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venerdì 13 settembre 2013

Disadattati si nasce. Per fortuna?


La settimana del trash sta per concludersi, ma io non posso esimermi da lasciarne traccia sul mio piccolo e solitario spazio virtuale.
Lo scatto risale allo scorso ferragosto: il tizio, anzi, la rotondità del suddetto, era intento a osservare immagino con grande piacere lo spettacolo in corso nello stabilimento dove continuiamo, non so perché, a tornare tutte le estati.
Nonostante il senso di raccapriccio indottomi dal medesimo spettacolo, c'è qualcosa che me lo fa tenere a caro. Sarà per l'atmosfera della festa di fine estate, sarà perché, quando vado a Francavilla al Mare, in genere, dimentico tutte le ambasce della mia precaria esistenza, fatto sta che ritrovare anno dopo anno queste belle panze abruzzesi, osservare le facce piene e felici che tengono il tempo di musiche orribili, rimirare i tatuaggi davvero elaborati che femmine e maschi mostrano su pelli non necessariamente troppo palestrate, mi provoca una nostalgia, una saudade, inimmaginabile.
Oltretutto, poi, sono reduce da un'analoga esperienza di folla non esattamente composta, davanti alla quale, come al solito, mi sono sentita in dovere di scattare.
Non posso scendere troppo nei dettagli, ma è comunque un fatto che quella gente assiepata al buffet, le tartine (e mica solo quelle) finite in un lampo, i bicchieri sottratti ai camerieri (nervosissimi) anzitempo e altre piccole chicche che non mi sento di riportare, mi hanno immediatamente richiamato alla memoria la festa del Paraculo, con il grandissimo, indimenticabile Ray Sugar Sandro, da me stra-fotografato (se non lo pubblico qui è solo perché, francamente, si fa già troppa pubblicità da solo).
C'era, c'è, in effetti, una grande differenza tra i miei conterranei di origine e quelli che man mano ho conosciuto in questa bella ma schiva regione. Me l'ha fatta notare, manco a dirlo, il mio pungente consorte: mediamente dalle parti mie, il cafone è più spontaneo, meno artefatto (vedi la panza di cui sopra), mentre nelle Marche, almeno in quelle basse, c'è il tamarro elaborato, quello che pensa di essere ben vestito, quello con le scarpe artigianali che piacciono (lo dicono i dati confindustriali, non io) ai russi. E infatti ho potuto contemplare straordinarie calzature, ma pure un cappellaccio che mi ha ricordato il Guerriero di Capestrano, a dirla tutta.
E però, lo ammetto, sono molto attratta dal trash, forse per una sorta di malinteso senso di superiorità, o forse, semplicemente, perché ho bisogno di risate grevi per confermare che, nonostante la sfiga che mi sento addosso, non potrei essere comunque diversa da come sono.
Al contempo, un tantino invidio chi ha il gusto dell'orrido e quello sfoggio di corpi sovrappeso quasi mi intenerisce. Non credo, in definitiva, che riuscirò mai a smettere di osservarli, quasi che guardarli e, qualche volta, fotografarli, mi servisse a rimarcare la distanza e insieme il mancato legame con una delle molte realtà dalle quali sarò sempre esclusa.
Del resto, aveva ragione Nanni Moretti, che quando aveva all'incirca la mia età (la più bella della vita, ne sono sicura: con qualche sicurezza in più sarebbe perfetta), considerava che avrebbe fatto sempre parte di una minoranza di persone. Oggi, credo, per il regista non è più così (lo spot a Bersani pre-elettorale è stato così triste), però il disadattamento è una condizione esistenziale della quale difficilmente ci si libera. Ci si nasce.
Non me ne vogliano, perciò, le maggioranze che di volta in volta incrocerò.
L'aliena sono io. L'importante è saperlo.

sabato 13 ottobre 2012

Dei medici e dello scetticismo esistenziale



Come tutti gli ipocondriaci, non amo molto andare dai medici, ma a volte, forse proprio per vincere la mia naturale propensione a tenermene alla larga, mi forzo e vado, in nome del principio secondo cui prevenire è meglio che curare. In questo caso specifico, poi, ho una ragione pratica che non sto qui a spiegarvi. Insomma, ieri pomeriggio, con la nostra macchinina scassata (da me), ho parcheggiato nei pressi dell'ospedale. E ho subito sbagliato ingresso. Stavo infatti per entrare nel reparto di medicina d'urgenza, cioè il pronto soccorso. No, decisamente non era il posto giusto. Faccio così la passerella in salita, studio i livelli e i percorsi arcobaleno, ed eccomi in un corridoio spoglio, da nosocomio dell'Est Europa pre-caduta Muro. Mi siedo rassegnata a una lunga attesa. Per buoni dieci minuti resto da sola, poi si unisce una famigliola composta da genitori giovani e bambine piccole molto carine. Simpatizzo con la minore che continua a fissarmi come un marziano. Non a torto, aggiungerei.
E insomma, alla fine tocca a me. Mi trovo davanti un medico sulla sessantina, tondo e un po' spelato, dai modi molto placidi. L'ideale, ma sì, per un soggetto ansioso come la sua nuova paziente.
Dà l'idea di leggersi con attenzione i risultati dei miei precedenti esami, sennonché, poi, il fatto che mi rifaccia la stessa domanda a distanza di pochi minuti, mi dà un po' da pensare.
Ma mi sta ascoltando? O il rinnovarsi degli stessi interrogativi fa parte del pacchetto-visita medica? Detto in altri termini: chiedere ossessivamente le stesse cose è forse un modo per spingere il visitando a rilassarsi in maniera che non rifletta troppo sulla tortura che sta subendo?
Mistero. In ogni caso, rivestitami e posizionatami sulla sediola dove mi aveva fatto accomodare all'inizio, attendo che finisca di scrivere il responso con un vago senso di tensione, cui segue, nel percorso a ritroso verso la macchina, uno stanco sollievo per essermela in fondo cavata con poco.
Stamattina, però, ho commesso l'errore di cercare su internet la sospetta patologia di cui soffrirei. E lì ho realizzato che il simpatico (questo sì) dottore che si è intascato settanta euro (letteralmente: si è messo i denari nella tasca del camice. E' l'ultima immagine che mi è rimasta impressa negli occhi mentre richiudevo la porta dietro di me) con incurante nonchalance ha sì una certa competenza (e vorrei anche vedere), però, come tutti i medici, non ascolta.
Naturalmente seguirò con attenzione tutte le prescrizionii suggerite (dovrò pur ammortizzare la spesa di farmaci e analisi varie), ma qualcosa mi dice che alla fine il sospetto avanzato dal placido dottore rimarrà tale. Meglio fa, a questo punto, il medico di famiglia, il "catastrofico", secondo la definizione appiopatagli dai miei parenti acquisiti, che, prescrivendomi un altro esame, ha chiosato nel seguente modo: "Gli acufeni sono la morte dell'otorino". Ovviamente sono trasecolata e gliene ho chiesto lumi: "In genere non si capisce mai come curarli, ma magari nel tuo caso è diverso", mi ha  risposto ridacchiando. Molto bene, ho pensato io, ritirando dalle sue mani da pianista azzimato l'impegnativa. Anche in questo caso, ormai sono in ballo quindi andrò a farmi analizzare le orecchie (vedi mai che faccio la fine di Beethoven, non nel senso che diventerò un compositore, ma nell'altro).
Però tutti questi episodi mi richiamano alla memoria una lontanissima visita dermatologica cui mia madre mi aveva accompagnato perché lo specialista analizzasse la natura delle macchie bianche che stazionavano sulla mia giovane schiena, residuo di un'eruzione cutanea che mi aveva provocato nei giorni precedenti parecchio prurito. Mentre il medico le osservava penso con l'ausilio di una lente d'ingrandimento, attendevo con impazienza, con mia madre di fronte, che la finisse prima possibile. Finché a un certo punto, gli ho sentito dire, dopo una pausa teatrale degna di Celentano: "E' chiaro che queste sono macchie". E io, di rimando, guardando mia madre negli occhi, ho fatto un gesto come a dire: "Ma va?" e lei per un pelo non è scoppiata a ridere.
Evidentemente, sono sempre stata un emotivo e un po' irreverente osso duro.
Mentre il dottore scriveva e scriveva le ricette e la mia scheda, non ho potuto infatti non pensare all'episodio dei medici in "Caro Diario", uno dei miei film preferiti.
Quand'è uscito, avevo poco più di vent'anni e la mia frequentazione degli studi medici (in fondo è tutt'ora così, per fortuna) piuttosto scarsa, quindi non ero in grado di apprezzarlo del tutto. Negli anni ho rivisto il film di Moretti un sacco di volte e con mio marito spesso ci siamo soffermati proprio sull'ultimo episodio, anche per scacciare la brutta sensazione di essere cavie da laboratorio, che non di rado ti resta addosso dopo qualche esame non proprio simpatico.
Tant'è. La mia natura coscienziosa mi fa comunque mettere su una maschera di coraggio bastevole almeno per sopportare quei quarti d'ora in cui ti passa addosso un macchinario o ti infilzano con un ago. Domina tuttavia in me un certo scetticismo che a questo punto chiamerei esistenziale, che mi fa diffidare, sempre.
E comunque, dai tempi di Caro diario in poi, tutte le mattine, a digiuno, mi bevo un bel bicchiere d'acqua. E meno male che non sarei suggestionabile...