mercoledì 23 maggio 2018

Eva Cassidy, l'arcobaleno che mi ha colorato il cuore


E' difficile scrivere questo post su Eva Cassidy, la voce più bella che io abbia mai sentito, per molte ragioni.

La prima è che rischio di essere retorica, vista la fine prematura di questa musicista e cantante americana avvenuta nel 1996 a soli 33 anni per colpa di un melanoma che se l'è portata via in pochi mesi.

La seconda è che, davvero, adesso che so chi era e quanti articoli, cd, documentari (come questo bellissimo della Abc che ho appena visto) le hanno dedicato, non so proprio cos'altro aggiungere.

Mi limito perciò solo a raccontarvi come l'ho scoperta.

Il merito è di Giorgia Pulcini, studentessa di canto jazz al Conservatorio di Pescara, che mi ha linkato la versione di Cheek to cheek proposta dalla grandissima Eva. 
Già dalle prime parole mi sono subito accorta di che mostro è stato questa biondina dal naso a patata, all'apparenza abbastanza simile al mio. 

Facile immedesimarsi in un viso così, pur avendo molti più anni di quelli che lei aveva allora e molto, molto meno, talento.

Vado per approfondire chi diavolo fosse Eva, convinta che si trattasse di una giovane stella del jazz.

Precipito negli articoli di cui sopra: il primo in ordine di tempo, però, resta quello che più mi è rimasto impresso (oltre al documentario che vi linko sopra. Se capite l'inglese, guardatelo assolutamente).

Si parla di pattinaggio artistico e del sua versione di Fields of gold utilizzata durante una competizione internazionale. Secondo il pezzo dell'Inkiesta, è stato quello il momento in cui miss Cassidy è diventata una star mondiale.

Prima di allora, l'aveva scoperta un produttore radiofonico inglese, poi le riviste di musica, fino al manager discografico della Blu Note che si vede nel documentario, pentitosi di non averle fatto il contratto quando avrebbe potuto.

Il fatto è che Eva non amava mostrarsi: cantava (e suonava) e incantava tutti, ma si conciava come se stesse per partire per un trekking in montagna (dicono nel documentario) e non si truccava granché.

Eppure, non era delicata e fragile come potrebbe apparire fermandosi solo ai suoi lineamenti.
La sua amica, nel documentario, la definisce "tough", tosta, una che lavorava sodo pur di pagarsi le serate, tutte nella sua zona di residenza, certo, ma pur sempre dispendiose per chi fatica a guadagnarsi il pane quotidiano.

Non so come sarebbe stata la sua vita se fosse arrivata al successo che meritava né che donna sarebbe adesso, a poco più di cinquant'anni. Poco più dell'età che io ho adesso, a dirla tutta. 

Io però ho sempre più spesso l'impressione che niente accada per caso e che un giorno "era scritto" che avrei incontrato la musica e la voce di Eva Cassidy. 

Di lei conosco ora anche la sua reinterpretazione di Autumn leaves, pezzo spettacolare a prescindere. Provo a ricantarlo sulla sua voce, ma faccio bene attenzione che non mi senta nessuno.

A breve so che farò lo stesso esperimento anche con What a wonderful world, che ho ascoltato in uno dei miei frequenti viaggi tra lu Portu e Chieti, restandone quasi sconvolta.

Da sempre la versione di Louis Armstrong  mi smuove qualcosa che non saprei spiegarvi, ma quella di Eva non lascia letteralmente scampo.

Poco fa ho capito come mai.

E' stato il suo pezzo di commiato alla vita, sei settimane prima di trasformarsi in un arcobaleno. 

Maggio è il più crudele e più bello dei mesi, uno di quelli in cui non è lecito andarsene.
Eppure succede, eppure si va via, com'è capitato domenica scorsa a una bambina di dieci anni che non ho mai conosciuto, ma che amava il canto, come hanno raccontato le cronache uscite in questi giorni.

Anche lei ora è un arcobaleno, come lo è la mia mamma da quasi quattro anni, e tingerà i volti a noi che restiamo qui sulla terra a ripeterci, oltre ogni ragionevolezza, quanto meraviglioso sia il mondo.

martedì 15 maggio 2018

Cani, gatti e piccioni: evviva la ginnastica (e l'amicizia)


L'altro ieri me lo sono chiesto più volte, invano: a quante edizioni della Camminata Donna Rosa - l'iniziativa a sostegno dell'Associazione Noi per l'Oncologia Fermana, che lavora a stretto contatto con il reparto di oncologia dell'ospedale di Fermo - ho partecipato? 

A contare le magliette che ho nei cassetti della roba sportiva, dovrebbero essere quattro.
Il che significa che la prima volta è stata nel 2014, probabilmente ad aprile, meno di due mesi prima che mia madre se ne andasse.

Sì, deve essere così, ma d'altra parte ho rimosso quasi tutto quello che è successo prima degli ultimi quaranta giorni della sua vita. 

Diversamente, credo che non avrei voluto più prendervi parte.

E invece, eccomi lì nella foto che vedete sopra, a farmi fintamente portare in trionfo da alcune delle mie amiche di palestra.

Mentre correvo mi ha affiancato un'auto: "Signora, mi scusi, potrebbe rallentare, altrimenti non riusciamo a riprenderla con le altre?", mi sono sentita dire da una giovane armata di videocamera appollaiata nell'abitacolo assieme ad altri ragazzi.

Ridicola soprattutto io, che ho pure risposto di no perché stavo cercando di "fare il tempo".

Ancora più scema mi sono sentita quando, dopo un po' che ero arrivata, lo speaker mi ha detto di avermi riconosciuta. L'anno scorso avevo biascicato qualcosa sulla colazione sbagliata che mi aveva impedito di arrivare tra le prime tre.
Quest'anno, per lo meno, ho rimediato, ringraziando pubblicamente l'Asd Fermo 85 di cui faccio parte credo a questo punto da una decina d'anni, o poco meno.

Ed è stato così molto simpatico che alcune delle mie compagne di ginnastica del lunedì, martedì e giovedì pomeriggio mi abbiano voluto festeggiare in quella maniera.

L'ho scritto più volte e lo confermo: mi hanno davvero aiutato a vivere con più leggerezza tutti questi anni non proprio facili.

Arrivati a metà maggio, ormai, manca davvero poco alla fine delle lezioni, che torneranno a settembre, in concomitanza con la riapertura delle scuole.

Deve mancarmi molto il clima sereno dei miei anni di liceo, evidentemente.
Una mia cugina acquisita dice spesso che vorrebbe avere i problemi di quel periodo (lei parla più spesso dell'università, però) e la testa di adesso.

Mi sto convincendo che abbia ragione lei, anche se ci ho messo un bel po' a capirlo, forse perché, inspiegabilmente, non di rado mi sento ancora come se davvero avessi quegli anni lì.

Quando mi succede in palestra, o mentre corro, tutto sommato mi piace (mi piaccio) perché mi libero, almeno per qualche tempo, di tutti i pessimi pensieri di fallimento.

In questo momento, ce li ho di nuovo molto forti, quindi mi conviene farla breve e arrivare al punto.

Frequentando la Fermo 85, ho scoperto che la ginnastica ha molto a che fare con... galline, gatti, cani e altri animali.

Pensate: tra gli esercizi di stretching che facciamo alla fine dell'ora, c'è persino un piccione, inteso come tale quel movimento che ci propone più spesso Rita Sacripanti, la super Rita, di quanto non faccia Tiziana Bastiani, la finta dolce, ossia le due istruttrici che mi hanno rimesso in sesto e sentimento ritardando (almeno un pochino...) il crollo inevitabile.

Come si esegue? Facile a farsi più che a dirsi.
Ci si mette nella posizione di plank, si piega una gamba e la si schiaccia a terra di taglio, dopodiché si scende un pochino con il corpo senza sedersi del tutto. Ed eccolo là, piccione fatto.

Gli animali più famosi, però, restano i gatti e cani, entrambi mutuati dallo yoga e in quanto tali utilizzati sempre nella fase finale, di stiratura.

Il gatto prevede di mettersi a quattro zampe e di inarcare la schiena, mentre si inspira (mi pare) e di rilasciarla mentre si espira. Ne esiste anche una versione più dinamica, detta da Rita del "gatto attivo", ma per come la vedo io, è una sorta di pleonasmo, visto che non esiste quadrupede più agitato del felino. Oltretutto, in questo momento, non mi ricordo come si fa. Stasera me lo faccio rispiegare.

Passiamo al cane, l'altro animale amatissimo pure dai politici. Bene, quando si arriva a questo punto ci si sta per rimettere in posizione verticale, ma prima bisogna distendere le gambe mantenendo le braccia tese con le mani a terra e simulare una specie di camminata. Dopodiché, sempre con la schiena all'ingiù, ci si abbraccia le ginocchia e, molto lentamente (tolta la nostra elastica Aurelia, una superdonna con sorriso da pubblicità) si ritorna su.

Lo zoo da palestra contempla però altre creature, dicevamo.
Ce n'è una che non rende giustizia alla grazia femminile, detta squat dell'orso. Sinceramente: mi sta sulle balle perché penso di farlo malissimo. In tutti i modi si tratta di passare dal plank allo squat tenendo le braccia tese con i palmi delle mani a terra. Nooo, brutta roba.

Pure la gallina, beh, non è proprio bellissima a vedersi, ma forse farebbe la felicità dell'universo maschile se si fermasse a guardare tutti questi lati B all'insù, mentre si eseguono i tricipiti detti, per l'appunto, a gallina.

Abbiamo anche un cavallo, che consiste nel mettersi a cavalcioni dello step e salire e scendere da un lato e l'altro ripassando sempre dal centro, un esercizio piuttosto frequente nelle fasi aerobiche dell'allenamento, che non mi fa impazzire da quando sono caduta come una pera cotta con il fondoschiena proprio sull'attrezzo. 

Fantastica, forse perché molto infantile, è invece per me la lepre, che prevede di saltare con entrambe le gambe da un lato all'altro della panca lunga, appoggiandosi sulle braccia e scorrendo in avanti. Mi pare di volare quando la faccio.

Quali altri animali mancano? Uh, dimenticavo il cobra, già, sempre nella fase di stretching, che si usa per stirare gli addominali, stando pancia a terra e sollevando la schiena con l'aiuto delle braccia piegate. Quando si arriva a stenderle, invece, dal cobra si passa alla Sfinge. 
C'è anche il ragno o posizione a quattro di bastone (dovrebbero essere la stessa cosa), ma benché sia sicura che manchi all'appello qualche altro volatile o quattrozampe, il concetto mi pare chiaro: o no? 

La ginnastica ti riporta sulla terra, sia perché materialmente sei spesso in posizione orizzontale, sia perché, man mano, finisci per sentirti davvero pure tu un po' un cavallo o un gattaccio (come la mia grigia).

E poi ti riporta a terra anche da un altro punto di vista, quello più importante: siamo carne, sangue, ossa, muscoli e respiro e quella roba che sta lassù, sopra il collo (a proposito: sono molti anche gli esercizi di stretching per quest'ultimo), è poca cosa rispetto al resto.

Per curarla (intendo la testa) è essenziale partire proprio dal basso. Dalla punta dei piedi, salendo su su, fino al cuoio capelluto.

Se poi condividi il tutto con un gruppo coeso scacciapensieri, a fine ora ti sentirai comunque meglio.

E aspetterai di ritrasformarti in qualunque di quegli animali.

Dolori, ansie e fallimenti resteranno sempre lì in agguato, ma tu nel frattempo avrai perfezionato il ruggito (esisterà anche il leone? Chissà) e niente, davvero niente, sarà più come prima. 

Grazie, amiche. 
E coraggio a tutte noi, sempre.

martedì 1 maggio 2018

Canto della pianura, silenzio e commozione onesta in forma di libro


Tornare in me dopo la botta di narcisismo dell'altro giorno non è proprio semplicissimo. Per fortuna, la mia natura cancerina mi aiuta a passare dall'euforia alla depressione alla velocità di un agguato felino, per cui eccomi qui ripiombata nel silenzio.

E' proprio questa la prima parola che associo al bel libro di Kent Haruf, il compito mensile assegnato a noi membri del gruppo lettura di cui ho parlato qualche post fa.

Non mi stava prendendo, almeno finché ne avevo relegato la lettura alle ore serali.
Mi disturbava lo spezzettamento in capitoli corrispondenti ciascuno a ogni personaggio, ripetuti con lo stesso schema per tutta la durata del romanzo.

Non riesco a ricordarmi quale altro libro ho letto non molto tempo fa (credo fosse comunque un altro scelto con gli amici del gruppo) in cui mi veniva voglia di saltare il capitolo, o i capitoli seguenti, per continuare a seguire le vicende di quel determinato personaggio di cui mi stavo interessando in quel momento.

Negli ultimi giorni, però, ho potuto dedicarmi con più distensione alla lettura di Haruf (accidenti, ora che ci penso il mio prof di storia e filosofia del liceo si chiamava Aruffo... uguale, praticamente).
E ho capito che la struttura circolare, in questo caso, ci sta bene.

Leggere a correnti alternate la storia di Victoria Rubideaux, di Guthrie e dei figli Ike e Bobby, dei fratelli MacPheron, di Maggie Jones e degli altri personaggi minori, intendo dire, me li ha resi più cari, poco alla volta, uno dopo l'altro.

Mi piace moltissimo il fatto che non succeda praticamente nulla.
Certo, ci sono vari momenti di tensione (su tutti la rappresaglia del bullo della scuola contro i due ragazzini e l'autopsia del cavallo), ma su ogni situazione aleggia il vento della campagna americana e la malinconia, di più, la desolazione che credo si possa provare solo nelle anonime province di questo immenso Paese.

Mi viene in mente, in questo istante, la parodia di Giancarlo Ratti dedicata ai gialli svedesi (se non la conoscete, ve la suggerisco: è da lacrime, ve lo dice una che ha seguito vari telefilm ambientati tra i ghiacci del nord Europa), ma, a mio avviso, in questo caso, se ci si lascia avvolgere dall'andamento lento del libro, si può arrivare a commuoversi.

Non parlo delle lacrimucce che ogni tanto pure mi scendono per i filmetti di La5.
Mi riferisco proprio a quella mistura di tristezza e rassicurazione che si prova quando si sta con le persone amate, magari in famiglia, i nonni ancora in vita, i bambini che continuano ad alzarsi dalla tavola al ristorante, i discorsi un po' noiosi dei grandi, e il cielo metallico.

La pioggia non arriva, ma la senti nel vento che fa rabbrividire la mamma. La vedi mentre si infila il golf e vorrebbe fare altrettanto con te che invece sgattaioli via con i cugini e torni nel cortile.

Da piccoli non si smette mai di correre: non lo fanno neanche Ike e Bobby, i due ragazzini del libro, che tutte le mattine, prima di andare a scuola, vanno a consegnare i giornali, non prima di aver consumato quelle loro colazioni americane con pancetta e uova, carichi di un'energia che non sarà mai più così per il resto della vita.

Mi sono piaciuti moltissimo soprattutto loro, ma ho amato anche Victoria e il suo pancione che cresce pagina dopo pagina e i capelli corvini e quella borsa rossa che alla fine le verrà strappata.

Come non amare anche gli anziani Harold e Raymond Mc Pheron, che di Victoria finiranno per diventare ben più che genitori. Davvero: laconici, veri, e buoni.

La bontà è il tratto distintivo praticamente di tutti i personaggi principali.
O forse sarebbe più esatto dire l'onestà, una caratteristica che ho avuto il privilegio di riscontrare in buona parte dei miei consanguinei più stretti.

Onesto doveva essere, per forza di cose, pure Haruf, almeno nella capacità di mettere nero su bianco una storia così.

Non so quando leggerò gli altri due libri della trilogia (a proposito: grazie ad Alice del gruppo lettura per avermi segnalato questa bellissima lettera dell'editore italiano NN in cui si spiega perché si è deciso di partire da Benedizione, l'ultimo in ordine di tempo della triade), anche perché, ripeto, per apprezzare appieno Canto della pianura, ho scelto di sprofondare nel mio piccolo divano, di accendere la luce poco sopra la mia testa, e di ritornare per qualche tempo la lettrice che sono stata da ragazza.

Però già solo per questo motivo, se siete in grado di fare altrettanto senza sentirvi in colpa per tutte le altre attività che state tralasciando, ve lo consiglio fortemente.

E buon primo maggio, a voi che lavorate e a tutti gli altri che, prima o poi, troveranno o ritroveranno la loro strada.

venerdì 27 aprile 2018

Ma i pomodori no, grazie

Teatro di Porto San Giorgio, 2 febbraio 2018, foto di Ennio Brilli


Ho ricevuto questa fotografia qualche giorno fa da Elisa Ravanesi, l'attrice di Porto San Giorgio che mi ha coinvolta lo scorso febbraio nella serata in teatro dedicata a José Greco senior, il padre della danza spagnola mondiale. A scattarla, è stato Ennio Brilli, un fotografo di Fermo di cui ho parlato qualche volta su Minime Storie, l'altro mio piccolo blog che non aggiorno ormai da tempo immemorabile.

Stasera m'ha preso una botta di narcisismo, per cui eccomi qui, a farmi guardare, con gli occhi che vorrete. 

Ho un bel ricordo di quella serata, la mia prima volta nelle vesti di conduttrice di uno spettacolo di danza e teatro, a stretto contatto con due dei figli del grande ballerino di origine molisana, José junior e Lola, e gli altri protagonisti di un bel viaggio nella musica, il cinema, la cultura e la storia del Novecento (parlo di Hermana Mandelli, Juan Lorenzo, Valeria Clementes, Cristiana Merendi ed Elisa Perticarà). 

In questa foto, però, i veri protagonisti della serata non compaiono, mentre solo qualche minuto fa ho realizzato che sembra invece che io stia cantando.

Mai scatto è stato più profetico? Chi può dirlo, a parte la sottoscritta e Giorgia Pulcini, la mia giovane insegnante di canto che ha raccolto il testimone da un'altrettanto affascinante sua collega, Anna Laura Alvear Calderon, che dal maggio dello scorso anno fino a Natale o poco più si è sciroppata i miei tentativi di farmi esplodere finalmente la voce in gola.

Sono, ve lo confesso, pure io stupita di come mi stia buttando a tirar fuori tutto il fiato che ho soprattutto da un po' di incontri a questa parte. E' come se non me ne fregasse più nulla, delle figuracce che vado facendo, innanzitutto, ma in generale di tutto.

A che serve fare i ritrosi, mi sto chiedendo, non so quanto consciamente.

Poi, certo, i risultati sono altalenanti: è come se stessi imparando a scrivere in un'altra lingua, quindi incertezze e svarioni sono lì che non mi mollano.

Però oggi, quando Giorgia mi ha illustrato un modo per dare più espressività a parole e versi, mi sono sentita felice come una poppante: quante cose sto scoprendo sul canto!

Uscendo da lì, intendo dire dall'aula del Cantiere Musicale, la scuola diretta dal batterista Michele Sperandio che ho conosciuto (e intervistato) l'anno scorso, rimanendo molto colpita dal grande entusiasmo che ci mette in tutti i progetti che intraprende, di solito sono stanchissima e al contempo più carica.

In macchina oso pure parecchi acuti. Incredibile a dirsi per una che ha sempre temuto di non riuscire a farsi sentire.

E insomma: strane cose accadono, anche in età non più verde, ed è una grande conquista tornare a percepirsi comunque in evoluzione.


E poi chissà che un domani qualcuno non si impietosisca e mi butti là qualche moneta. 

Grazie, grazie, siete umani.

Ah, ma sono pomodori? 

mercoledì 18 aprile 2018

James Taylor e l'arte di lasciar andare il tempo



Non avevo notato gli occhi azzurri di James Taylor: nella copertina di Mud Slide Slim che vedete qui sopra non si vedono. 

Sarà per questo che non avevo idea di quanto fossero profondi e mobili, specchio esatto della sua vita, raccontata magistralmente in un articolo che ho scovato navigando qualche giorno fa.

L'occasione per approfondire chi si nascondesse (o svelasse, a seconda dei punti di vista) dietro l'autore di pezzi memorabili come quello che riporto sopra mi è stata offerta da un gioco di Facebook in cui mi si chiedeva di elencare i 10 album della vita, intesi come quelli che sono ancora nella mia playlist nonostante lo scorrere del tempo.

Tolti quelli del Maestro (l'avvocato astigiano baffuto: per i pochi conoscenti che ancora non lo sanno si tratta naturalmente di Paolo Conte), ci ho dovuto ragionare un po'. 

Ed è così che ho ripensato a James Taylor e alla sua inconfondibile voce nasale, che mi parla ancora. Anzi: forse mi parla di più adesso di prima.

Ho riascoltato Mud Slide Slim un pomeriggio di qualche settimana fa mentre stiravo, ritrovandomi piacevolmente a cantare una dopo l'altra le canzoni che lo compongono.

L'album è uscito, chissà quanto casualmente, nel 1971, e mi ha sempre trasmesso armonia e insieme apertura, come i paesaggi americani che sogno di vedere prima o poi di persona. 
Ne fa parte anche You've got a friend, il pezzo che gli scrisse Carole King e che io ho conosciuto proprio nella versione proposta da Taylor.

Ringraziandolo idealmente per la bellissima ora di amarcord, sono andata così a leggermi qualcosa sulla sua vita ed è stato lì che ho realizzato che grande personaggio sia questo musicista californiano, transitato da Londra nel 1968 (leggetevi l'articolo linkato sopra, ve lo consiglio caldamente).

Ai tempi di Mud Slide Slim e di Carolina in my mind, Fire and Rain, etc etc, Taylor si drogava e ha continuato a farlo fino al 1983.
So che era piuttosto diffuso nella sua generazione e che in generale le sostanze stupefacenti siano comuni tra gli artisti. Però il contrasto tra la grazia delle sue composizioni e la sofferenza che deve averlo attraversato mi è sembrato molto forte.

Nelle interviste più recenti parla spesso della sua dipendenza della giovinezza e anche in questa intervista dice chiaramente di sentirsi un miracolato, considerati i molti amici e colleghi morti invece prematuramente.

Mi piace però anche la sincerità con la quale ammette il potere seduttivo della droga, oltre che la sua capacità di accrescere la creatività. Il rovescio della medaglia, però, dice Tayor, è che brucia il cervello e a quello ho l'impressione che lui abbia tenuto assai. 

Per capire come sia diventato dopo aver smesso, basta ad esempio guardarlo in un concerto acustico in teatro, che ha tenuto nel 2010: la versione di Carolina on my mind che propone è da lacrime, però di pura gioia.

Non sapevo che il suo pezzo preferito degli ultimi anni fosse invece My traveling star, sulla quale dice di riconoscersi soprattutto nel ritornello "never asking why, never knowing when", riferito alla sua volontà di restare libero, dentro. 

Per spiegarsi meglio, si sofferma sul suo modo di affrontare le cose oggi, ossia con "la pancia, il cuore e la testa", perché se è vero che è importante mantenere lo spirito corsaro, bisogna anche saper "controllare l'istinto" se si vogliono ottenere i risultati migliori.

Mi ci riconosco pienamente e gli sono davvero grata di essere così e di riuscire a far parlare ancora i suoi magnifici occhi buoni.

Il 12 marzo scorso, tra l'altro, James Taylor ha compiuto 70 anni.
Se ci arrivo, mi auguro davvero di diventare luminoso come questo alto signore dalla pelata borghese e le note zingare nelle vene.

Concludo con una postilla sulla canzone che ho scelto a corredo del post, proprio quella che dà il titolo all'album.

A un certo punto James canta "I've been letting the time go by", ripetendolo più volte. 
Da sempre mi ritrovo a cantare questo punto con più forza, come se percepissi che in quella frase ci sia il significato più importante di tutto il pezzo.

Credo di averne capito per lo meno la mia, di ragione più profonda.

Sto aspettando una risposta per una faccenda che mi sta molto a cuore che tarda ad arrivare, perciò mi ritrovo ogni giorno sempre di più "a lasciare che il tempo passi".

In generale, ho passato parecchio tempo (direi anni) a far passare il tempo in attesa di tempi più rosei, cercando però il più possibile di impiegarlo in modo produttivo (da ultimo la corsa, un'attività che mi sta facendo molto bene).

Dalle parti in cui sono nata, invece, quell'espressione lì sta ad indicare il pigro, oltre che depresso, riempirsi di impegni pur di non sentire il vuoto della giornata. 

"Almeno passo il tempo" è una frase di famiglia che mi manda veramente ai matti.

No, perché un conto è come lo dice James, ossia lasciare scorrere il tempo che vale per lasciarsi scorrere le cose addosso con tutta la leggerezza possibile, un altro è subire il senso di inazione che ti lascia l'assenza di novità. Nel lavoro, ovvio, ma non solo.

Quindi ringrazio doppiamente James per avermi riportato alla ragione.

Never asking why, never asking where. Giustissimo. Me lo dovrei tatuare in fronte.

Speriamo di resistere. Ce la sto mettendo tutta. Mettetecela anche voi, in tutte le cose che vi stanno a cuore. 

Alla prossima.

martedì 27 marzo 2018

Alice Munro e la vita: never give up


Lo sapevo, ma ho sempre evitato di andarla a cercare. Oggi, invece, l'ho fatto, finalmente, ed eccola lì, la mia amatissima Alice Munro, cinque anni fa, ormai, all'indomani dell'attribuzione del Nobel per la letteratura.

Che cosa ho sempre saputo, vi starete chiedendo?
Solo questo: Alice Munro mi sta un sacco simpatica. L'ho capito leggendo i suoi racconti e le interviste che qui e là ho rubato alla rete negli anni in cui l'ho scoperta.

Quanti ne sono passati? Credo almeno dieci. A pensarci adesso, mi pare incredibile. Poi succede che il gruppo lettura di Romina Coccia, la mia amica brunetta sveglia e vivace quanto un personaggio della incredibile Alice, voti a maggioranza Nemico, Amico, Amante..., il libro che mi ha introdotta al mondo della scrittrice canadese, casalinga e mamma di tre figlie, ed eccomi lì a rileggerlo senza riuscire a smettere, esattamente come mi era successo allora.

Domani sera ci sarà l'incontro in cui se ne parlerà tutti insieme, ma io ho un altro impegno, per cui non sarò presente.

Un po' mi dispiace, soprattutto perché adoro le persone del gruppo, ma allo stesso tempo non sarei disposta a sentire critiche alla mia adorata regina dei racconti.

Voglio però ringraziare chi l'ha proposto perché mi ha dato la possibilità di ributtarmi nella sua scrittura e nel suo universo di piccole storie "senza importanza", di cui parla proprio all'inizio di questa lunga intervista. 

Mi piace la sua visione degli altri, mi ci riconosco pienamente: basta uscire in strada e mettersi in ascolto degli spunti continui che ci vengono elargiti.

Poi, certo, arriva la rilettura e i tagli o addirittura il tritarifiuti per ciò che ci sembra davvero improponibile.

Resta però quello che lei descrive così bene, con quel sorriso aperto: il desiderio, profondissimo, di continuare a scrivere.

"I never gave up", dice Alice a un certo punto. E pensare che ho scritto qualcosa del genere pure io poche ore fa, riferendomi, almeno all'apparenza, all'attività fisica.

Quello che ci preme davvero non lo molliamo mai neanche quando ci sembra il contrario. Neanche quando ci assalgono dubbi e ci sentiamo lontani dal risultato sognato.

Ascoltate quello che dice a proposito del Nobel verso la fine: quella semplicità lì mi alleggerisce assai. 

Una persona proprio ieri mi ha parlato della mia umiltà: sinceramente, non so se sono davvero una persona umile, ma mi riconosco, ancora una volta, in quanto dice la Munro, che ripete spesso di essere stata circondata buona parte della sua vita da gente che non poteva capire che cosa significasse per lei scrivere.

Di queste persone parla seria, ma non con astio. Del resto, è cresciuta nella working class, osserva, perché stupirsene? E il fatto di essere donna, in fondo, l'ha pure avvantaggiata, perché il vero scandalo, per chi prende la vita solo dal lato pratico, sono gli uomini che indulgono nei piaceri intellettuali. Pazienza per le donne.

Un ragazzo della compagnia del mare, rivisto all'indomani della laurea, quando stavo decidendo che strada prendere per la mia vita, mi disse mentre uscivamo dall'acqua: "Per una donna è già abbastanza riuscire a laurearsi". Era il 1997, non il 1947 (Alice è nata nel 1931). Il tipo veniva da una cittadina, non da un villaggio di baluba.

Ma Alice dice di essere femminista in quanto femmina, non per bandiera. E di non aver sentito più di tanto il senso di inferiorità dell'essere, per l'appunto, del genere non fondamentale.

Bellissima, poi, nel video, la puntata a piedi nella libreria aperta con il marito (almeno credo si tratti di lui): davvero un inno all'incontro con gli altri, anche quando, ammette, le è capitato di sentirsi non all'altezza dei colleghi scrittori più eruditi.

Il gruppo lettura di Romina è nato nel negozio del marito di dischi e libri (sto parlando di Mingus a Porto San Giorgio): una bella coincidenza, non c'è che dire. 

Dove circola "cultura", nel senso in cui ne parla Alice, c'è linfa, c'è polpa, c'è sangue e cervello.

Buone letture (e non solo) a tutti noi.

martedì 13 marzo 2018

No worries. Daje a tutti noi


Tutto è nato dalla tazza del tè del mio consorte, che raffigura un Paperino arrabbiato. Accanto c'è la scritta "no worries", che in questo modo forma un bell'ossimoro con il personaggio lamentosetto tanto amato dai lettori di Topolino (piccini e non).

L'ho usata per uno stato di whatsapp, così, per gioco. Volevo aggiungerci affianco qualcosa tipo "be happy", ma poi mi sono astenuta da cotanta banalità (finora, almeno).

Bene. Non posso scendere troppo nei dettagli, ma so di essere in uno stato d'animo tale da richiedermi comunque qualche parola scritta.

Preoccuparsi non serve mai, tanto più in una giornata come quella di oggi, in cui l'aria si è fatta decisamente più primaverile.

Avevo propositi pratici, tipo andare a cambiare il contratto telefonico, e invece mi sono ritrovata sulla spiaggia a fotografare tronchi d'albero e strani oggetti portati lì chissà come dalle recenti mareggiate.

Ho camminato un po', con un andamento lento per me del tutto inconsueto. Mi sono fermata qui e là alzando gli occhi sulle nuvole ciccione, sbiancate dal blu del cielo.

Mi sono goduta un attimo il rumore delle onde, ma poi ho infilato la musica nelle orecchie: serve sempre un alibi al nostro vagare slabbrato.

E alla fine mi sono piazzata sulla solita panchina della piazza di fronte al mare, la schiena scivolata un po' giù e gli occhi chiusi. La faccia mi si è un po' scaldata, ma il vento non proprio tiepido mi ha impedito di rilassarmi del tutto.

Eppure.
Eppure ho capito.
Non devo preoccuparmi, non serve mai. C'è sempre il sole dopo la pioggia e il riso dopo il dolore.

Qualunque cosa accadrà, saprò affrontarla. E riderò, come ho sempre fatto.

Alcune persone sanno essere cattive, dice Mark Knopfler in questa bellissima canzone che forse ho già usato ma non nella versione con la grandissima Emmylou Harris. Lo fanno anche in You've got a friend, il pezzo di Carole King che sto cercando di imparare a cantare (nella versione della Streisand... del 1971: sarà per questo che l'ho scelta?).

C'è sempre qualcuno che ci consolerà, o molto più probabilmente saremo noi a farlo da soli, quando capiremo, con chiarezza inequivocabile, che bisogna sempre avere rispetto di sé e pretenderlo anche dagli altri tutte le volte che qualcuno provi a strapparcelo. Nel lavoro (soprattutto nel mio caso), ma anche negli altri ambiti del quotidiano.

Quindi, niente lacrime, o solo quelle necessarie per farci tornare il sorriso.

La vita ci aspetta comunque. E io voglio viverla, per quelli che non possono più e per quelli che qui e ora tifano per me. 
Pregherò per voi: anzi, ho già cominciato a farlo, proprio stamattina.

Proteggiamoci a vicenda: solo così diventeremo invincibili. 
E che Manitù, Budda, Dio, Allah, o chi per loro, ce la mandi buona. 

Daje.