Carlo Verdone in Troppo forte |
Mi sentivo in lite con il mondo intero? Ma no: solo con i frequentatori del lido El Pareso, Francavilla al Mare, al confine con Pescara, il regno di Gomorra, come ebbe a dire mia sorella non più di tre-quattro anni fa.
Eppure, in un certo senso, quel posto è rassicurante: nonostante sia trascorso poco più di un quarto di secolo dalla prima volta che ci siamo capitati, la mia famiglia d'origine ed io, e benché oggi si sia in preda di una crisi più nera dell'abbronzatura di molti dei suoi avventori, lì sembra che il tempo non sia mai passato. E nemmeno il mio atteggiamento ostile, aggiungerei, e quel perverso (ma sì, è così) masochismo che ci fa tornare tutti là di anno in anno, benché sia chiaro che l'antipatia sia reciproca. Poi, certo, l'ombrellone a pochi metri dal mare, che in certi giorni ha una luce e una chiarezza che sembra di essere ai Caraibi, ci fa dimenticare tutto il resto. Fino al successivo "Vingenzo al bar" gracchiato dall'altoparlante, oppure, più spesso, al nuovo avviso "C'è da sposhtare urgendemende la mercedes parcheggiata in doppia fila", oltre, naturalmente, al silenzio squarciato dall'immancabile juke-box, che da una cert'ora del pomeriggio, negli ultimi anni, perennemente acceso quand'ero adolescente, avvilisce timpani e morale di chi vorrebbe giusto un po' di pace. E però, come dicevo, anche la famiglia Cicalini è preda dei cliché: perché tutte le volte che uno di noi è accolto (bastonato) dal fracasso, si domanda come sia possibile. Com'è che di anno in anno continua a esserci così tanta gente che si affolla nello stretto piazzale antistante la concessione senza tenere in alcun conto delle auto già posteggiate? E com'è che nessuno chiama direttamente il carro-attrezzi anziché ricorrere ai gestori dei due stabilimenti confinanti? E perché il juke-box è sempre a quei decibel da discoteca? E com'è che tutti i bagnanti (TUTTI) canticchiano a memoria le orribili melodie urlate dal dannato aggeggio? Perché siamo gli unici che non si mettono a ballare sul lettino? Le risposte sono molteplici, alcune più sociologiche, altre più freudiane.
Tra quelle del primo tipo, la più lampante e tautologica, direi anzi, "eziologica" è: perché, oltre a essere in Italia, qui siamo neanche a Francavilla, bensì direttamente nel regno dei cafoni.
Questi ultimi una volta li chiamavamo i rozzi, con la bella o aperta, alla chietina maniera. Mi piaceva in particolare come pronunciava la parola il nostro amico Marco M., con la sua voce fortemente nasale. In seguito, abbiamo preso a definirli cafonacci, istruiti in ciò da mio padre, che ha la seguente teoria: cafonaccio si diventa, ma già da bambini si è cafoncini, poi crescendo ci si trasforma in cafoni, infine invecchiando si acquisisce lo status definitivo.
E dire che appena sbarcata a El Paraculo, come l'aveva ribattezzato sempre il nostro amico Marco M. (un freddurista davvero unico), avevo anche provato a fare amicizia con i cafoncini-cafoni. Sì, perché ai tempi era una graziosa quattordicenne, facile preda dell'occhiale da sole a specchio a caccia.
E qui si entra nel regno delle spiegazioni psicologiche al nostro perdurante ritornare a Gomorra. Per darvene la sintesi più efficace, ricorro nuovamente a mia sorella e al bisogno familiare di scegliere le soluzioni più "scrause" per sentirci più vicini al popolo. Al popolino. Perché chi ci crediamo di essere, noi piccolo-borghesi di una cittadina del centro-sud, per disprezzare chi sta più in basso di noi? Starne a contatto, anzi, ci dà la misura della nostra superiorità e la conferma che mai, MAI, potremo scendere a quel livello.
Eppure. Eppure bisogna stare attenti. E secondo me io l'ho scampata bella, ma un po' ho rischiato, e precisamente proprio l'anno in cui siamo arrivati là.
Ma mi sono ripresa in fretta, favorita anche da mia sorella, ben più avanti nel processo di de-scrausamento. Grazie a lei, infatti, già alle medie avevo appreso che la giacca di jeans senza maniche che a me tanto piaceva, era un chiaro simbolo di rozzezza o rozzeria (un'altra parola molto in voga ai tempi), e che mai, MAI, avrei dovuto indossarne una. Il liceo classico ha fatto il resto: nel giro di un inverno mi sono trasformata in una disadattata, anche se per la presa di coscienza definitiva della mia attuale condizione ho impiegato tutti gli anni intercorsi da allora.
All'inizio del processo, dunque, ero troppo apertamente ostile, il che mi permise, sì, di tenere a debita distanza il grosso degli habituè balneari, però in cambio finii per condannarmi a una sorda e annoiata solitudine nelle giornate più belle dell'anno e della vita, tutto sommato.
Ogni tanto, certo, era possibile riderne insieme, come quella volta che, di ritorno dalla spiaggia, mi sentii apostrofata da un gruppo di operai in pausa pranzo, nel ristorante sull'angolo della stradina che mi avrebbe ricondotta a casa. "Valendino, valendino, valendino", ebbe a pronunciare una voce da baritono e di una lentezza messicana, mentre passavo con la mia maglia a metà coscia (le mie odiate cosce) a pochi metri da loro.
Con mia madre e mia sorella ci ridemmo su e ancora oggi, quando rivanghiamo l'episodio, ci affiora una risata. E però, continuo a non capire. A non capire perché in tutti questi anni non abbiamo cambiato stabilimento. Sarebbero bastati pochi metri. Perché pure alla Siesta, dove di certo non c'è un circolo di intellettuali, però si sta meglio, se non altro perché il juke-box non è mai così alto.
Forse, però, una ragione c'era. Eccola l'illuminazione. Perché potessi finalmente scriverne, a futura memoria. Mia e della mia famiglia, i miei veri fan. Gli unici, forse, per cui accetto giusto un pizzico di scrausamento pur di passare un po' di tempo con loro.
Però, cari genitori, ve lo dico da adesso: per quanto mi riguarda, mai più a pranzo al Paraculo. Citando un anziano ex bagnante di origine foggiana, trasmigrato allo stabilimento fighetto poco più a sud dopo aver subito una grave offesa dai cafonacci gestori, pure io "indietro non torno".