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mercoledì 18 novembre 2015

Umorismo sotto assedio: strategie di resistenza


Sono giorni che rimugino sull'umorismo e sulla sua importanza. Lo stavo facendo, a dire il vero, da prima dell'ennesima barbarie parigina (che viene dopo quella libanese, quella giornaliera della Siria, quella degli studenti keniani di qualche mese fa, quelle periodiche di Boko Haram, etc etc. Così siete tutti contenti, ok?).

Ci rifletto, a dirla tutta, da sempre.
Subito dopo il terremoto dell' '87, mia sorella ed io, guardandoci in faccia nel cortile del palazzo, tra gli altri condomini atterriti, abbiamo fatto qualche battuta idiota su come eravamo conciate. Magliacce da casa, ciabatte schiantate e, conoscendomi, pure un vago unto nei capelli.

Non so più, per amor di verità, se era quello l'argomento che ci aveva aiutato ad allontanarci almeno per un attimo dal dramma collettivo del momento, ma in generale ho sempre pensato, quella volta e in molte altre, che chi non ride mai è piuttosto inquietante.
E di gente che vorrebbe eliminare una delle poche facoltà che ci distinguono dal grosso degli altri animali (ma pare che ridano pure loro), ahimè, ce n'è fin troppa, non solo tra i bastardi del terrore mondiale.

Illuminante è, in questo senso, un articolo dello scrittore Jonathan Coe comparso sul Guardian, che il settimanale Internazionale ha tradotto nel numero di questa settimana, cambiandogli il titolo in La morte dell'umorismo, ben più diretto per il pubblico non britannico dell'originale Is Martin Amis right?.
Nel pezzo, Coe commentava la recente uscita del suo collega Amis, il quale giudica Jeremy Corbyn, il nuovo leader labourista, "un ignorante privo di senso dell'umorismo", una colpa, per lo scrittore, gravissima, quasi più del fatto che si esprima per frasi fatte.

Coe sospende il giudizio su Corbyn (e io, che non so nulla né di Corbyn né di Amis, mi unisco a lui), ma utilizza la storia per parlare della sempre più diffusa abitudine mutuata dai social network di avere sui fatti del mondo due sole opinioni, una positiva una no, su modello dei mi piace/non mi piace di Facebook.

Per suffragare la sua tesi, parla di Charlie Hebdo e delle vignette "anti" Islam all'origine della strage d'inizio gennaio (e del mancato premio americano per la libertà d'espressione per via delle medesime) e poi di un'altra, su Aylan, il povero bambino ritrovato senza vita sulla spiaggia turca, di certo di difficile digestione, forse ancora di più di quella che vedete sopra. 

Sinceramente: in molte di queste vignette io non mi riconosco, ma voglio poterle vedere e semmai giudicarle apertamente oppure, semplicemente, ignorarle. Non accetto, né mai lo farò, però, la censura da parte di chi saprebbe (forse) ridere solo davanti all'idiota che fa che le boccacce su Youtube (che, comunque, per me, ha diritto di starci. Basta non me l'impongano un giorno o l'altro pure sulla pubblicità come hanno fatto con il facciotto di Pif).

Temo tuttavia che Coe abbia ragione. Temo che, davvero, ci sia sempre meno gente in grado di riconoscere i meccanismi dell'umorismo, ossia, riassumendo quanto scrive lo scrittore inglese, quell'evidente contrasto tra due diversi piani di realtà per cui, per esempio, smetti di piangere e cominci invece a ridere perché qualcuno ti ha fatto notare che ti sta calando il muco sul collo, oppure, come con Crozza quando fa De Luca, perché l'imitazione diventa talmente iper-reale che non puoi non ridere anche se ci sarebbe da piangere.

E dire che Crozza non è neanche uno dei più raffinati o, per meglio dire, ha un umorismo abbastanza diretto e popolare. E' proprio il De Luca reale, invece, a dimostrare quel che Coe vorrebbe facesse Corbyn,  ossia l'essere dotato di notevole presenza di spirito: dalla Gruber, quando se n'è uscito con una battutaccia sulla Bindi, che ha scatenato l'ufficiale sdegno governativo, poco prima aveva detto che ogni tanto si trattiene per non essere troppo crozziano. Ci ride su, in definitiva, come Coe spera per il leader labourista che, certo, ha problemi ben più importanti da risolvere che quelli di rispondere agli attacchi di Martin Amis.

Tornando a noi: come fare per non perdere il gusto di ridere? Come resistere al clima di conformismo e di censura/demonizzazione in salsa social? 
Coe cita un libro: The philosophy of humor di un tale Paul Mc Donald. Chi volesse tentare, lo legga e poi lo diffonda.
Mi pare che c'era qualcosa di analogo pure di Pirandello: ma io, mo' ve lo dico, Pirandello non riesco più a leggerlo.

Che altro fare? Innanzitutto, secondo me, usare quella cosa che sta sulla sommità del corpo, appena sotto la pelle della testa (per i pelati) e dei capelli (pochini ma biondini, per quanto mi riguarda).
E poi, lavoro duro, amici miei, cioè training quotidiano, né più né meno che se stessimo esercitando i bicipiti femorali (ahiai...) e il lato B, troppo, davvero troppo, preso di mira da varie, diciamo così, fonti indesiderate (Crozza e il suo InCool8 lo spiega piuttosto bene).

La nuova resistenza passa da cosette così, insomma.
Amanti della risata, unitevi.

sabato 4 luglio 2015

#concorsonerai, presagi di una guerra (ahimè) necessaria


Qualche piccolo segnale premonitore di come dovesse andare a finire l'anteprima di questa storia, lo ammetto, mi era arrivato.
Del nostro amico senegalese Ibrahim detto Rai vi ho già parlato un po' di post fa.
Bene: il suddetto mi ha telefonato il giorno prima della mia gita a Bastia Umbra, nella calura crescente che non ci ha ancora mollati, verso la fiera di Perugia, dove si è celebrato un rito collettivo di biblico sapore.

Sono arrivata al padiglione 7 alle 10 e un quarto. Fresca, relativamente, e determinata a non parlare con nessuno.
Mi sono nascosta dietro agli occhiali da sole di mia mamma (uno dei due modelli che uso abitualmente) e, per i miei parametri, calma, ma anche vagamente incazzata, ho aspettato che facessero entrare anche noi del "varco 10".

Percepivo intorno a me una certa tensione, ma anche una vaga rassegnazione, soprattutto in quelli più vecchi. Come me. O forse ero solo io che proiettavo sugli altri il mio stato d'animo.
"Nella foto ero più giovane", ho detto alla bella moretta che mi ha preso tesserino e carta d'identità squadrandomi bene in viso per essere certa che fossi la stessa persona ritratta nella foto. "Me lo dicono tutti", mi ha risposto dolcemente, facendomi sentire ancora più vecchia e inadeguata.

Ho preso posto in fondo all'hangar di Casablanca - mi domandavo dove avessero spostato gli aeroplani con le eliche (non è vero: me lo sono appena inventato) e mi sono messa in attesa che ci dicessero qualcosa, provando, in verità, un certo imbarazzo intestinale. "Vado o non vado al bagno?", mi domandavo, sempre più incupita con me stessa per il corpo che in quest'ultimo periodo sta facendo un po' troppe bizze.

Alla fine ho resistito usando la mia solita strategia anti-stress: ho scambiato qualche parola con la ragazza alla mia destra, faccia concentrata, aspetto gradevole. "Però con la V fanno presto ad arrivare a noi", dice commentando l'estrazione della prima lettera del cognome dalla quale partiranno per la seconda (e terza) prova.
Chissà se anche lei aveva il presentimento di potercela fare. Chissà se ce l'ha effettivamente fatta. Ignoro come si chiami. Dopo la prova non ci siamo neanche salutate. Meglio così. Troppa confidenza crea solo mala creanza. I detti di una volta hanno il loro perché, date retta a zia Alessandra.

Uscita, mi sono allontanata il più rapidamente possibile dalla fiera, il Bipede tra i coniugi, compagni etc etc in impaziente attesa. Si schiattava di caldo e lui non sopportava nessuno (in particolare i candidati che avevano già finito la prova), dev'essere stato uno sforzo non indifferente farmi da body-guard in questa circostanza. Io, in tutta risposta, mi sono mangiata senza battere ciglio la metà del suo panino direttamente in macchina, manco il tempo di raggiungere un luogo più ameno.

Ma torniamo per un attimo a Rai: mio nipote piccolo, almeno fino all'anno scorso, tutte le volte che lo vedeva gli domandava: "Ma sei Raiuno, Raidue o Raitre?".
Me ne sono ricordata quand'eravamo già a casa, risvegliandomi dal riposino della nonna.

No, non può essere, mi sono detta, riscuotendomi.
E invece è.

Per cui adesso, alla vigilia delle 44 primavere, mi aspetta un'estate di matto studio, con l'assoluta consapevolezza che sarà una vera guerra.

Qualche giorno prima della prova, mi sono iscritta al forum dei candidati su Facebook. L'ho fatto pensando che potessi ricavarne qualche indicazione utile sia su cosa studiare sia sui problemi logistici eventualmente riscontrati da chi era già lì.

Di informazioni ne ho ricavate parecchie, devo ammetterlo, ma su aspetti che non mi sarei mai immaginata.
Per esempio, su quanti siano i professionisti più o meno a spasso, ma questo era, in fondo, scontato.

Tra i molti rosicamenti di chi non ce l'ha fatta, ho notato anche quella tendenza tipicamente italiana al complottismo.
Sinceramente: perché sprecare le proprie energie a interrogarsi su come siano stati redatti i quizzzzz, sui cognomi illustri di quelli che sono passati e sul fatto che tra quelli che ce l'hanno fatta diversi non hanno mai fatto tv?

Una persona ha giustamente fatto notare quel che è: i 400 selezionati si prenderanno a coltellate solo per essere nel gruppo dei 100 che andranno a formare una graduatoria dalla quale si potrà (forse) pescare entro i prossimi tre anni per contratti a tempo determinato.

Detto in altri termini: io potrei (sempre che lo passi) ritrovarmi ad avere il mio primo contrattino in Rai a - minimo - 47 anni.
E nel frattempo che faccio? Forse la colf, che manco mi riesce, la stiratrice (mmmh), la daddy-sitter (quello lo faccio abbastanza bene, pare).

E infatti tra gli amici che hanno declinato il gentile invito al party umbro, ce n'è più d'uno che ha ridato un'occhiata alle proprie priorità, dicendosi: ma figuriamoci, non c'è neanche da bere.

Scherzosamente, una delle mie ex compagne di casa dei tempi (poetici, per forza di cose, visto che sono lontanissimi) della scuola di giornalismo, mi ha detto che vuole "il primo stipendio" come pizzino. Mi ha fatto davvero ridere. Speriamo (nel caso) di arrivarci per lo meno prima della menopausa.

A beneficio di chi non conosce tutta la mia storia, comunque, io in Rai ci sono stata, ed è anche per questo che mi fa una certa impressione pensare di rientrarci fosse anche solo per espletare fino in fondo il mio ruolo di candidata.

I miei primi stage sono stati a RadioRai. Poi ne ho fatto uno nel programma di Enzo Biagi, al quale è seguito un contrattino.
In seguito ho preso altre strade, ma in questi giorni mi sono ricordata di come ero e di come non sono più.

Il mio cognato tedesco ha fatto un'osservazione giusta: forse, ha detto, neanche la Rai è più quella di quindici anni fa. E già. Bisognerà adesso capire in che modo siamo cambiati lei e io e se possiamo eventualmente andare d'accordo.

Finisco con un altro segno premonitore, stavolta auto-indotto.
Lungo la strada per Bastia, non so come, mi è venuto in mente Francesco Guccini.
Mi sono ricordata in particolare della canzone che si chiama Autogrill (ecco perché: ne abbiamo agognato uno per parecchi chilometri per necessità fisiologiche. Bisognerà che avvisi gli addetti ai candidati di mettermi a disposizione un pitale, mentre svolgo le mie prove. Sennò pannolone e stop).

Mio marito detesta tutta la musica italiana, per cui, snobbandomi, ha subito commentato: "Che palle".
Io gli ho ribattuto che uno dei brani inediti di Tracker del nostro amato Mark Knopfler (per la precisione My heart has never changed) parla più o meno di quel che dice il Guccio nel suo. Certo, musicalmente siamo piuttosto agli antipodi, ma io, sotto sotto, al Francescone nazionale sono affezionata per ragioni sentimentali.

Bene.
Una delle domande del quizzone era: Chi ha composto l'album live "Tra la via Emilia e il West". Guccini, ovvio.
Un sacco di candidati l'ha cannata. Io no.

Non vi dico (ma sì: ve lo dico) che errori del C. ho fatto io.
Le Déjeuner sur l'herbe? Ovviamente è di... no, mi vergogno troppo se vi rivelo quale risposta ho segnato. Mamma mia. Mamma Rai mia.

Però, a parte qualche svarione davvero imbarazzante, mi sono riconsolata: farmi studiare, alla fine, a qualcosa è servito.

Adesso sono, come dicono gli spiritosi, volatili per diabetici.
Spero solo che mi passi questa dannata febbriciattola psicomatica.
L'avevo detto io che sarebbe stato meglio se non mi convocavano.

Il buon Rob Brezny, quello degli oroscopi di Internazionale, sostiene che devo, una volta buona, agire non da cancerina. E' una parola. Alla preselezione - ebbene sì - ce l'ho fatta, ma mo'?

Mo' vediamo.
Intanto mi godo, per così dire, ancora per qualche ora il meritato riposo (indotto dalla febbre, ahimè).

E poi
à la guerre comme à la guerre.

Chi l'avrà detto?
Meglio che controlli, va.
Per il prossimo quizzone, stavolta da Gerry.

lunedì 7 ottobre 2013

Ferrara, Internazionale e un elenco infinito di grazie


A essere prevedibile era prevedibile. Ferrara e il Festival di Internazionale mi fanno sempre questo effetto rinvigorente e credo a questo punto di comprenderne ancora meglio le ragioni.
La città è magnifica: la pioggia e il freddo di quest'anno, anzi, le hanno conferito un aspetto quasi parigino. Al mattino, in hotel, sono stata svegliata dal ticchettio delle gocce attutite dalle pareti e immagino i doppi infissi della porta-finestra. Mi sentivo a casa ed è stato davvero un dono del cielo che fossi da sola, per la prima volta nella mia vita, in una stanza oltretutto così confortevole. Sono risalita con la tazza di thè verde presa alla fine di una gustosissima colazione (il pasto della giornata che considero più importante) e mi sono goduta il paesaggio che si intravede nella foto che condivido qui sopra. Una leggerezza malinconica si è impossessata del mio corpo infreddolito, della mia testa piena di immagini e nozioni, di sorrisi e di incontri propiziatori (che dire dell'africano che mi ha augurato il meglio per la vita nel treno di andata? Chissà come si chiama). E ho finito per fare un pochino tardi all'ultima mattinata del workshop con Christian Caujolle, un uomo piccolino con una faccina sorniona e una cultura notevole, che mi ha conquistato un poco alla volta, ostacolata com'ero dal suo inglese alle mie orecchie non sempre intellegibile. Ero talmente concentrata a cogliere il suo labiale che ho realizzato meglio che cosa mi stesse capitando e in quale luogo interessante mi trovassi (la facoltà di architettura, nel cuore del ghetto ebraico, se le mie informazioni sono corrette) solo un po' dopo.
Più immediata e diretta, invece, è stata la reazione che mi hanno suscitato le foto di Gabriele Basilico sulle città e soprattutto le parole di questo immenso fotografo italiano scomparso prematuramente (aveva solo 69 anni, accidenti) lo scorso febbraio. A commentarle, c'era di nuovo Caujolle, stavolta liberato dall'onere dell'inglese: la traduzione consecutiva in italiano era stata affidata a una donna con una bella voce, il che, per me, ha fatto decisamente la differenza.
Le foto (e le musiche che le accompagnavano) di Basilico mi sono arrivate direttamente nello stomaco. Se dovessi spiegarvene le ragioni a parole, però, non ci riuscirei. Bisognava essere lì a farsele scorrere addosso, mentre l'umidità mi mangiava le ossa una dopo l'altra.
Ringrazio i miei amici Ketty e Matteo per l'accoglienza, il giro notturno per Rovigo, i ristoranti e i bar in cui mi hanno portata (che eleganza questi rovigini). Ringrazio anche gli organizzatori della piccola mostra cittadina sul cinema e il fiume, e poi il peso del borsone sulle spalle, l'ombrellino provvidenziale comprato in vista del viaggio, gli stivaletti acquistati in un periodo molto difficile, il giacchino giovanilistico, i complimenti gratuiti, il jazz nel dehor di un magnifico bar, lo sguardo dolce di Tiziana e la sua grinta segreta. Ringrazio Anna per la sua estrema e rassicurante simpatia, Giulia la zingara e il fidanzato dagli occhi dolci per il loro accento così evocativo, Luca per la sua fisicità gioviale (e per gli aneddoti sulla figlia quattrenne), Gabriella per il pomeriggio africano e per quel mix di sicilianità e milanesità che mi fanno morire. Ringrazio il tabaccaio per la pipa con tanto di sigillo di garanzia che ho portato a mio marito. Chi mi manca? Vito e i suoi occhi chiarissimi da conquistador, la giovane foto-editor Silvia, classe tutta veneta, l'edicolante della stazione di Ferrara che pareva saperne qualcosa della vita. E infine ringrazio proprio quest'ultima, per avermi dimostrato ancora una volta che stare al mondo è una grande cosa.