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domenica 27 ottobre 2013
I Rem e la camicia dei miei vent'anni
Vent'anni fa, più o meno, in primavera, giravo con una bici con i freni a bacchetta, di un improbabile colore rosa, con la mia camicia fantasia. Il fondo era rossastro, ma i disegni, un po' geometrici, un po' tondi, dovevano dare sul celeste, verdino e forse giallino.
Dovrei avere da qualche parte anche una fotografia che mi ritrae con quella camicia, di una marca molto di moda negli anni Ottanta-Novanta, quella dei maglioni di lana a treccia, oggi tornati in voga. Sono sicura che chi è nato a inizio Settanta come me ha capito benissimo a quale brand (bleah) mi riferisco.
Molti anni dopo me ne sono ricomprata una molto simile al mercato di Porto San Giorgio del giovedì, o molto più probabilmente alla grande fiera di primavera, dedicata al santo patrono del borgo marino che ho imparato ad amare nel tempo. Oggi che non ci vivo più, tra l'altro, mi manca ancora di più, forse anche perché ho capito che con il denaro che posseggo non potrò mai comprarvi una casa. Ma non volevo scrivere questo post per lamentarmi del destino crudele.
Torno subito alla camicia. Quella nuova (più o meno, come sopra) è di tonalità marrone, con disegni, un po' geometrici, un po' tondi, sul rossastro, il blu, il verde e il giallo.
Come la prima, è lunga (su di me non è difficile immaginare che qualcosa mi stia grande, almeno in senso longitudinale) e va portata, preferibilmente, aperta su una t-shirt in tinta unita, per non accentuare ancora di più l'effetto coperta patchwork. La marca, stavolta, non è italiana, bensì spagnola, il che la dice lunga sull'evoluzione (?) dell'economia nazionale, assediata e fagocitata da una globalizzazione troppo aggressiva.
Inconsciamente volevo riprodurre l'atmosfera di vent'anni fa, almeno credo, favorita dalla pianura, il sole caldo e la possibilità di cavalcare una bicicletta con le ruote grandi e il telaio squadrato di un improbabile rosa, come l'altra. Della Ceriz di mia suocera, però, mi pare di aver già parlato.
Non avevo invece mai fatto cenno, almeno non su questo spazio, all'altra, i freni pericolosissimi e un'altezza troppo grande per le mie gambe corte. Una volta, per dire, ho quasi rischiato di finire contro un camioncino, impossibilitata com'ero nella frenata dal fatto che guidavo con una sola mano perché con l'altra reggevo l'ombrello. Non mi separavo mai dalla bici, neanche la pioggia mi avrebbe costretta a prendere l'autobus, da me detestato dai tempi del liceo, quando dovevo fare a botte pur di salirvi su, pigiata malamente tra altri (nonché più alti) studenti che, come me, erano condannati alla forzosa traghettata dantesca dal colle alla pianura, per tornare a casa a ora di pranzo.
E insomma, una volta a Pisa, mi adeguai in pochi mesi alle abitudini dei locali. Anche se quella bici, chiaramente rubata, era davvero un'arma micidiale nelle mie mani. Non ho mai perso l'abitudine di correre come una lippa e se non sono mai andata a schiantarmi contro qualcosa o qualcuno, è solo perché, in genere, resto una tipa prudente. Certo, dopo l'incidente di Paolo, comincio a dubitare dell'utilità del mio modo di essere: non c'è persona più attenta di mio marito alla guida, il che, tra l'altro, non vuol dire andare come lumache anche quando si potrebbe evitarlo, eppure la sfiga ci vede meglio del nostro giudizio. E pazienza. Sto divagando.
Dicevo delle mie camicie per estensione hawaiane, alla maniera di quella che Paolo Conte avrebbe voluto indossare davanti alla bella signora dal parlare difficile.
Giorni addietro, al Ruggito del Coniglio, un programma di Radio Due che mi fa compagnia quasi dallo stesso numero di anni dell'aneddoto che sto per riportare, hanno messo la canzone dei Rem che apre questo post. E dire che i Rem non sono mai stati un gruppo da me chissà quanto amato. Semplicemente, al ritornello, mi sono rivista in sella alla bici falsamente rosa (dovevano averla tinteggiata giusto qualche giorno prima di rifilarmela: sono stata fortunata che nessuno ne abbia rivendicato la proprietà accusandomi del furto. Io, comunque, la pagai, chissà se trentamila lire o forse più).
Ero appena tornata a casa, in una calda giornata di fine primavera, le scarpe di pezza ai piedi, le cuffiette nelle orecchie. Non sto parlando degli auricolari, che spesso uso quando viaggio. Sto parlando proprio del walkman, probabilmente quello di plastica arancio nel quale infilavo le mie cassette. I nastri, come li chiama ancora adesso mio zio Gigi.
Quel giorno ero contenta, forse gli esami erano lontani, o forse ne avevo dato uno da poco. So solo che ero serena, svagata e immersa in chissà quale sogno.
Non che adesso non mi capiti più, ma è proprio vero che a vent'anni si è diversi. Sono convinta che lo siano anche le giovani madri, costrette, magari, a crescere un po' più in fretta di quanto non sia capitato a me, ma in possesso di un'energia naturale, che ti fa respirare, correre, studiare quasi in uno stato di incoscienza. A quell'età, se stai bene e non hai particolari guai di altro genere (guerre in corso, povertà, situazioni familiari tragiche), sei più o meno come un bambino, giusto un po' più grande, il futuro indefinito e la personalità ancora in potenza.
Almeno, io ero così. Ed ero felice.
Non dovevo esserne consapevole, credo, anche se, ai tempi, non mi lamentavo delle ingiustizie subite né mi attaccavo ad alcun stravagante capro espiatorio. Quando ero triste (e figuriamoci se non capitava), scrivevo qualche frasetta sui miei diari, che di solito mi pareva idiota a distanza di pochi giorni, e andavo avanti. Anno dopo anno, esame dopo esame, sogno dopo sogno.
Un giorno ho subito lo stop che mi ha trasformato in adulta. E anche se, ormai, l'ho metabolizzato bene, se mi sono fatta una ragione della mia inestirpabile emotività, so che prima, ai tempi della camicia colorata che portai con me anche a Vienna, durante il corso di tedesco (la foto cui accennavo prima venne scattata nell'alloggio universitario in cui abitammo, mia sorella, una compagna di università ed io. Almeno credo che fossimo tutte e tre nella stessa stanza), ero felice.
Ero una bambina felice. Ascoltavo Beethoven, guardavo il Reno (questo l'anno prima, durante l'Interrail con mia sorella), scrivevo noterelle di viaggio, ripetevo Ich bin, du bist etc etc, ed ero contenta. Sognante e contenta.
Quella bambina non c'è più, sono stati proprio i Rem, con quella canzoncina allegra, a darmi l'esatta misura del tempo trascorso.
Vi giuro: non sono triste, giusto un pizzico malinconica. Non avendo figli, però, non posso che intenerirmi per la me stessa di ieri e per i miei adorati quattrozampe.
Quando vedo i nipoti, certo, mi capita di provare qualcosa di simile per loro: confido ardentemente nelle loro capacità e nei loro talenti e spero che anche loro, un domani, possano ricordarsi di quanto sono stati amati, negli anni più belli della vita.
Io lo sono stata. Ed è amaramente dolce rendersene conto.
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giovedì 16 maggio 2013
I buchi del cuore e le lezioni d'inglese
Questa settimana ho fatto ben due lezioni di conversazione in inglese. Anzi, tre: il merito di quest'ultima è di un mio amico in carne e ossa, che molto gentilmente si è offerto di aiutarmi nel mio donchisciottesco tentativo di imparare una buona volta la lingua anglosassone. Impegni permettendo, credo che potrà darmi davvero una grossa mano.
Dal canto mio, spero con tutto il cuore di riuscire a non perdere la motivazione: certo, l'investimento economico compiuto per frequentare la mia scuola d'inglese online non è indifferente, per cui qualcosa dovrò cavarcela per forza. E tuttavia, non mi riferisco solo all'obiettivo esterofilo. Sto parlando più in generale della mia vera o presunta volontà di potenza. Fa molto Nietszche questo passaggio, eh? Fregnacce a parte, gli avvenimenti di questi ultimi mesi (e ahimè anche giorni) confermano sempre di più le fosche previsioni sul futuro, ahimè neanche tanto lontano. E non si tratta di pessimismo o di lagnosità sudista, è proprio che non vedo grossi sbocchi se non "l'auto-tutto" per gente come me e come i miei più stretti legami, alle prese con presunti lavori autonomi a rischio accertamento fiscale per i troppo magri (ma ahimè veri) guadagni annuali accumulati.
E così, tra un accudimento e l'altro (di quattrozampe e persone), tra una lezione d'inglese e un'altra di ginnastica e quelle successive, cerco di non perdere la barra e di darmi un qualche orientamento.
Stamattina ho spedito la mia domanda per un concorso pubblico per soli titoli: voglio proprio vedere se mi chiameranno almeno per il colloquio. Non mancherò di riferirne qui, in tutti i modi. Scritte queste inani righe, poi, mi dedicherò a buttare giù nuove idee per un lavoro creativo. Più vago di così si muore, no? Eppure. Eppure sono proprio i momenti di ricerca e di spremitura delle meningi che mi danno la maggiore soddisfazione. Come sarebbe bello se a ogni scatto creativo (valido, naturalmente, il che significa uno ogni tanto. Le idee buone sono per forza rare) ne corrispondesse uno del mio conto in banca, ovviamente in entrata. Non venitemi a dire che l'arte (?) non paga. In certi casi paga eccome. E in ogni caso io non sono un'artista, perciò non piangete per me come la fidanzata di Moretti in Ecce Bombo.
Abbiate pazienza, insomma. E' solo che oggi è una giornata strana e il mio cuore aveva bisogno di riempire (o forse sarebbe più esatto dire svuotare) di parole i buchi emotivi diversamente troppo grandi. Ieri precisavo con un caro amico che da oggi è un po' più solo che non sono depressa. No, non lo sono affatto. E' solo che non ho più vent'anni (ma neanche trenta. Accidenti alla canzone di un gruppo anni Novanta che ascoltavo in anni che davvero spero di non vivere mai più: parlo dei Prozac +) e certi sogni, a questo punto, non si realizzeranno mai più. E' sicuro che è così, bisogna dirselo con chiarezza. Nel tempo, insomma, il cuore si riempie di buchi sempre nuovi, alcuni dei quali, purtroppo, non si potranno più ricucire, un po' come i calzini troppo lisi.
Perciò, sì, potete raccontarmi i vostri guai (come qualcuno in effetti fa davvero), li ascolterò gratis, con il mio cuore pieno di buchi e il sorriso sempre accennato, forse un po' triste, ma rassicurante.
Sto parafrasando e reintepretando una bellissima canzone di Mark Knopfler, Heart full of holes, da me nuovamente saccheggiato per la lezione online. Non ricordo a memoria il testo, ma sono sicura che la musica che ne accompagna le parole vi faranno capire molto meglio di quanto riesca a fare io quanta poesia c'è, in noi e nella nostra vita. Anche grazie a questi enormi buchi rammendabili mai più.
Dal canto mio, spero con tutto il cuore di riuscire a non perdere la motivazione: certo, l'investimento economico compiuto per frequentare la mia scuola d'inglese online non è indifferente, per cui qualcosa dovrò cavarcela per forza. E tuttavia, non mi riferisco solo all'obiettivo esterofilo. Sto parlando più in generale della mia vera o presunta volontà di potenza. Fa molto Nietszche questo passaggio, eh? Fregnacce a parte, gli avvenimenti di questi ultimi mesi (e ahimè anche giorni) confermano sempre di più le fosche previsioni sul futuro, ahimè neanche tanto lontano. E non si tratta di pessimismo o di lagnosità sudista, è proprio che non vedo grossi sbocchi se non "l'auto-tutto" per gente come me e come i miei più stretti legami, alle prese con presunti lavori autonomi a rischio accertamento fiscale per i troppo magri (ma ahimè veri) guadagni annuali accumulati.
E così, tra un accudimento e l'altro (di quattrozampe e persone), tra una lezione d'inglese e un'altra di ginnastica e quelle successive, cerco di non perdere la barra e di darmi un qualche orientamento.
Stamattina ho spedito la mia domanda per un concorso pubblico per soli titoli: voglio proprio vedere se mi chiameranno almeno per il colloquio. Non mancherò di riferirne qui, in tutti i modi. Scritte queste inani righe, poi, mi dedicherò a buttare giù nuove idee per un lavoro creativo. Più vago di così si muore, no? Eppure. Eppure sono proprio i momenti di ricerca e di spremitura delle meningi che mi danno la maggiore soddisfazione. Come sarebbe bello se a ogni scatto creativo (valido, naturalmente, il che significa uno ogni tanto. Le idee buone sono per forza rare) ne corrispondesse uno del mio conto in banca, ovviamente in entrata. Non venitemi a dire che l'arte (?) non paga. In certi casi paga eccome. E in ogni caso io non sono un'artista, perciò non piangete per me come la fidanzata di Moretti in Ecce Bombo.
Abbiate pazienza, insomma. E' solo che oggi è una giornata strana e il mio cuore aveva bisogno di riempire (o forse sarebbe più esatto dire svuotare) di parole i buchi emotivi diversamente troppo grandi. Ieri precisavo con un caro amico che da oggi è un po' più solo che non sono depressa. No, non lo sono affatto. E' solo che non ho più vent'anni (ma neanche trenta. Accidenti alla canzone di un gruppo anni Novanta che ascoltavo in anni che davvero spero di non vivere mai più: parlo dei Prozac +) e certi sogni, a questo punto, non si realizzeranno mai più. E' sicuro che è così, bisogna dirselo con chiarezza. Nel tempo, insomma, il cuore si riempie di buchi sempre nuovi, alcuni dei quali, purtroppo, non si potranno più ricucire, un po' come i calzini troppo lisi.
Perciò, sì, potete raccontarmi i vostri guai (come qualcuno in effetti fa davvero), li ascolterò gratis, con il mio cuore pieno di buchi e il sorriso sempre accennato, forse un po' triste, ma rassicurante.
Sto parafrasando e reintepretando una bellissima canzone di Mark Knopfler, Heart full of holes, da me nuovamente saccheggiato per la lezione online. Non ricordo a memoria il testo, ma sono sicura che la musica che ne accompagna le parole vi faranno capire molto meglio di quanto riesca a fare io quanta poesia c'è, in noi e nella nostra vita. Anche grazie a questi enormi buchi rammendabili mai più.
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