomi conto dell'enorme differenza d'età tra i pochissimi adulti (e passa) come me che chissà perché avevano scelto analogamente di vivere questo tranquillo martedì di paura, e tutti gli altri.

Di molti di loro potevo essere serenamente la madre. Credo di aver scorto anche un padre e un figlio entrambi candidati. Il padre mi ha lanciato un lungo sguardo, come se mi dicesse: "Ma sei una candidata o un'accompagnatrice?". A un certo punto ho visto pure un vecchio con un loden e mi sono detta: "Beh, no, non può essere che partecipi pure lui". Ed è stato in quel momento che sono scoppiata a ridere. 

Meno male. Da lì ho cominciato a rilassarmi.

Mi allontano un pochino dalla folla e salgo al piano superiore, affacciandomi da una specie di balcone con vista sulla disordinata fila al deposito bagagli. Eccola là la coppola con cappotto tre quarti. La osservo muoversi da un punto all'altro, finché si piazza proprio sotto di me. Il taccuino old  fashioned è sparito e ora scrive o prende appunti, chissà, direttamente sul telefonino.

Avrei pagato per avere un binocolo e leggere che diavolo stava digitando. Ammetto che quello sia stato l'unico momento in cui ho provato un pochino di invidia. Ma un resoconto così, da insider, mica l'ha potuto fare lui? Bella consolazione.

Appollaiata lassù, leggo pure un po' un giornale abbandonato da qualcuno, ma poi mi accorgo che la folla comincia a scemare. Starà succedendo qualcosa?
Mi conviene scendere e andare a controllare. In effetti, i candidati vengono risucchiati dietro una porta che si apre facendo entrare tutto il gelo di Burian. Non che lì dentro facesse granché caldo: se non fossi stata vestita come Rebecka, temo che non l'avrei presa così sportivamente.

Si va. Eccoci dentro. Mostro la domanda firmata e datata alle tipe e il documento:"Sei nata nel 1971?". "Sì". "Come una mia amica", commenta la giovane e gentile addetta facendomi sentire un po' meno anziana. Pensate se mi avesse detto "come mia madre", "o mia nonna", ha aggiunto mia sorella mentre, a metà pomeriggio, mangiavo la pasta al pesto che mi aveva messo da parte.

Mi indicano un banco. Mi siedo. Correnti glaciali arrivano da dietro le mie spalle.
Mi guardo intorno. C'è uno con i capelli grigi, e vai. Ma magari era albino.
Sulla mia destra una ragazzina (giuro: sembrava una liceale) con i capelli rossi e un visino spaurito (magari è lei che ha preso 26, ossia il voto più alto della prima mattinata). Sulla mia sinistra un ragazzo occhialuto, un futuro Enrico Letta, a occhio.

Giustamente loro mi guardano perplessi, io evito di fissarli troppo a lungo. Però è impossibile non scambiarsi almeno qualche parola, anche perché l'attesa è davvero impressionante.

La commissione non sa più cosa inventarsi per intrattenerci, dopo averci illustrato la rana e la fava delle regole concorsuali almeno tre volte.
Il fatto è che, per la trasparenza, hanno deciso di stampare TUTTI i quiz direttamente lì, nello stanzone della fiera. Meriterebbero il Nobel dell'organizzazione. Persino Peppe ne andrebbe fiero.

Ma chi è Peppe? Eh, se sapeste. Oltre a essere l'incarnazione dell'homo medius alle prese con la pazza pazza burocrazia, Peppe, e lo spot girato sui canali Rai a fine 2017 che ne narrava le gesta, era l'oggetto di una domanda cui avrei dovuto rispondere.
Non sapendola, l'ho lasciata in bianco come suggerivano di fare per non incorrere in penalità.
Peccato che così facendo non abbia risposto a un terzo dei quizzzzzz, ma così almeno ho conservato un pochino di dignità.

E no perché, francamente, l'altro ieri mattina mica mi ricordavo che il lago di Bolsena è vulcanico né avevo la benché minima idea di quante probabilità avevo di estrarre una penna di un colore o un altro.

Insomma, non l'ho passato, ma non ci è riuscita neanche la stragrande maggioranza di questa bella gioventù che si è buttata a corpo morto sul concorso manco se fossero pacchi umanitari lanciati dall'aereo.

Molto frequenti gli accenti del sud, molte le ragazze. Una di queste, dalla faccia rubiconda e solare, ha fatto una battuta mentre aspettavamo di riprenderci le borse schiacciati dietro al nastro blu dall'ennesima non fila: "Se mi davano cento euro lo facevo io questo lavoro di andare avanti e indietro: così facevo anche un po' di palestra!".

Magari lei è un'altra di quelle che sfilerà la sedia dalle terga di Boeri (detto con tutto il rispetto per il suddetto, visto che per lo meno ha avuto uno straccio di idea per rinnovare un pezzo importante della nostra pubblica amministrazione. Magari non queste modalità di selezione, ma d'altra parte è tutto un annerire di pallini un po' in ogni dove).

Glielo auguro: come Papa Bergoglio, mi sono ritrovata a pensarlo molte volte guardando tutti questi ragazzi disorientati da un paese che di certo non dà loro molte speranze. Basta leggere i commenti della pagina Facebook del concorso, che a breve abbandonerò, per farsi un'idea di chi siano i giovani italiani di oggi.

Per chi non avesse visto il servizio al tg1 (e già, c'era pure la Rai: un tipo ha chiesto anche a me se volevo dire qualcosa sul concorso, davvero paradossale) o letto il pezzo del mio ex compagno della scuola di giornalismo, i circa ventunmila partecipanti erano come minimo laureati, 33 anni l'età media, tutti o quasi con una conoscenza dell'inglese (ma chissà quante altre lingue parlano) superiore al livello intermedio.

Insomma, in buona parte si trattava di ragazzi preparati, costretti a un a genere di selezione che definirei cretina e insieme crudele. 
Certo, ci si può anche sottrarre, ma non è semplice se intorno hai il deserto.

Ci mancavano, poi, anche le condizioni meteo a rendere ancora più ostiche le due giornate di concorso: moltissimi i disagi, diverse le rinunce e altrettante le proteste. Qualcuno ha chiesto se potevano rinviare le prove, qualcun altro di potersene andare via prima per non perdere l'aereo pagato, presumo, non pochissimo pur di abbattere per lo meno il costo del pernottamento a Roma.

A questa persona, pare, avrebbero risposto che no, non si poteva fare, perché lei, loro, cioè noi, non avevamo diritti.

Non ero presente, per cui non posso avere la certezza che la conversazione si sia svolta esattamente così.
La vera tristezza, però, è che il presunto autore di una così infelice frase tutti i torti non li ha.

Bella, bellissima la nostra Costituzione, che ho avuto il piacere di rileggere in vista dell'anneritura dei pallini. 

Peccato che sia quasi del tutto inapplicata. 

E non ditemi che adesso abbiamo l'occasione di cambiare le cose nel segreto della cabina elettorale.

Ma giusto in chiusura mi assale un dubbio: non ci sarà mica da annerire qualche pallino pure lì?

giovedì 22 febbraio 2018

Ho ancora bisogno di te


Dovrei alzarmi da questa sedia e andare a fare qualcosa di pratico, ma sono giorni e giorni che ho davanti questa fotografia, ri-fotografata l'ultima domenica dello scorso gennaio, al termine di un pranzo di famiglia che ho voluto strappare alla routine degli spostamenti da e verso Chieti in solitaria, quelli fatti, voglio dire, da mia sorella e da me per dare il giorno di riposo alla tizia che dorme da nostro padre.

Eravamo davanti al Campidoglio, in abiti eleganti come si conviene alla mamma e alla sorella della sposa. Ricordo molte cose di quella giornata e anche di quella seguente, compresi alcuni piccoli incidenti frutto dell'emozione collettiva (e del maltempo: quanta pioggia!).

La osservo spesso quando vado giù, come faccio, d'altra parte, anche con le altre fotografie appese alle pareti da lei, nostra, mia madre.

Le piaceva radunarle in piccoli collage corredati di didascalie scritte a penna che man mano vanno sbiadendosi. 
Negli anni era diventata più palesemente sentimentale, anche se manteneva comunque un certo contegno, tipico di chi non gradisce troppo le smancerie.

Eppure amava riceverne o almeno io ricordo diverse occasioni in cui si è mostrata offesa per la mancanza di tatto, vera o presunta, degli altri. 
Permalosa? Forse sì, lo era, ma vere ferite non credo ne abbia ricevute. 
Qualche delusione gliel'abbiamo data (io di sicuro), ma il legame tra noi non si è mai spezzato e credo l'abbia sentito (almeno lo spero) fino alla fine.

Comunque, tornando alla fotografia, mi piace molto l'espressione che abbiamo entrambe.
Il suo sorriso è aperto e accogliente (credo dipenda dall'autore dello scatto, mio marito, presumo, verso cui mia madre ha mostrato, diciamo quasi da subito, grande simpatia).
Io, invece, non mostro i denti, come faccio nelle foto non forzate.

Mi limito a sorridere, appoggiandomi leggermente a lei, la mia forza, il mio bastone. Anche in senso negativo.
Non c'è stata mai nessuna persona capace di farmi sentire piccola e insignificante più di mia madre.
Che, al contrario di quanto possiate pensare in questo momento, mi riempiva spesso di complimenti, soprattutto per il mio aspetto e per la mia natura "fragile e forte", come mi scrisse in una lettera.

In quel periodo litigavamo per le mie scelte professionali, ma lì, in quello scatto, mi accorgo che non ve ne fosse minima traccia. Il bene che ci volevamo andava oltre la ragione, i progetti e gli errori che pure sono seguiti.

In quella foto sono solo la figlia, la sua Sandrina così confusa e dolce, la sorellina orgogliosa che gioca a fare la donna, ma che in realtà ha ancora bisogno di affetto e di supporto.

Ne ho bisogno ancora oggi, ma quello sguardo lì non c'è più né potrà più esserci. 

Sono stata fortunata, però.
Non tutti sono amati dai genitori, dalle madri, poi.

Avrei voluto avere più tempo per farmi vedere come sono oggi, con le pezze al culo più del solito,  un po' smagrita, ma con la testa assai più sgombra dalle inutilità.

Chissà che faccia avremmo avuto se avessero potuto fotografarci insieme a una festa, o magari durante un viaggio, uno dei molti che lei avrebbe voluto fare e che molto vorrei fare anch'io prima che sia troppo tardi.

Eppure io sento che c'è e che mi segue. Ogni tanto mi viene a trovare in sogno e in genere è energica come lo è stata da viva. 

Che mi stia dicendo ancora di non mollare?
Ma io non mollo, cara mamma, stai tranquilla. Non è facile, no, anzi: è durissima, ma sento di essere a un passo dal decollo, e stavolta non è un'illusione delle mie, perché di illusioni non ne ho più.

Aiutami a restare concreta e insieme a non avere paura. 
Fammi sentire che posso ancora appoggiare la mia spalla alla tua e sorridere lievemente, come in quella foto.

E non andartene, non ancora, almeno.

C'è molto bisogno di te, quaggiù.
Io, figlia a metà, ho ancora molto bisogno di te.


venerdì 19 gennaio 2018

Omaggio a José Greco, il re italiano della danza spagnola

José Greco nel film "La nave dei folli", 1965


"Eccovi qua chi ero: un bambino italiano cresciuto a Brooklyn, diventato un ballerino di danza spagnola e dopo, per qualche bizzarria del destino, 'il brindisi della Scandinavia'. Nessun romanziere vi avrebbe mai consigliato una trama simile".

Le parole sopra riportate appartengono a Costanzo Greco, il nome vero del Principe del flamenco noto anche a Hollywood con il nome di José Greco, nato a Montorio dei Frentani, oggi in Molise, due giorni prima del Natale 1918.

La frase è tratta dall'autobiografia scritta dall'artista con Harvey Ardman nel 1977, intitolata The gypsy in my soul, letteralmente "lo zingaro nella mia anima". 
Se mai avesse potuto tradurla nella lingua madre, ho la sensazione che Mister Greco avrebbe scelto di puntare di più sul suono fortemente evocativo della nostra parola cuore, associandolo, certo, alla componente "zingara" dell'arte della sua vita, ma anche alla nostalgia per le radici lontane, ricercate probabilmente in tutte le donne che ha amato.

Peccadillos chiama il nostro eroe le storie multiple e le avventure passeggere intrecciate mentre mette su e porta al successo la compagnia di ballerini di origine prevalentemente ispanica e gypsy, con la quale sbarcherà nel giugno del 1949 in Scandinavia e Danimarca, le prime terre del Vecchio Continente, dopo la Spagna qualche anno prima, destinate a consacrarlo a sovrano della danza spagnola moderna, approdata in Europa e in Nord America negli anni Trenta dell'Ottocento.

Un po' di storia del flamenco e dintorni, tratta da giornali dell'epoca, è riportata nel libro nel punto in cui Greco parla della vigilia del debutto a Broadway, a pochi metri da dove ha fatto il "ticket runner", quando il suo futuro agente Jack Nonnebacher gli consiglia di lasciar perdere la danza e di fare piuttosto il camionista.

Chi avrebbe mai immaginato, invece, che un giorno il suo nome sarebbe comparso a caratteri cubitali e luminosi sulla facciata del Lee Shubert Theatre? Probabilmente non l'avrebbe mai detto nemmeno l'impresario che dava il nome a quest'ultimo se non l'avesse notato nel film "Manolete", visto per caso qualche anno dopo l'uscita in una sala di Parigi. 
E dire che il nostro Costanzo non ne parla benissimo nel libro: ricorda, sì, di aver ballato molto bene (altro che), ma le riprese durano molto più di quello che gli avevano promesso, in anni in cui lui si è già fatto conoscere e apprezzare direttamente a Siviglia, durante una tournée molto impegnativa che gli permette di accumulare sufficiente denaro per tornare in Italia per la prima volta dall'infanzia e portare una montagna di regali ai suoi compaesani.

Ancora oggi, dalle parti di Montorio, si rievocano di tanto in tanto i bauli carichi di vestiti (e molto, troppo pepe!) collocati dal danzatore italo-americano in mezzo alla piazza perché ognuno potesse scegliere quello che voleva. 
Divertente l'aneddoto-postilla che di sicuro avrà prodotto analoga reazione anche sullo scrittore che l'ha aiutato a buttare giù i suoi ricordi. Gli dice infatti lo zio: "Sei stato così generoso con noi, Costanzo, ma la prossima volta...". "La prossima volta cosa?", gli risponde la nostra star. "Beh, il denaro sarebbe più utile. Con il denaro potremmo comprarci da soli le cose, magari più economiche di quelle che ci hai comprato tu".

Della serie: evviva la gratitudine.

Da migrante transitato per l'Oceano Atlantico a bordo di una nave come tanti prima e dopo di lui, Greco però capisce il senso della richiesta del suo parente, perché conosce, eccome, il valore del denaro, un tema che percorre tutta la sua autobiografia e che, credo, lo avrà preoccupato fino alla fine dei suoi giorni.

Perché il successo non ti regala necessariamente anche la stabilità economica, ribadisce a più riprese: pagine e pagine, anzi, sono dedicate proprio all'analisi delle spese affrontate per organizzare le tournée, altre alle trattative con gli artisti, non tutti descritti come il massimo dell'affidabilità. Più di qualcuno, anzi, l'abbandona nel mezzo dei preparativi di un nuovo spettacolo, per altri Greco è costretto a fare da mediatore per via di intrecci amorosi piuttosto complicati. 

A volte si sente la fatica che gli costava tenere tutto in piedi, considerando anche i suoi, di intrecci amorosi, un aspetto di cui parla piuttosto diffusamente.

Al di là di tutto, a me sembra vero solo questo: Greco doveva danzare e diventare la star che tutti gli appassionati di danza spagnola conoscono e ammirano ancora oggi.

Se non l'avesse fatto, la storia dell'umanità lo avrebbe rimpianto per sempre.

Per capire di che cosa sto parlando, basta vederlo atterrare con il ginocchio piegato con quel "mix di eleganza e forza" che gli attribuiscono i critici all'indomani del debutto a Broadway. Le repliche dovevano essere una quindicina, ma Mister Shubert le allunga a un paio di mesi. Nel frattempo, Greco va anche in tv e riceve altre proposte cinematografiche. 

Nel '52 esce il film "Sombrero", un rifacimento di Don Chisciotte in salsa messicana, racconta, girato da Norman Foster. Nel film è costretto a dare uno schiaffo alla protagonista (Chyd Charisse) che interpreta la parte di sua sorella, mentre lui è un discendente di una famiglia di zingari spagnoli, oltre che un torero.  La pellicola non lo convince, o forse è più esatto dire che è lui a non essere convinto di se stesso, perché un conto è danzare, un altro è essere pronti ai ripetuti ciak chiesti dal cinema.

Sia come sia, noi profani non ce ne accorgiamo e ogni scena in cui l'hanno immortalato mentre accompagna l'aria con il suo corpo è un puro piacere per gli occhi. E l'anima. O il cuore, se preferite.

Lo sapeva persino Simone Signoret, sua compagna di cast nel film La nave dei folli, accanto a molti altri famosissimi attori, che un giorno gli dice: "Sai, José, non avrei mai potuto avere una storia con te". "E perché?", le risponde lui sorpreso. "Beh, sei troppo simile a mio marito, Yves Montand. Se avessimo avuto una storia mi sarebbe sembrato di fare l'amore con lui. E quello posso averlo di tanto in tanto".

Simpatica e intelligente la Signoret, non c'è che dire, come riconosce Mister Greco, che apprezza molto anche Vivien Leigh, David Niven, suo compagno di cast nel "Giro del mondo in 80 giorni" e svariati altri Vip.

Tra i più famosi c'è sicuramente Frank Sinatra, che gli regala un mucchio di soldi salvandolo dai guai in un casinò di Las Vegas. E poi ci sono gli incontri ufficiali, come quello che Charles De Gaulle, che si vede stringergli la mano durante una cerimonia di gala. Prestigiosissima è la Croce di Cavaliere al merito civile di Spagna ricevuta in ambasciata a Washington l'8 aprile 1962.

Proprio quell'anno è nato José jr, uno dei figli di Lola DeRonda, un'altrettanto indimenticabile regina della danza spagnola, che sarà celebrata con l'immortale papà in una serata omaggio prevista a Porto San Giorgio il prossimo 2 febbraio nel teatro della cittadina marchigiana a partire dalle 21.15. 




Come mai lì? Perché proprio a Lu Portu vive il quartogenito di Costanzo, José jr, ballerino e insegnante come poi è stato anche suo padre: a lui e all'attrice Elisa Ravanesi innanzitutto il merito di aver organizzato lo spettacolo al quale parteciperà anche la sorella minore Lola e altri artisti appassionati di musica e danza spagnola.

Molto disonorevolmente sono stata coinvolta anch'io nelle vesti, davvero poco abituali, di presentatrice.
Non vi nascondo l'ansia, ma insieme anche l'emozione, autentica, per questo viaggio alla scoperta di una vita davvero straordinaria.

Verso la fine del libro Costanzo cita una vecchia storiella vaudeville che gli racconta una volta il suo caro amico Nonnebacher, per risollevarsi reciprocamente di fronte agli ennesimi problemi economici.

"C'era un uomo che affermava di avere di un asino parlante, ma quest'ultimo non parlava mai". Greco non rammenta i passaggi intermedi, ma sa che a un certo punto c'è un impresario che aspettava e aspettava che l'asino finalmente parlasse che dice all'uomo: "Quando l'asino parlerà, diventerai ricco". Bene: per Jack un giorno o l'altro l'asino avrebbe parlato.

Proprio nelle ultime righe mister Greco si sofferma sulla sua grande ed estesa famiglia, dedicando parole a ciascuno dei suoi sei figli e a Nana Lorca, la penultima compagna di vita prima della giovanissima Anna, che si innamorerà di lui quando ha appena sedici anni e lui molti di più: e infine ad Argentinita, vera e propria sacerdotessa della danza spagnola, colei che gli dà il nome d'arte José oltre che l'anello simbolo dell'unione imperitura con l'arte. Quindi conclude: "In qualche modo, credo che il futuro si farà da solo. E chi lo sa: forse l'asino finalmente parlerà".

Speriamo abbia ragione. Ma sì che ce l'ha.

Nell'attesa, chi può, intanto, venga in teatro a vederci.





martedì 9 gennaio 2018

Vitaliano Trevisan parte seconda: risposta (scritta) alla domanda di un amico

Come pensi si debba reagire di fronte a un cambiamento lavorativo? Cosa ti ha lasciato il fatto di aver dovuto affrontare nuove situazioni, conoscere nuovi colleghi, etc?



La domanda in corsivo mi è stata fatta via Whatsapp da un amico che mi ha onorato della lettura del post precedente sul libro di Vitaliano Trevisan.

Con mia grande sorpresa, mi ha spiazzata: e mo' che gli rispondo?, mi sono detta.
Per prendere tempo, gli ho chiesto di mandarmi la sua mail: ho bisogno di "nascondermi" dietro le parole scritte, ho precisato.

E' davvero difficile dire qualcosa di univoco. Spero almeno di riuscire a essere chiara.

Dunque, cominciamo.

Parto dagli stage, per definizione destinati a concludersi in tempi più e meno rapidi.
Nelle aziende più grandi (la più grande per definizione nel settore pubblico della tv, per capirsi) mi vedevo talmente ragazzina professionalmente parlando, da non aver mai neanche per un momento pensato che quello sarebbe stato il mio futuro luogo di lavoro. Accomiatarsi alla fine, perciò, è stata più una festa di fine anno scolastico che altro. Poco tempo fa, tra l'altro, ho ritrovato le foto che avevo scattato l'ultimo giorno ai colleghi, alle cui scrivanie (com'è successo in tutti i successivi stage che ho fatto dopo) mi alternavo in coincidenza con le loro ferie. Che bella esperienza e che ambiente rilassato, almeno all'epoca.

Un po' diverso è diventato il mio atteggiamento con i primi contratti di collaborazione fino alla sostituzione di maternità nel giornale economico più importante d'Italia, vissuta, francamente, non al massimo della mia lucidità.

Lì chiudere non è stato affatto semplice (mi ricordo i pianti e la scatola con i pochi effetti personali che ho dovuto portare via con me), anche se a distanza di tempo ho fatto pace innanzitutto con me stessa per l'incauta scelta di andarmene dalla città.

Poi sono venuti i primi tre anni marchigiani, partiti, romanticamente, benissimo. Lo strappo finale è stato duro, molto duro, e mi ci è voluto del tempo per abituarmi alla solitudine di una casa non mia, a pochi passi da una piazza addormentata nella nebbia, a svolgere un lavoro a distanza, parlando quasi tutti i giorni con gente che abitava, guarda caso, proprio nella città che tanto mi era parsa ostile. Era strano non incontrarsi, ma con il tempo, però, finisci per abituarti al silenzio e anche all'indipendenza che ti regala l'assenza di subordinazione.

Quel lavoro è finito poco alla volta, come un paziente terminale che man mano se ne va. Ed è coinciso, in effetti, con la malattia di mia mamma, per cui, sinceramente, non ne ho avvertito più di tanto la conclusione definitiva.

Poi sono sbarcata a Lu Portu, con un'energia e un'incoscienza forse tipiche dei cani che viaggiano da troppo tempo a briglia sciolta.

Le chiusure degli ultimi tempi non sono state, quindi, granché dolorose, perché via via ho finito per considerare normale che qualcosa finisca (soprattutto quando non si crede che valga la pena proseguire), con tutto quello che comporta in termini di relazioni umane che saltano. Di qualcuna sento la mancanza, ma è meglio andarsene nutrendo un sentimento positivo piuttosto che arrivare a non sopportarsi più.

Sia che si scelga di andarsene, ma anche in caso contrario, resta però latente un certo sapore amaro, che non so dire se sia senso di colpa o una sottile forma di auto commiserazione, ma dura poco: giorni, settimane, al massimo pochi mesi. Almeno, finora è stato sempre così.

In tutto questo gran peregrinare disordinato, ho comunque fatto chiarezza su quello che mi aspetto da un lavoro e mi pare già un grande risultato. 

Rimando alla prossima domanda del mio amico (se mai avrà il coraggio di farmela) la spiegazione della precedente frase (una persona disoccupata è bene che tenga un basso profilo: non si sa mai che si giochi qualche buona occasione di lavoro), però davvero lo ringrazio di avermi dato l'occasione di tornare sulle riflessioni scatenate dalla lettura del bel libro di Trevisan.

lunedì 8 gennaio 2018

Vitaliano Trevisan, il lavoro e il dolore che fa bene


Ero indecisa se scrivere qualche riga su Works, il libro di Vitaliano Trevisan che ho finito di leggere ieri mattina. Non vorrei che si confondesse la forte impressione che hanno prodotto su di me le oltre seicento pagine che lo scrittore vicentino ha dedicato ai suoi svariati e più lavori che l'hanno impegnato dai tempi della scuola al 2002 con il mio personale percorso professionale così disastrato.

Certo, se Trevisan mi ha colpito vuol dire che ha toccato qualche corda che mi riguarda molto direttamente, ma il rischio che corro, quando succede com'è effettivamente successo con lui, è di diventare barbosa oltre ogni misura.

Posso solo dirvi che consiglio la lettura di questo viaggio nella ricca provincia italiana del Nord Est, partito negli anni Settanta del secolo scorso e approdato nei primi due dell'attuale, a chi abbia voglia di immergersi in una scrittura cervellotica e sinuosa, ironica e amara. 

Ho letto qui e là paludatissime recensioni che ne coglierebbero citazioni più e meno esplicite da Thomas Bernhard, un autore a me del tutto sconosciuto. Niente di più facile, visto che Trevisan lo nomina nel libro a più riprese come uno dei suoi tre numi tutelari, letterariamente parlando, insieme con Samuel Beckett e Ludwig Wittgenstein. La mia crassa ignoranza mi ha preservato finora dalla lettura pure degli altri due, quindi figuriamoci se mi metto a negare l'esistenza di punti di contatto tra lui e loro.

Sia come sia, Trevisan mi ha fatto invece nascere proprio la curiosità di saperne di più, di Bernhard and co, e in generale ho apprezzato la generosità con la quale si è messo a nudo, o ha finto di farlo (restando però credibilissimo), probabilmente, più di quello che dichiari in corso d'opera.

Dev'essere, in ogni caso, un grande rompicoglioni proprio come si dipinge, dotato contemporaneamente di un istinto speculativo (alla Wittgenstein?) non comune.
Oggi dice di vivere in un paesino di collina lontano dal centro storico "che gli fa schifo" e di passare poche ore al giorno a scrivere, e il resto a camminare o a spaccare la legna.

A vederlo, non dà l'idea che voglia fare il guru e francamente spero di non sbagliarmi.

Mi toccherà a breve restituire al legittimo proprietario una delle migliori scoperte dell'anno passato: un sentito grazie va a lui, e in generale agli organizzatori del Premio Volponi per la letteratura e l'impegno di civile, tornato a Lu Portu dopo vari anni di migrazioni.

E' già la seconda volta che uno dei libri in concorso (anche l'altra volta non il primo classificato) mi dice talmente tanto da provare quasi dispiacere di averlo concluso. In quel caso si trattava di Sebastiano Nata e il suo "Il valore dei giorni": tutt'altra atmosfera e storia, ma, per me, uguale generosità letteraria.

Che altro posso aggiungere?

C'è troppa retorica sul lavoro come modo per "realizzare se stessi", come dice l'autore di Works. Bisognerebbe, se possibile, tentare di capire chi si è e ciò che si può fare con il solo fatto di essere in vita a prescindere dalle proprie ambizioni, chissà se morali o materiali.

L'inquietudine e più ancora la depressione e la voglia di mandare tutto a ramengo sono fedeli compagne di chi arranca giorno dopo giorno senza una meta precisa, ma io credo, in ogni caso, nell'istinto di sopravvivenza, lo stesso penso che faccia Trevisan e molti di noi.

Meno male, poi, che ogni tanto qualcuno fissa sulla carta qualcosa di fondamentale. Di doloroso, anche, ma di quel genere che di dolore che fa bene, perché ti spinge a non addormentarti, o a farlo nei tempi giusti.

Perciò concludo il post e volto pagina. 
Fino al prossimo risveglio.

giovedì 19 ottobre 2017

George Winston, i gatti e la vita


E alla fine il posto in prima fila ce l'hanno sempre loro: gli amici a quattro zampe.
Sono mesi che non aggiorno il blog e non credo che tornerò a farlo in modo regolare, però ho proprio avvertito l'esigenza di ripassare di qua dopo aver letto un articolo dedicato a George Winston, pianista americano noto (soprattutto) per aver riarrangiato la musica di Vince Guaraldi da quest'ultimo composta per i film sui Peanuts.

Ignoravo quale ruolo avessero giocato i gatti nella vita di questo musicista, autore di un cd di commovente bellezza, intitolato Spring Carousel.

Nell'articolo si spiega come e dove l'abbia realizzato, ossia di sera nella sala musica dell'ospedale nel quale Winston era ricoverato dopo un serio intervento chirurgico.

Non so se questo pianista dal viso etereo e il sorriso rasserenante abbia sconfitto definitivamente il male, ma di sicuro i ventidue gatti che ha incontrato durante la sua esistenza dall'infanzia a oggi l'hanno aiutato a elevarsi al di sopra di ogni dolore.

Basta sentire la sua musica per capire di cosa sto parlando.
Ho corso con i brani di Spring Carousel nelle orecchie durante l'ultima dieci chilometri che ho affrontato in buona parte da sola. Era la prima volta che l'ascoltavo e ne ignoravo la genesi.
Eppure.

L'album è dedicato alla primavera, racconta sempre il musicista nell'intervista, ossia il periodo della sua convalescenza in ospedale.

Un'analoga primavera si è portata via mia madre, ma io non ho smesso di amarla, come stagione, né ho smesso di credere nel potere curativo dei gatti (ma anche dei cani, per chi li ha), che pure lei ha imparato a conoscere a partire da un certo momento della sua vita.

C'è qualcosa in queste creature che ti costringe alla contemplazione. La grigia che vedete sopra sulla radio, per dire, tutte le mattine mi miagola fortissimo finché non mi costringe a sedermi e a tenerla in braccio.
Non crediate che lo faccia per affetto: sono certa che voglia solo scaldarsi un po', ma non nascondo che il suo opportunismo mi piaccia davvero molto, perché è come se mi spingesse a fare altrettanto.

Molla gli ormeggi, biondina, sembra voglia dirmi, intiepidendomi le cosce.

Uno dei brani dell'album di Winston porta il nome di uno dei gatti più importanti nella sua vita (si chiama Pixie #13 in C - Gobajie).
L'intervistatore lo giudica particolarmente ispirato e in effetti ha ragione, forse anche perché anticipa bene i pezzi conclusivi dedicati all'amore, in tre diverse declinazioni, difficili da descrivere con le parole.

Se proprio devo sforzarmi, direi che nei brani di Winston (anche in quelli dedicati ai Peanuts) c'è sempre qualcosa che ti invita a lasciarti andare, esattamente come fanno i corpi di questi animali quando dormono.

Al contempo, una musica di così immensa grazia richiede un ascolto attento, così come fa la gatta grigia, quando mi assale con i suoi miagolii finché non mi trasformo nel suo scaldino.

Durante la corsa c'eravamo solo io, le mie gambe e le note di questo straordinario personaggio. Sono arrivata al traguardo quasi riposata. Qualcosa del genere mi capita dopo una seduta con la gatta sulle gambe, tolti gli scricchiolii delle giunture e lo stiramento sonoro molto poco felino.

Sono momenti di presente assoluto e di nostalgia.

Chissà se capisce quello che le dico. Perché, naturalmente, con i nostri piccoli amici si parla. In particolare, arriva sempre un momento in cui muovo un arto preceduto dal mio: "Ok, adesso è ora di scendere, forza". Di solito alza prima mezzo orecchio e solo al secondo o terzo micro movimento salta giù con un vago senso di fastidio. I cuscini umani non valgono una cicca, penserà.

La seduta mattutina mi costringe ad accettare lo scorrere del tempo, a spurgarmi, a volte, dai sensi di colpa per la mia protratta inattività.
La musica di Winston si adatta perfettamente a questo stato d'animo.

Intuisco la grandezza del privilegio che mi è capitato in sorte proprio durante attimi del genere.

Dov'è andata la rabbia? Perché, anzi, ero arrabbiata prima?

Poi, certo, il cd finisce e la gatta si accoccola nell'angolo del divano sulla sua copertina.

Io sono ancora in pigiama o in tuta, non ho nemmeno messo la crema sul viso e non so bene che cosa sarà della mia giornata, ma non è il caso di preoccuparsi.

La vita va avanti lo stesso.
E qualcosa accadrà.
Fino alla prossima seduta musico-felino-terapeutica.

sabato 8 luglio 2017

Voglio di più, stop agli anni amari



Sto per scrivere parole di lagna e di dolore, ma ne ho bisogno, quindi passate oltre, se vi annoio.
Ho scoperto Chantal Kreviazuk grazie a mio marito, molto attento alla musica, tanto più se declinata al femminile.

Lei è un'artista canadese a tutto tondo: oltre a cantare magnificamente, scrive musica e parole, recita ed è pure madre, mi pare di tre figli. In più, è bella e di classe, insomma: una strafiga, almeno per i miei parametri.
La canzone "Into me" che linko sopra fa parte dell'ultimo album intitolato "Hard sail", dedicato al suo matrimonio (in estrema sintesi): il marito di Chantal, manco a dirlo, è un musicista come lei, è belloccio e ora che ci penso sto per avere un attacco di bile.

Scherzo: mai stata un tipo invidioso, io. 
Il che porta al risvolto patetico della faccenda.
Non conoscevo il testo di "Into me" fino a pochissimo tempo fa, quando me lo sono scaricato.

Parla dell'inizio di una storia d'amore e dell'incredulità che prova lei, che al risveglio accanto a lui, si sente invadere dalla gioia quando realizza che lui, sì, proprio lui, non sta andando da nessuna parte.

Non capendone le parole (Chantal gorgheggia "you're not, you're not"), mi ero fissata sulla strofa in cui dice "I want more, I want more", seguito davari "more" in crescendo. 

Correndo con la sua musica nelle orecchie, li ho gridati un sacco di volte, come un inno di guerra (non senza prima essermi guardata intorno: folle sì, ma in solitaria).

"Voglio di più, di quello che credi", diceva Pino Daniele in tutt'altra canzone, parlando, in questo caso, di "anni amari".

Ne ho vissuti parecchi, di anni amari. Ora basta.
Curiosamente, mi sono ricordata di un monologo che in tempi non sospetti mi avevano affidato nella compagnia amatoriale di Chieti Scalo che ho frequentato nel periodo di transizione tra l'università e la scuola di giornalismo, che fino a poco tempo fa ho creduto fosse il più buio della mia vita.

Non rammento più le parole precise, ma impersonavo una donna forse dell'età che ho adesso, che racconta i fatti suoi ad altra gente seduta come lei sulle panchine di un parco.

"Ho avuto anni buoni nella vita, diciamo pure cinque o sei", dicevo a un certo punto. Più avanti nominavo quel "tarlo" che all'improvviso ti entra nella testa levandoti la serenità.

Quel monologo mi ha portato una iella pazzesca o più semplicemente, devo rassegnarmi, io non sono predisposta al "successo".

Davvero non so spiegarmi altrimenti il perché di alcune scelte di vita, alcuni cambi di rotta e ora, a pochi giorni dal mio compleanno, perché mi ritrovi ancora a comportarmi come una vecchissima adolescente.

In verità adesso so che cosa mi farebbe stare meglio, ma purtroppo non posso ottenerlo perché non dipende solo dalla mia volontà.
La visione americana dell'esistenza rassicura e quando la vedi nei film ti pare di poterla inverare pure tu (mi riferisco a quelle atmosfere da "Fame" e ai sogni da afferrare al volo).

La realtà è diversa, anche se, come si vede nel romantico video di Chantal, può capitare di avere "anni buoni" nella vita, momenti di gioia pura che poi non dimenticherai più.

La felicità insomma esiste, ne sono certa, ma è fatta di tanti "hard sails", duri viaggi come dice la bella canadese, da affrontare, se possibile, in due o più (in un'intervista parla con grande ironia e franchezza delle madri che diventano "bestie" pur di proteggere i loro cuccioli).

Non tutti abbiamo, però, uguale forza e fortuna per affrontare al meglio il lato "hard" della faccenda.

Sono scappata troppe volte spaventata non so bene da cosa, dalla città in cui sono cresciuta, dai lavori più strutturati. Persino la facoltà universitaria che ho scelto è indice della mia grande irresolutezza.

Ormai è tardi, troppo tardi, per molte cose, ma per lo meno ho imparato a godermi il più possibile gli attimi di leggerezza ogni volta che si presentano.

Vorrei solo scrollarmi di dosso del tutto questo senso di inadeguatezza alla vita che mi "pietrifica", come dice la Kreviazuk, parlando della paura che prova al pensiero che lui possa andarsene.

Al contempo, so che è giusto occuparsi del genitore in difficoltà, tirando fuori tutta la maturità di cui sono capace.

Si farà tutto quello che si deve, come sempre.
Spero solo di non arrivare alla fine della mia vita con quest'ombra di fallimento che mi porto addosso da troppo tempo. 

Voglio di più, voglio di più. 
Di più.

Un giorno imparerò a cantarlo per bene (la mia giovane insegnante di canto spero abbia abbastanza pazienza e pietà). E chissà se basterà questo per ottenerlo. 
Crediamoci.
Non ho altra scelta, d'altra parte.