Suad Amiry |
Giusto agli sgoccioli di questa sorta di lunga estate indiana, ho deciso di leggere Murad Murad, di Suad Amiry, un'architetta e scrittrice palestinese che ho avuto occasione di ascoltare al Festival di Internazionale, ormai ben quattro anni fa. E ho fatto proprio bene.
Il libro ripercorre le diciotto ore trascorse dall'autrice in compagnia di un gruppo di giovani braccianti palestinesi nel loro viaggio alla ricerca di un lavoro in Israele. Agli occhi di un occidentale non addentro all'annoso conflitto che contrappone arabi ed ebrei giusto nella terra più santa dell'umanità, lussureggiante di aranceti e ulivi, un clima quasi sempre mite, può sembrare bizzarro che una signora della buona borghesia musulmana non più giovane (come la Amiry stessa si definisce) si imbarchi in un'impresa così stravagante, oltretutto pateticamente camuffata da uomo.
Basteranno invece poche pagine del bel libro di questa simpaticissima architetta residente a Ramallah, ossia nell'area della Palestina attribuita agli arabi da non so più quale accordo internazionale, per comprendere quale dramma vivono ogni giorno migliaia di giovani e meno giovani arabi di Cisgiordania che non riescono a lavorare né nella loro zona né al di là del Muro.
E già, amici lettori non avvezzi alla questione palestinese come me, nella storia recente dell'umanità non c'è stato solo il muro di Berlino: tra i passaggi più partecipati di Murad Murad c'è proprio la trasposizione metaforica di questo muro arabo-israeliano, in particolare della galleria che lo attraversa all'altezza della città di Petah Tikva, meta del viaggio dei giovani braccianti, compreso il protetto di Suad che dà il titolo al libro.
Storicamente il nostro Paese ha sempre mostrato una certa simpatia per i palestinesi, salvo negarla per ragioni diplomatiche ogni volta che questi ultimi hanno risposto ai missili israeliani con attentati e altre azioni terroristiche. Come già sottolineato, non ho abbastanza strumenti per prendere una posizione pro o contro qualcuno, ma non posso negare di essermi appuntata mentalmente i nomi dei villaggi e paesi palestinesi esistiti per secoli e secoli, in luogo dei quali oggi sorgono parchi naturali dai nomi affascinanti. D'altra parte, Suad Amiry è a capo di un'organizzazione che tutela il patrimonio architettonico di Ramallah, quindi è facilmente intuibile quanto sia sensibile ai mutamenti "urbanistici" impressi da Israele.
Il vero motivo per cui parlo di questo libro, in definitiva, è un altro e per nulla politico.
Suad Amiry ha un'ironia invidiabile: come tutte le persone intelligenti, la rivolge innanzitutto verso se stessa, dipingendosi come una culona in climaterio, prossima all'infarto dopo una corsa pazza cui la costringono i suoi giovani compagni di viaggio onde evitare i probabili spari della polizia israeliana; poi verso i suoi "big boys", i medesimi aspiranti braccianti, ai quali vorrebbe disperatamente assomigliare, ovviamente invano. Me la sono immaginata mentre cercava di ficcarsi i capelli nel berretto alla Jeanne Moreau di Jules e Jim, gli occhi vivaci, indagatori e la lingua sempre pronta alla battuta salace. Particolarmente spassoso è il resoconto dell'incontro con la famiglia di Murad, a inizio dell'avventura, quando continuano a offrirle cuscini per farla sentire a suo agio, con il risultato che le sembra di galleggiare su una barca. Prima di questo libro, che nonostante la prosa frizzante, affronta comunque un tema molto serio, so che la Amiry ha scritto Sharon e mia suocera, la politica israeliana sempre sullo sfondo, ma filtrata dalla forzata convivenza dell'autrice con la madre di suo marito. Voglio cercarlo, perché sono certa che leggerlo mi piacerà assai.
Un altro aspetto di questa straordinaria signora nata esattamente venti anni prima di me è che non si vergogna delle numerose lacrime versate lungo le diciotto ore da simil-transfuga. Sarà per via della menopausa che cita spesso, sarà per la fatica fisica accumulata durante svariati tratti a piedi, in ogni caso il suo corpo e le esigenze (anche intestinali!) che lo guidano restano sempre in primo piano. E se c'è da piangere, beh si piange.
Oggi sarei dovuta andare a Porto San Giorgio a correre dieci chilometri con alcune amiche della palestra: non so perché (anzi: lo so eccome), ma ho dato subito la mia adesione, pur nutrendo nel mio intimo più di un dubbio che ce l'avrei mai fatta ad arrivare fino alla fine. Nonostante il mio volontaristico super-io, comunque, un po' come in Murad Murad, sono stata sopraffatta dal mio corpo. Oltre al raffreddore che stanotte mi ha tormentato costringendomi a soffiarmi il naso di continuo, ieri mi sono pure slogata una caviglia. Insomma: la corsa proprio non si doveva fare e ho come l'impressione che l'indebolimento del mio ginnico micro (in centimenti, non in larghezza) corpo sia la conseguenza di un'alterazione della mia psiche. Sono pazza? Ma certamente. E però ditemi se non è strano che giusto ieri abbia incontrato una giovane danzaterapeuta di nome Lucia (dal cognome tipicamente fermano e dai morbidi lineamenti spagnoleggianti) esperta di bioenergetica.
Mi sono avvicinata con neutra curiosità al gazebo nel quale lei e altre persone facevano provare gratuitamente massaggi ai piedi, all'area cranio-sacrale e per l'appunto il trattamento che ho scelto io.
Giacché c'ero, mi sono detta, perché no?
Premendo qui e là il mio intestino perennemente colitico e il mio collo appesantito da troppo computer (e pensieri oziosi), Lucia si è ovviamente accorta che avevo un basso livello di energia (e figuriamoci: ero mezzo rintronata dal raffreddore). Però, ve l'assicuro, mi sono lasciata andare al tocco delle sue mani estremamente fiduciosa nelle sue capacità. Ogni tanto, ovvio, pensavo a quel che avrei dovuto prepararmi per cena e in generale alla nottata da single (temporanea) che mi attendeva. A un certo punto, il colpo di scena. "Hai problemi con un uomo", mi dice Lucia. Mi sono messa a ridere. Poi le ho spiegato che ieri ero sola perché mio marito era in via del tutto eccezionale fuori città e che si trattava di un fatto inedito per me (di solito sono io che parto). Ci aveva in sostanza abbastanza "inzertato", alla Montalbano maniera. Ancora più precisa è stata tuttavia un'altra osservazione: "Spesso usi la socialità per non sentire il dolore che hai dentro". Adesso: di che dolore si tratti io non lo so, né credo che il mio dolore sia più grande di quello che hanno dentro molti altri. Però è assolutamente vero che ancora troppo spesso mi nascondo dietro le chiacchiere da bar, devo averlo anche scritto quissù.
La frase insieme più divertente e inquietante però Lucia l'ha pronunciata per ultima, dopo aver avuto conferma che ho effettivamente una sorella. "Hai un problema con lei". Ah sì?, ho subito reagito, seguito dal logico In che senso? Lucia mi ha premuto in un altro punto del mio intestino sempre più in subbuglio e ha emesso la sentenza: "Riguarda la vostra infanzia e il rapporto con tuo padre".
Onestamente, lo giuro, non ho idea a che cosa si possa riferire. Certo: mia sorella ogni tanto mi prendeva in giro dicendomi che ero una trovatella e una volta mi ha fatto cascare da una giostrina (in generale voleva un fratellino e invece si è beccata questa biondina con gli occhi celesti e una faccia da madonnina infilzata, come mi chiamò un tempo l'acida nonna del mio primo fidanzato pisano). Mio padre, a sua volta, per errore mi spense una sigaretta sulla fronte: ho una fotografia di me in braccio a lui con il segno della bruciatura. Ho già avuto modo di dire, inoltre, che non escludo che davvero i miei volessero un maschietto come secondo figlio e invece è arrivato questo puffo pieno di nevrosi.
In tutti i casi, Lucia mi ha rassicurato precisando che nei prossimi giorni i punti energetici che mi ha sbloccato mi faranno agire in modo diverso dal solito. Non so se crederle. Vi dirò anzi che temo un po' i miei eccessi di energia: a differenza di Suad Amiry, è tanto che non mi lascio andare ai miei proverbiali pianti liberatori (oddio: mica vero... è che piango sempre di nascosto). E se significasse che potrei provare anch'io come lei a camuffarmi da maschio (soddisfacendo il molto presunto desiderio nascosto dei miei), credo proprio che pure in questo caso non ci crederebbe nessuno.
Tutto questo discorso sconclusionato ha una morale? Ma naturalmente no.
Con il passare degli anni, infatti, mi sono disabituata a dare troppo peso alle emozioni e alle bizzarre coincidenze. Non ho tuttavia smesso di tenere diari, nel neanche tanto inconsapevole bisogno di fissarne almeno qualcuna. Se amo scrivere e fotografare, insomma, qualche motivo ci sarà.
In questo specifico caso, forse mi occorreva incontrare Lucia per finire il post su Suad Amiry che avevo cominciato ieri. La foto che vedete sopra è mia: usarla dopo quattro anni in un contesto semi-pubblico sarà un segno di qualche cambiamento? Chissà che ne direbbe la fermano-spagnola.
In tutti i casi, bellezza bioenergetica, ti ringrazio per avermi costretta a stopparmi un attimo e a guardarmi dentro. Non posso promettere che smetterò di cedere alla socialità-camuffata come Suad durante il viaggio, ma ci proverò. In bocca al lupo a te per il tuo lavoro.
Uscendo dalla tenda, vedendola in canottiera, mi è venuto d'istinto fare la mamma: non prendere freddo, le ho detto. Chissà se avesse più tempo che cosa mi avrebbe detto di quest'altra mia trovata svia-attenzione dalla sottoscritta che ho sviluppato da quando non sono più una ragazza.
Non oso pensare a cosa mi inventerò quando diventerò una minuscola vecchina.
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