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lunedì 11 maggio 2015

Mark Knopfler: da Madamatap a... Muoversi Insieme!




Orgogliosa di farvelo sapere: ho proposto ai miei committenti un pezzo su Tracker, l'ultimo lavoro del mio amato Mark Knopfler e loro l'hanno accettato.
Perciò eccovelo qui sotto forma di link.

Sopra, invece, una sua recente apparizione alla crucca Radio Bremen. Detto tra noi, accidenti come parla veloce la tedesca!! E del resto lavora in una radio, mica in un monastero Zen.

Buona lettura, ascolto etc etc.

mercoledì 29 aprile 2015

Mark Knopfler parla di Tracker... secondo me!



  


Chi mi segue sa che ho da poco preso il Toeic per la parte di listening and reading, che è quella ritenuta fondamentale dalle aziende che lavorano in ambito "international". Bene, direte voi. Benino, direi io, considerata la fatica che ho fatto per cercare di tradurre la video-intervista a Mark Knopfler che riporto sopra, sul suo ultimo, straordinario album Tracker.

Mi sono resa conto con estrema chiarezza, infatti, che un conto è capire più o meno il senso delle sue parole (e di quelle di chiunque parli in una lingua che non è la tua), un altro è tradurle letteralmente.

Al di là della logica considerazione che ciò non sia mai possibile con qualsiasi testo registrato in diretta (nessuno pubblica le sbobinature, ci mancherebbe altro), è proprio per me assai ostico capire alcuni passaggi delle considerazioni appassionanti di questo geniale autore di canzoni impressionistiche, nonché finissimo maestro della chitarra, ai più noto come l'ex leader dei Dire Straits, in verità ben più di questo.

E tuttavia vi riporto quel che ne ho carpito qui di seguito (mettendovelo in bella copia), perché lo sforzo fatto comunque dovrebbe consentire a chi sta messo peggio di me con l'inglese di apprezzarne almeno alcune sfumature.
Quelli che, invece, hanno la fortuna (la bravura) di essere più avanti di me, colmeranno le mie lacune semplicemente prestando l'orecchio e gli occhi, enjoying, come dice spesso Mark, al suo ricco mondo d'artista.

Buona lettura.


Starmene seduto nel British grove studio a Chisec, Londra, è per me un privilegio: sono molto orgoglioso di questo luogo, che ho contribuito a costruire nel corso di diversi anni. E' un meraviglioso posto in cui venire a lavorare. Vengo qui quando ho qualcosa da registrare, non quando ho della musica da scrivere. E' qui che ho registrato Tracker, vengo qui giusto a dare corpo alle mie idee (letteralmente dice "to come staggering into the light").

E' difficile sapere ciò che succederà dopo che hai scritto una canzone: a volte non è chiaro che cos'era che ti aveva spinto a scriverla e per quale motivo dovresti ritrovarci te stesso è poi un altro dei misteri; un divertente mistero, devo dire, un affascinante mistero. In ogni caso, negli anni, ho imparato a lasciarlo accadere, a renderlo più facile.

"Tracker" è molto simile a "Privateering" e ha a che fare con il mio vecchio modo di lavorare. L'ho chiamato così perché, you know, tu ti senti coinvolto nel cercare un soggetto, nell'investigare nel tuo solito modo, a volte ti succede anche quando sei in giro per il mondo in tour. Ma io "segnalo", "traccio" anche andando indietro nel tempo, come si vede anche in alcune canzoni dell'album, un aspetto che per me diventa sempre più importante man mano che invecchio.

(Segue l'assolo di chitarra dal primo brano di Tracker "Laughs and jokes, drinks and smokes").

Ecco, qui ho buttato giù ("cesellato") questa melodia circolare, pensando a una delle cose più stupide che ho fatto nella mia vita: fumare. Tutti fumavamo sempre, perché eravamo giovani, indistruttibili. Fumare faceva parte del fatto di essere giovani. 
(attacca il pezzo)
"no lights on the stairs": qui racconto il fatto che nel posto in cui vivevamo la luce delle scale durava solo quindici secondi da quando premevi il bottone, quindi in pratica, prima che tu avessi il tempo di aprire la porta o di andare da qualunque altra parte, ti ritrovavi sempre al buio. 
Un altro aspetto di quegli anni è che ci si riuniva tutti insieme, si cantava tutti insieme, faceva parte del nostro ruolo: se fossimo stati da soli, probabilmente non sarebbe successo niente di quel che è successo.

Una delle cose buffe legate al registrare con una band è che devi lasciare accadere le cose, come in "Laughs, and jokes and drinks and smokes", dove, ovviamente la canzone era scritta, ma anche se era scritta, quando la band vi è entrata in contatto, sono successe delle cose ed è magnifico che succedano. 

Sono il tipo di persona che ama entrambi gli approcci: adoro essere parte di una band, ma adoro anche essere solo io nello studio con il tipo ai keyboards o all'ingegneria del suono a cesellare e ottenere una piccola mappa e poi lasciare andare la canzone, domandandomi che cosa ne devo fare. 

Insomma, io sono uno di quei tipi fortunati che amano entrambe le cose. Quindi alla fine faccio una specie di scommessa con la canzone: se lavorarci da solo, e in questo caso la canzone andrà in un certo modo, lentamente, o se devo coinvolgere tutti gli altri. Perciò è meraviglioso essere parte di questa cosa: oltretutto, per la mia band, il cantante ha sempre ragione e, insomma, sono io il tizio che l'ha scritta (ride)...

In sottofondo le note di "Broken Bones".

Wherever I go
In "Wherever I go" duetto con Ruth Moody, meravigliosa cantante e cantautrice lei stessa, ma anche se lei aveva cominciato a  cantare anche negli altri pezzi di quest'album, in questo pezzo ho capito che sarebbe stata perfetta. "Wherever I go" di nuovo racconta di due amici che parlano di quanto non sia importante da quanto tempo non si siano più visti: essendo due buoni amici, avrebbero sempre pensato l'uno all'altra dove si fossero trovati... ed è proprio quanto capita tra grandi amici: quando ti rivedi, non ti sembra di essere mai stati lontani.

(canta).

Registrare una canzone raccoglie davvero un po' ciò che si legge ("quite of bit reading") e questo succede sempre più o meno all'inizio: leggo qualcosa e succede che alla fine si trasforma in qualcos'altro.
In alcune canzoni del passato, come "Sailing to philadelphia", "Telegraph road" o altri tipi di canzoni, c'è qualcosa che entra in conflitto con dove sono io adesso e c'è una collisione e questa è un'idea, ma ho trovato che in ogni atto del creare in genere, una volta compiuto, va da sé. Cioè: una volta scritta una canzone, questa esce di casa e cammina da sé per la sua strada e a sua volta finisce per influenzare ogni successivo atto creativo, ogni "creazione della creazione".
 (è una parte per me abbastanza oscura: prendetela con le pinze... meglio di così non riesco!)


Basil
Quand'ero ragazzo, ottenni un lavoro come copy boy il sabato pomeriggio all'Evening Chronicle di Newcastle. Mi davano 6, 6 pence, per lavorare in ufficio, dove c'era un tipo strano, piuttosto chiaramente bisbetico, troppo vecchio per quel posto, e ben più eccentrico del grosso dei tizi che lavoravano al giornale. Scoprii che era il poeta Basil Bunting e già ai tempi ne rimasi affascinato. Era troppo vecchio per il lavoro ed era infelice di lavorare. Ho cominciato a leggere le sue cose anni dopo, quando era già andato via e ho realizzato allora che il tempo l'aveva trasformato. 
In qualche maniera, quando hai 14-15 anni, sei uno sprovveduto con tutta la vita davanti, mentre per Basil era tutt'altra storia, e di certo ora guardo il mondo molto più di allora dal punto di vista di Basil (ride).
Quando Basil scrisse il suo poemo epico Briggflatts ottenne molta attenzione nel mondo della letteratura e fu in grado di lasciare il giornale e andare in America e godere del successo: da quel momento venne considerato il più grande poeta vivente dopo T.S. Eliot.
(canta)

Un'altra cosa che capita nelle mie canzoni è che sono un po' come un gioco d'azzardo: non so perché debbano andare in un certo modo e questo mi affascina. Penso che sia questa specie di trascrizione dei pensieri ciò che mi interessa.

Sono sempre stato attratto dalle persone che sono pressoché costrette a fare determinate cose, a fare ciò che fanno. Credo che questo sia il più ricorrente tra i temi che compaiono in ciò che scrivo.
Devi sentirti costretto a fare certe cose: se non lo sei, ciò che ti preme non accadrà.

Beryl
E' una di quelle canzoni che si rifanno al sound dei Dire Straits. Nel testo parlo di Beryl Bainbridge, che è stata una donna eccezionale, una scrittrice eccezionale secondo il mio punto di vista. Ma quel che mi ha attratto è che non è mai stata riconosciuta finché è stata in vita...
Beryl veniva dalla classe operaia di Liverpool, non andò all'università, è vissuta sempre lì.
(canta, suona)

Skydiver
E' nello stile di quel periodo in cui da teenager fui introdotto nello staff dei Beatles: ricordi quel loro pezzo che fa... (lo suona)? Allo stesso modo io faccio: "I've been banned...", etc.
Insomma, è una sorta di approccio chitarristico, ma di nuovo è una questione di tipo artistico, risultato di un amalgama di differenti discipline artistiche.
(Canta)... A un certo punto, inaspettatamente, si inserisce sulla mia la fantastica voce di Ruth, e ne viene fuori qualcosa di veramente speciale... Ruth non si limita a cantare, vive la musica.

River towns
E' un'altra canzone con un personaggio (una character song): in questo caso si tratta di un tizio giovane che sta a bordo di una chiatta su uno dei fiumi americani del Midwest, volevo scrivere del periodo in cui avevo appena scoperto Cold Bristy, J Pancake (non so chi siano, soprattutto il primo, ahimè), un grande spreco di talento, ho voluto raccontare la solitudine di un ragazzo nel giorno di Natale, prostrato da una sorta di rassegnazione... ricordo quando io stesso ero in una band, senza un soldo in tasca, sperduto nella campagna, era Natale e sarei voluto essere a casa, c'era neve dappertutto, guardai oltre lungo la strada ghiacciata e a parte me non c'era nient'altro di vivente che si muoveva... e la canzone viene giù come la neve (sorride). Ricordo chiaramente che cosa ho scelto di fare, con la chitarra nella mia valigia... penso che Tiver towns abbia molto a che fare con la solitudine e con il momento in cui realizzi quanto conti in questo mondo.
(suona)

... quindi si tratta solo di un giovane solo in una "tugboat" a Natale sul fiume e suppongo che io abbia trovato qualcosa in questi personaggi nei quali ci si possa identificare.

Lights of Taormina
E' è una delle canzoni dell'album nelle quali volevo suonare una "slag guitar". E infatti in questa canzone ho usato questa 64 stratocaster, piuttosto vecchia, ma è un'amabile chitarra, che avevo già usato in "Sailing to Philadelphia"... Le ho ridato nuova vita usandola in "Tracker", perché ha un buon suono (la prova).
... adesso non so bene che cosa suonare perché mi piace mescolare (mix up) improvvisazioni... mi ricordo a malapena come faceva (mentre suona).
E insomma è bello quando qualcosa ritorna in auge: è come rincontrare un vecchio amico e scoprire di avere ancora molte cose in comune (sorride). E' un simpatico ciclo. 
Sono un tipo fortunato perché se è vero che c'è un ciclo di eventi da quando scrivi una canzone, poi la registri e quindi vai a suonarla davanti alla gente, quando sei capace di goderne interamente, ti puoi ritenere proprio un tipo fortunato. Non capita a tutti.

La vita è abbastanza piena quando ti piace ciò che fai: prendi bene anche le cose inaspettate che capitano. Per esempio, mentre lavoravo a "Tracker", Bob Dylan mi ha chiesto di partecipare a un suo tour, prima europeo, poi americano; quindi ho dovuto interrompere la registrazione dell'album e quando ho ripreso, questo ha influenzato molto il resto del lavoro. E di ciò ne sono molto contento.

Quando sono in tour, è particolarmente buffo vedere questi grossi ex ragazzi portati da qualcuno di famiglia o che loro stessi hanno trascinato al concerto, che alla fine applaudono e hanno il volto pieno di lacrimoni... è proprio una bella sensazione (sorride).
Penso che quando hai trasmesso qualcosa di positivo agli altri, hai fatto la differenza.
Perché quando crei qualcosa e la lasci andare nello stagno, non sai mai che cosa ti tornerà indietro...

Per quanto riguarda me e i milioni di fan che ti adorano oltre ogni dire, caro Mark, è tornato indietro assai.
Thanks a lot, long, cool guy :-)
E voi abbiate pietà della mia traduzione imperfetta...

martedì 24 febbraio 2015

Mark Knopfler e la felicità necessaria



Il documentario della BBC che pubblico sopra (NB: è stato bloccato dai proprietari qualche tempo dopo aver pubblicato questo post. Ne sono molto dispiaciuta, ma non ci si può fare niente...) mi è stato segnalato (com'era facilmente deducibile per chi ci conosce) dal Bipede. 
Non potrò mai smettere di ringraziarlo per avermi fatto conoscere a fondo Mark Knopfler, che è molto di più della voce dei mitici Dire Straits. Chi, come me, ha scoperto la sua produzione solistica, prendendosi naturalmente il giusto tempo per studiarne (proprio) le canzoni, saprà senza bisogno di ulteriori parole quanto grande sia questo immenso songwriter nativo di Glasgow.

Come già detto su questo spazio in passato, quando mi sono rimessa a studiare inglese, sono partita proprio dai testi di Mark per farmi un po' di vocabolario. Un'operazione davvero complessa che non ho ancora terminato né credo concluderò a breve.
Non solo perché, com'è ovvio, non si finisce mai di apprendere quali e quante siano le sfumature di una lingua (pure della propria), ma anche perché l'artista britannico ha una ricchezza espressiva davvero straordinaria.

Basta guardare e ascoltare ciò che dice in questo documentario uscito in occasione del suo terzultimo disco (considerando il prossimo in uscita in 9 marzo) Get Lucky.

Sapevo dell'abitudine di Mark di portarsi dietro un taccuino per trascriverne, tutte le volte che ci fosse stato bisogno, dettagli di vita rubata girando tra la gente; ciò che invece ignoravo fino a ieri è che abbia fatto agli albori della sua vita adulta (a soli 15 anni) il giornalista (il copy boy, più esattamente).
Certo, non ha mai sentito - lo dice proprio letteralmente - di avere "l'inchiostro nelle vene", ma a mio modestissimo avviso nel suo sangue c'è sempre stato molto di più del liquido nero-bluastro che usiamo per scrivere.
Quanti ne nascono, infatti, al mondo di artisti che sanno disegnare suonando e scrivere cantando

Per me Knopfler è un mago delle sinestesie, ossia uno di quei rari casi in cui, ascoltando la sua musica e leggendo le microstorie contenute nei suoi testi, ti lasci andare, smetti di pensare al tuo presente e ti metti in viaggio.

Non è un caso se uno dei dischi che amo di più è quello con Emmylou, affascinante cantante folk made in USA, che compare anche nel video qui sopra. Ascoltandoli duettare insieme, mi sembra di percorrere insieme con loro quelle immense strade che ammiro sempre nei telefilm americani, e soprattutto mi sembra che sia ancora tutto possibile.

Nel penultimo lavoro, che sto riascoltando in questi giorni, di canzoni che ti portano lontano lontano (oltre Milano e i gasometri, direbbe il "mio" maestro astigiano), ce ne sono parecchie.
Spettacolare è, ovvio, Privateering, il pezzo che dà il titolo all'album, che parla di pirati veri e metaforici.

Ma tra le più emozionanti, per me, c'è Seattle, che parla di pioggia e di amore, di un amore che si nutre sotto e con la pioggia che cade a secchiate sulla città Usa. Una delle molte che vorrei visitare.

L'ultimo mese è stato molto duro, come non mi succedeva da tempo.
Il 26 febbraio del 1997 ho avuto una crisi d'ansia fortissima in una libreria di Pisa. La mia prima vera crisi d'ansia: da allora niente è stato più come prima. Ne ho parlato più volte, soprattutto ne ho ricavato un racconto diversi anni dopo che, pur con i difetti congeniti alla mia scrittura, ha ancora qualcosa di potente.

Non sono più la stessa di quegli anni, ne sono consapevole.
Però, in meno di un anno mi sono ritrovata senza la donna che più di tutte mi ha sempre spinta, allora come prima e come dopo, a proseguire con la mia vita, e con un papà molto più fragile.

L'ho già scritto: sono diventata adulta tardi e una parte di me temo non crescerà mai (lo testimonia pure la mia bassa statura).
Fa niente, l'importante è conoscere i propri limiti e giocarci quando non si può fare altrimenti (come faccio spesso con i miei 152 centimetri sopra il livello del mare).

Mark e il suo immaginario così ricco, la lucidità con cui, poco più che quarantenne, ha detto basta (lo si vede bene nel documentario) alla sua scintillante vita di popstar, mi ricordano gli strappi che ho compiuto pure io nel mio piccolo, in nome della ricerca di un senso più profondo nelle cose, quello che "si nasconde dietro alle persone", come canta Cristina Donà in uno dei pezzi più belli del suo Così vicini.

Quel che più mi piace e forse mi rassicura è che questo genio della musica e delle parole oggi, a quasi 66 anni, sia - visibilmente - una persona felice. Lo testimonia l'altro, brevissimo, video che mi ha linkato sempre il Bipede, che racconta alcuni momenti delle sue giornate più recenti, forse di un anno fa, mentre stava registrando Tracker, l'album di prossima uscita.

Lo trovate qui sotto:



Che cosa significa felicità, direte voi?
Per me, più o meno quella cosa lì che si vede mentre Mark gioca con il suo cane, prova la macchina d'epoca e poi va nello studio di registrazione, tra i suoi colleghi e sicuramente amici fidati.

La felicità è riuscire, insomma, a trovare il proprio posto nel mondo imparando a fare ciò che più ci piace. Tutto qui, pensate? Beh, vi sfido a provarmi quanto sia semplice.

Se per voi è stato così, ne sono per l'appunto felice.
Per me, invece, è dura: soggettivamente sono incline all'esaurimento (e vabbè), ma oggettivamente ci vorrebbero condizioni un po' più favorevoli.

Per fortuna arriva la musica e le passioni altrui, dalle quali, a volte, com'è successo ieri mattina, mentre guardavo Mark, mi lascio facilmente contagiare.

Lui non può saperlo, o forse lo sa eccome: nel mondo ci saranno tante persone confuse, preoccupate, incerte e con problemi anche decisamente più seri dei miei che, ascoltandolo, si sono magicamente sentite meglio.

E' questo il senso più vero dell'arte: offrire oasi di consolazione vera e in un certo senso gratuita.

Spero solo di arrivare allo stesso grado di pacificazione che mostra quest'uomo dai piccoli, intensi, occhi blu.
Certo, come ha dichiarato in un'intervista Paolo Conte, "il felice", prima bisogna "lavorare molto".
Forse è proprio questo il problema.

Ma questa è un'altra storia.
Ne parlerò (forse) in un altro post.

A voi, buona vita e buone ricerche.
La vita è sempre dannatamente interessante.
Non scordiamocelo mai.