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martedì 1 maggio 2018
Canto della pianura, silenzio e commozione onesta in forma di libro
Tornare in me dopo la botta di narcisismo dell'altro giorno non è proprio semplicissimo. Per fortuna, la mia natura cancerina mi aiuta a passare dall'euforia alla depressione alla velocità di un agguato felino, per cui eccomi qui ripiombata nel silenzio.
E' proprio questa la prima parola che associo al bel libro di Kent Haruf, il compito mensile assegnato a noi membri del gruppo lettura di cui ho parlato qualche post fa.
Non mi stava prendendo, almeno finché ne avevo relegato la lettura alle ore serali.
Mi disturbava lo spezzettamento in capitoli corrispondenti ciascuno a ogni personaggio, ripetuti con lo stesso schema per tutta la durata del romanzo.
Non riesco a ricordarmi quale altro libro ho letto non molto tempo fa (credo fosse comunque un altro scelto con gli amici del gruppo) in cui mi veniva voglia di saltare il capitolo, o i capitoli seguenti, per continuare a seguire le vicende di quel determinato personaggio di cui mi stavo interessando in quel momento.
Negli ultimi giorni, però, ho potuto dedicarmi con più distensione alla lettura di Haruf (accidenti, ora che ci penso il mio prof di storia e filosofia del liceo si chiamava Aruffo... uguale, praticamente).
E ho capito che la struttura circolare, in questo caso, ci sta bene.
Leggere a correnti alternate la storia di Victoria Rubideaux, di Guthrie e dei figli Ike e Bobby, dei fratelli MacPheron, di Maggie Jones e degli altri personaggi minori, intendo dire, me li ha resi più cari, poco alla volta, uno dopo l'altro.
Mi piace moltissimo il fatto che non succeda praticamente nulla.
Certo, ci sono vari momenti di tensione (su tutti la rappresaglia del bullo della scuola contro i due ragazzini e l'autopsia del cavallo), ma su ogni situazione aleggia il vento della campagna americana e la malinconia, di più, la desolazione che credo si possa provare solo nelle anonime province di questo immenso Paese.
Mi viene in mente, in questo istante, la parodia di Giancarlo Ratti dedicata ai gialli svedesi (se non la conoscete, ve la suggerisco: è da lacrime, ve lo dice una che ha seguito vari telefilm ambientati tra i ghiacci del nord Europa), ma, a mio avviso, in questo caso, se ci si lascia avvolgere dall'andamento lento del libro, si può arrivare a commuoversi.
Non parlo delle lacrimucce che ogni tanto pure mi scendono per i filmetti di La5.
Mi riferisco proprio a quella mistura di tristezza e rassicurazione che si prova quando si sta con le persone amate, magari in famiglia, i nonni ancora in vita, i bambini che continuano ad alzarsi dalla tavola al ristorante, i discorsi un po' noiosi dei grandi, e il cielo metallico.
La pioggia non arriva, ma la senti nel vento che fa rabbrividire la mamma. La vedi mentre si infila il golf e vorrebbe fare altrettanto con te che invece sgattaioli via con i cugini e torni nel cortile.
Da piccoli non si smette mai di correre: non lo fanno neanche Ike e Bobby, i due ragazzini del libro, che tutte le mattine, prima di andare a scuola, vanno a consegnare i giornali, non prima di aver consumato quelle loro colazioni americane con pancetta e uova, carichi di un'energia che non sarà mai più così per il resto della vita.
Mi sono piaciuti moltissimo soprattutto loro, ma ho amato anche Victoria e il suo pancione che cresce pagina dopo pagina e i capelli corvini e quella borsa rossa che alla fine le verrà strappata.
Come non amare anche gli anziani Harold e Raymond Mc Pheron, che di Victoria finiranno per diventare ben più che genitori. Davvero: laconici, veri, e buoni.
La bontà è il tratto distintivo praticamente di tutti i personaggi principali.
O forse sarebbe più esatto dire l'onestà, una caratteristica che ho avuto il privilegio di riscontrare in buona parte dei miei consanguinei più stretti.
Onesto doveva essere, per forza di cose, pure Haruf, almeno nella capacità di mettere nero su bianco una storia così.
Non so quando leggerò gli altri due libri della trilogia (a proposito: grazie ad Alice del gruppo lettura per avermi segnalato questa bellissima lettera dell'editore italiano NN in cui si spiega perché si è deciso di partire da Benedizione, l'ultimo in ordine di tempo della triade), anche perché, ripeto, per apprezzare appieno Canto della pianura, ho scelto di sprofondare nel mio piccolo divano, di accendere la luce poco sopra la mia testa, e di ritornare per qualche tempo la lettrice che sono stata da ragazza.
Però già solo per questo motivo, se siete in grado di fare altrettanto senza sentirvi in colpa per tutte le altre attività che state tralasciando, ve lo consiglio fortemente.
E buon primo maggio, a voi che lavorate e a tutti gli altri che, prima o poi, troveranno o ritroveranno la loro strada.
giovedì 10 dicembre 2015
Stoner, il senso di una vita
Sto per compiere uno sforzo quasi sovrumano: offrirvi una recensione a caldo di Stoner, il romanzo di John Williams scritto nel 1965, diventato un caso letterario solo un paio di anni fa.
Personalmente, ne sono venuta a conoscenza solo il mese scorso, quindi ben dopo il periodo in cui, persino sui giornali italiani, notoriamente in ritardo sull'attualità che conta davvero, ne era giunta l'eco.
Ho appena riletto l'intervista a Ian Mc Ewan a La Repubblica, in cui lo scrittore inglese spiega come mai ne sia rimasto completamente conquistato. Leggetela pure voi, se vi pare.
Qui invece vi dico perché, se ne avete il coraggio, dovreste farvene conquistare anche voi.
In 288 pagine - quante sono nella versione inglese che orgogliosamente sono riuscita a finire quasi senza aprire il vocabolario - scorre una vita minima solo all'apparenza.
William Stoner è un professore di letteratura all'università del Missouri, proveniente da una famiglia contadina. Alla materia che poi insegnerà si appassiona durante gli studi di agraria da un giorno all'altro, quasi senza rendersene conto.
Ed è proprio nella parola passione la chiave di tutta la sua storia. E nel suo opposto: l'indifferenza, forse si potrebbe usare meglio la parola inglese "ignorance", di cui Williams e il suo Stoner parlano verso la fine in modo preciso.
In tempi di condivisioni all'eccesso delle proprie superficiali emozioni, leggere di uno che a un certo punto della vita si accorge di non essere affatto diverso dai genitori e dai genitori dei genitori e via andando ancora più indietro nelle generazioni, nella capacità, attitudine del sangue direi meglio, di mostrarsi al mondo con una specie di maschera neutra, mi ha fatto pressoché sobbalzare.
Conosco persone che fanno la stessa cosa, educate a un riserbo di sapore contadino che ha tutta la mia ammirazione. Un pochino così è anche mio padre. E forse pure il solito Maestro astigiano, che pure di estrazione contadina non è.
Stoner, alla fine, è un eroe, e sono assolutamente d'accordo con lo scrittore che ne ha curato l'introduzione nella versione che ho io del romanzo (John McGahern) sul fatto che se tristezza c'è un questa storia, è la tristezza di ogni vita. Di quella di ciascuno di noi.
Per apprezzarlo, però, dovete essere disposti a guardarvi dentro e a riconoscere il senso di "failure" (c'è scritto proprio così) che ci afferra più o meno tutti nei rapidi bilanci che facciamo tra un anno e l'altro.
Il protagonista si interroga se non si possa giudicare così la sua vita verso la fine (non vi dico in quale circostanza, potreste desistere dall'aprire il libro), ma ancora più sorprendente e, direi quasi rasserenante nella sua segreta ironia, è la conclusione alla quale arriva.
Nella vita è riuscito a ottenere proprio tutto. Esattamente tutto quello che ha desiderato: insegnamento, matrimonio, casa, figlia, amante, letteratura, scrittura. Pure sul suo nemico collega di università riesce a ottenere una specie di vittoria morale.
In Stoner domina dunque una certezza: niente ha senso se non la vita in sé. Basta solo esserne consapevoli, semmai sta tutto lì il problema. Il protagonista di questa commovente storia è uno di quei fortunati che l'hanno capito per tempo.
Chissà che cosa ne pensava veramente il suo autore, che è stato un professore di letteratura come il suo personaggio, ma ha precisato non esservi alcun elemento autobiografico in quel che ha lasciato in eredità a noi posteri.
Sinceramente, io ci credo poco. Certo, uno scrittore degno di questo nome è sempre in grado di mescolare la realtà con la finzione facendo affidamento sulla propria abilità con le parole.
Ritengo tuttavia che si riesca a essere credibili solo quando si racconta qualcosa che si conosce molto bene. Intimamente bene.
Intimità. Ecco: Stoner è una di quelle storie da assaporare in solitudine, facendosi anzi vanto di essere capaci di starsene lì minuti, ore, a dialogare in silenzio con frasi e periodi così ben allineati.
Non ho idea di come siano gli altri romanzi di Williams.
Sono in ogni caso davvero grata al gruppo di lettura creato da Romina Coccia nel piccolo negozio Mingus di Porto San Giorgio per aver scelto questo suo romanzo come libro del mese.
Non so se agli altri abbia fatto lo stesso effetto che ha fatto a me.
Ne parleremo martedì prossimo, giorno previsto per l'incontro-resoconto.
Spero di poterci essere.
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