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venerdì 11 dicembre 2015

Stoner, post bis sul concetto di eroismo

Sono costretta a dedicare un secondo post a Stoner, il romanzo di John Williams che ho finito di leggere ieri pomeriggio.
Sono un tipo impulsivo (non so se si era capito) e in più sono - ancora per poco - una giornalista: le due cose messe insieme - ahimè - producono pressappochismo.

Sì: è vero che John Mc Gahern attribuisce al protagonista del bellissimo libro la patente di eroe. Prima di lui, però, l'aveva fatto colui che l'aveva inventato.
Per rendere onore e giustizia a questo scrittore così enorme, vi traduco qui il brano dell'intervista uscita pochi anni prima della sua scomparsa (avvenuta nel 1994), nella quale Williams spiega meglio di come potrebbe fare chiunque altro chi sia per lui Stoner.

Vado. E scusatemi per la traduzione imperfetta (meglio, spero, di quella di Google).

Io penso che sia un eroe vero. Molte persone che hanno letto il romanzo credono che Stoner abbia avuto una vita così triste e brutta. Io penso invece che ne abbia avuta una davvero ottima. Di sicuro, molto migliore di quanto capiti alla maggior parte della gente. Ha potuto fare quel che voleva fare, ha provato anche qualche sentimento verso quello che faceva, ha esperito in qualche maniera il senso dell'importanza del lavoro che svolgeva. E' stato un testimone dei valori che contano... Il punto centrale nel romanzo per me è proprio il senso di Stoner per il lavoro. Insegnare per lui è un lavoro - un lavoro inteso nel senso più buono e onorevole della parola. Il suo lavoro gli ha dato un particolare tipo di identità e lo ha reso ciò che è stato... E' l'amore inteso in questo modo che è essenziale. E se si ama qualcosa, lo si capirà. E se lo si capisce, s'imparerà molto. La mancanza di quell'amore si traduce in un cattivo insegnante... Nessuno può mai conoscere tutte le conseguenze di ciò che si fa. Io penso che tutto si riassuma in ciò che ho cercato di fare in "Stoner". Non si può che seguire la propria fede. Ciò che conta è permettere alla tradizione di andare avanti, perché la tradizione è civilizzazione".

Immagino - ma correggetemi se sbaglio - che la parola "tradition" significhi qualcosa come obbligatorietà dell'istruzione (education all'inglese, che è ben di più), come unico baluardo contro la barbarie e l'ignoranza (all'italiana maniera).
Insomma: Stoner, con il suo lavoro, ha permesso ad altre persone di dotarsi di qualche strumento per conoscere se stessi e il mondo senza paraocchi.

Credo che chi fa bene il suo lavoro, fosse pure il calzolaio, compia un'analoga operazione.
Perciò la vita del protagonista di questo malinconico, a tratti straziante libro, è stata bella ed eroica.
E anche se quasi nessuno dei colleghi e pochi dei suoi studenti sembrano sapere chi fosse davvero, è ben curioso il destino che, al di là delle pagine, questo personaggio letterario ha avuto realmente.

John Williams, probabilmente, ci sta ridendo su.

Rileggendo l'introduzione di John MCGahern, ho poi fatto una seconda scoperta: gli altri romanzi di Williams sono completamente diversi da Stoner.
Aspetterò giusto un attimo, ma credo che me li procurerò.

A voi buon lavoro.

giovedì 10 dicembre 2015

Stoner, il senso di una vita


Sto per compiere uno sforzo quasi sovrumano: offrirvi una recensione a caldo di Stoner, il romanzo di John Williams scritto nel 1965, diventato un caso letterario solo un paio di anni fa.
Personalmente, ne sono venuta a conoscenza solo il mese scorso, quindi ben dopo il periodo in cui, persino sui giornali italiani, notoriamente in ritardo sull'attualità che conta davvero, ne era giunta l'eco.

Ho appena riletto l'intervista a Ian Mc Ewan a La Repubblica, in cui lo scrittore inglese spiega come mai ne sia rimasto completamente conquistato. Leggetela pure voi, se vi pare.

Qui invece vi dico perché, se ne avete il coraggio, dovreste farvene conquistare anche voi.

In 288 pagine - quante sono nella versione inglese che orgogliosamente sono riuscita a finire quasi senza aprire il vocabolario - scorre una vita minima solo all'apparenza.
William Stoner è un professore di letteratura all'università del Missouri, proveniente da una famiglia contadina. Alla materia che poi insegnerà si appassiona durante gli studi di agraria da un giorno all'altro, quasi senza rendersene conto.

Ed è proprio nella parola passione la chiave di tutta la sua storia. E nel suo opposto: l'indifferenza, forse si potrebbe usare meglio la parola inglese "ignorance", di cui Williams e il suo Stoner parlano verso la fine in modo preciso.

In tempi di condivisioni all'eccesso delle proprie superficiali emozioni, leggere di uno che a un certo punto della vita si accorge di non essere affatto diverso dai genitori e dai genitori dei genitori e via andando ancora più indietro nelle generazioni, nella capacità, attitudine del sangue direi meglio, di mostrarsi al mondo con una specie di maschera neutra, mi ha fatto pressoché sobbalzare.

Conosco persone che fanno la stessa cosa, educate a un riserbo di sapore contadino che ha tutta la mia ammirazione. Un pochino così è anche mio padre. E forse pure il solito Maestro astigiano, che pure di estrazione contadina non è.

Stoner, alla fine, è un eroe, e sono assolutamente d'accordo con lo scrittore che ne ha curato l'introduzione nella versione che ho io del romanzo (John McGahern) sul fatto che se tristezza c'è un questa storia, è la tristezza di ogni vita. Di quella di ciascuno di noi.

Per apprezzarlo, però, dovete essere disposti a guardarvi dentro e a riconoscere il senso di "failure" (c'è scritto proprio così) che ci afferra più o meno tutti nei rapidi bilanci che facciamo tra un anno e l'altro.

Il protagonista si interroga se non si possa giudicare così la sua vita verso la fine (non vi dico in quale circostanza, potreste desistere dall'aprire il libro), ma ancora più sorprendente e, direi quasi rasserenante nella sua segreta ironia, è la conclusione alla quale arriva.

Nella vita è riuscito a ottenere proprio tutto. Esattamente tutto quello che ha desiderato: insegnamento, matrimonio, casa, figlia, amante, letteratura, scrittura. Pure sul suo nemico collega di università riesce a ottenere una specie di vittoria morale.

In Stoner domina dunque una certezza: niente ha senso se non la vita in sé. Basta solo esserne consapevoli, semmai sta tutto lì il problema. Il protagonista di questa commovente storia è uno di quei fortunati che l'hanno capito per tempo.
Chissà che cosa ne pensava veramente il suo autore, che è stato un professore di letteratura come il suo personaggio, ma ha precisato non esservi alcun elemento autobiografico in quel che ha lasciato in eredità a noi posteri.

Sinceramente, io ci credo poco. Certo, uno scrittore degno di questo nome è sempre in grado di mescolare la realtà con la finzione facendo affidamento sulla propria abilità con le parole.
Ritengo tuttavia che si riesca a essere credibili solo quando si racconta qualcosa che si conosce molto bene. Intimamente bene.

Intimità. Ecco: Stoner è una di quelle storie da assaporare in solitudine, facendosi anzi vanto di essere capaci di starsene lì minuti, ore, a dialogare in silenzio con frasi e periodi così ben allineati.

Non ho idea di come siano gli altri romanzi di Williams.
Sono in ogni caso davvero grata al gruppo di lettura creato da Romina Coccia nel piccolo negozio Mingus di Porto San Giorgio per aver scelto questo suo romanzo come libro del mese.
Non so se agli altri abbia fatto lo stesso effetto che ha fatto a me.

Ne parleremo martedì prossimo, giorno previsto per l'incontro-resoconto.
Spero di poterci essere.