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giovedì 24 novembre 2011

Sentirsi a casa

Il maltempo persiste, impedendomi di proseguire con il mio lavoro fotografico. Del resto, siamo quasi in inverno: era piuttosto probabile che si moltiplicassero le brutte giornate.
Sperimento, così, di nuovo, il vuoto, amplificato dalla mia difficoltà di mutare abitudini. A questo proposito, però, proprio ieri sera ho letto delle righe davvero illuminanti.
Il libro che le conteneva è di John Berger, il tema affrontato in quel punto l'emigrazione e il bisogno per chi si è lasciato alle spalle il proprio paese lontano di trovare comunque una casa. Prima di trascriverle, faccio comunque una precisazione: il senso di estraneità provocato da un posto che non ci ha visti nascere, a mio avviso, non dipende necessariamente da quest'ultimo. Capita infatti di provarlo anche a casa propria, tra volti notissimi. Temo che sia, in definitiva, una condizione esistenziale di quasi tutta la razza umana, benché non tutti la mettano a fuoco durante la vita.
Dicevo, quindi, di John Berger, che scrive:
"Chi è costretto ad abbandonare il proprio paese mantiene la propria identità e si improvvisa un tetto. Fatto di cosa? Di abitudini, credo, della materia prima della ripetizione, trasformata in rifugio".
Ma che cosa intende con abitudini? Lo spiega subito dopo: "Le abitudini vogliono dire parole, battute, opinioni, gesti, azioni, persino il modo di portare il cappello".
E poi aggiunge: "Gli oggetti fisici e i luoghi - un mobile, un letto, l'angolo di una stanza, un certo bar, un angolo di strada - forniscono la scena, il sito dell'abitudine, eppure non sono essi a proteggerci, bensì l'abitudine. La malta che tiene insieme la 'casa' improvvisata è - persino per il bambino - la memoria. Al suo interno si organizzano ricordi visibili, tangibili - foto, trofei, souvenir - ma il tetto e le quattro pareti che salvaguardano le vite sono invisibili, intangibili e biografiche".
Perché mi hanno colpito queste parole?
Innanzitutto, perché anch'io sono un'emigrata, benché, ancora per poco (!), "di lusso". Mi trovo in questa condizione da anni, ormai, e, come scrive Berger in un altro punto, ormai mi sento tale anche quando faccio ritorno a casa. Per fortuna, vi abitano ancora i genitori e diverse persone care che ritrovo, molto piacevolmente, ogni volta; ma i visi estranei o diventati tali di chi incontro e persino alcuni angoli della mia città natale mi restituiscono con una potenza che fa male tutta la distanza emotiva e cronologica accumulata.
L'emigrazione, in sintesi, mi ha cambiata, e non da adesso e indietro, indubbiamente, non si può tornare.
Però che cosa è successo nel frattempo?
La casa in cui abito ora è piena di oggetti che mi sono familiari: a volte, addirittura, quando entro nella camera da letto in cui ho piazzato la sedia a dondolo sotto la finestra, nello stesso punto in cui si trovava prima nell'appartamento della mia infanzia e adolescenza, mi sorprendo a pensare di trovarmi lì e non qui.
Non so dire se provo, almeno non ogni volta, nostalgia per quei giorni sicuramente più spensierati, però mi fa effetto accorgermi che avevo bisogno di circondarmi di questi oggetti per sentirmi, seppur debolmente, a casa.
Su quella sedia, lasciavo i vestiti prima di addormentarmi, sulla base sbattevo i malleoli, esattamente come mi capita adesso. Recuperando quegli oggetti di famiglia, ho potuto riprodurre alcune abitudini e, quindi, sentirmi a casa. Un po' di più, almeno, di quanto non mi sia successo nelle mie precedenti dimore di emigrata.
Però, lo confesso, non mi basta.
Sarà perché il lavoro scarseggia, scavando da sotto le instabili fondamenta della mia quotidianità, e perché in questo posto è più facile non essere distratti dal rumore di fondo delle metropoli, ma negli anni ho cominciato ad avvertire sempre più forte il bisogno di radici. Di andare oltre, insomma, le abitudini cui mi aggrappo ogni giorno per tenermi ancorata a terra e che mi hanno permesso (almeno finora) di mostrare all'esterno quel sorriso bonario e rassicurante di cui ho parlato nel precedente post.
Dall'estate scorsa ho un progetto in testa che va proprio in questa direzione. Non è facile metterlo in pratica: occorre, oltre al denaro, una buona dose di determinazione. E di incoscienza.
Non è detto che, realizzarlo, mi farà sentire davvero "a casa": Berger conclude il suo ragionamento sottolineando il fatto che, "nella più brutale delle circostanze, la tua sola casa è il nome che porti - mentre per i più ne sei privo". 
Già, per i più non abbiamo neanche un nome, sarà anche per questo che ci dà fastidio quando qualcuno si sbaglia nel chiamarci.
Però quanto vorrei poterlo mettere sulla porta di quelli che avranno voglia di suonare.
Oltre alle abitudini, concludo, la materia prima di cui siamo fatti sono i sogni. Almeno, io sono così. E voi?

2 commenti:

  1. Forse, le abitudini sono il non più che custodiamo ancora. Sono la bussola dentro di noi, che ci orienta per nessun posto. Sono la smentita ad una frase bella ma bugiarda: "Ovunque poserò il cappello, lì chiamero casa". (Tom Waits)

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  2. Può essere, Massimo...
    Bella la frase di Tom Waits, già.
    Pensa che addirittura nella stanzina che ho occupato per un mese nella comunità che ben conosci ai tempi del mio stage, ho affisso delle foto per sentirmi un po' più a mio agio.
    Decisamente anche a me non basterebbe posare il cappello su un letto (anche perché porta iella e non lo farei mai!) per sentirmi a casa.
    Difficile trovarla, difficile smettere di cercarla.
    Grazie del passaggio, a presto (meglio oggi? spero di sì)

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I commenti sono moderati: vi ringrazio per la pazienza e per l'affetto. Vostra Madamatap