Indifesa è la parola: Massimo Del Papa non poteva scegliere
titolo più adatto per riassumere l’esperienza umana e giudiziaria devastante
vissuta da Enzo Tortora, negli stessi anni in cui mi trasformavo da bambina in ragazza.
Appena ieri, per la storia del nostro Paese, ma antica come il Pleistocene per
la memoria collettiva.
Io medesima, lo dichiaro apertamente, non conoscevo i
dettagli della vicenda di questo giornalista di estrazione borghese, liberale,
per niente condiscendente, né nella sua professione né, probabilmente, nel
privato.
Un uomo tutto d’un pezzo, per così dire, vecchio stampo, di
quelli che non guardavano di buon grado le conseguenze prodotte dal
Sessantotto, inviso, presumo, alla intellighenzia dei pennivendoli di allora,
ma temo non solo delle aree più estremiste, rosse e nere.
Come ben raccontato da Massimo, un uomo così subisce una
vera e propria metamorfosi, che lo traghetterà nelle fila del partito radicale,
a combattere le battaglie di altri detenuti in attesa di giudizio come lui,
altri condannati anche colpevoli a differenza sua, ma privi di santi in paradiso.
Tortora rifiuta, ed è questa una delle cose che non sapevo, di
avvalersi dell’immunità di parlamentare europeo e sceglie la cella, ritenendosi
“fortunato”, lui che ci passa mesi bollenti insieme ad altri sette detenuti,
contro i sedici normalmente assiepati in una manciata di metri quadri.
Da buon giornalista e uomo di cultura, parla e scrive molto:
toccanti quelle che dedica alla figlia e tragiche quelle che non ascolterete
nella versione breve del video che ho ricavato dalla serata al teatro di San Ginesio, in provincia di Macerata (è
stato faticoso scegliere quali brani inserire, ve l’assicuro), che pronuncia
nell’ultima intervista televisiva rilasciata a Giuliano Ferrara, su Rai due, il
suo canale, pochi giorni prima di morire.
Quel che fa male, molto male, è conoscere l’epilogo di
questa brutta pagina di malagiustizia italiana: gli stessi giudici che
l’avevano condannato in primo grado, con una sentenza poi completamente e
definitivamente sconfessata da quella d’appello, in seguito hanno fatto carriera.
Massimo li elenca uno per uno, compresi gli incarichi che
poi sono andati a ricoprire.
Per certi versi, la sua teoria di ingiusti, mi ha fatto
pensare al caso Ustica e ai troppi vertici dell’Aeronautica che non hanno
pagato per aver depistato per anni, portandosi dietro altre morti, la verità su
quell’enorme ferita inferta al nostro Paese.
“Ma che razza di Paese è mai questo?”, si domanda,
retoricamente, Massimo verso la fine del monologo.
E io invece chiedo: come possiamo, io compresa, avere la
memoria così corta?
È umano, sia chiaro, voler rimuovere ciò che ci addolora:
anche perché in casi del genere che cos’altro potremmo fare?
Ve lo dico, come la penso, stavolta sì.
Possiamo solo usare cuore e cervello: il primo per provare
un po’ di empatia anche per chi non fa parte della nostra stretta cerchia di
affetti; il secondo per informarci, approfondire, andare oltre la
superficialità del presente.
Non posso quindi che dire ancora grazie a Massimo, per
questo sforzo che ha compiuto anche per me.
Non era semplice ripercorrere una storia che so quanto senta
anche con le sue corde più intime: lo si vede, del resto, da come ha “recitato”
i discorsi di Tortora.
E dico grazie, pubblicamente, anche a suo fratello Paolo, al
quale sono legata affettivamente, per come ha saputo assecondare con la sua
splendida musica le parole, spesso indigeribili, pronunciate dal fratello.
A voi che non eravate con me la sera del 7 marzo 2014, in uno dei molti piccoli scrigni d’arte nascosti sulle colline marchigiane, buona visione
del sunto, sicuramente parziale, di quella magnifica serata.
Guardate, ascoltate, emozionatevi e riflettete.
Solo facendo tutte queste cose, e non solo in questa
occasione, del resto, la vita acquista un senso.
O no?