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lunedì 16 marzo 2015

Miracoli a Milano: resoconto per immagini del mio breve ritorno al Nord



Non ho molta voglia di aggiungere altre parole alle didascalie che vedrete scorrere nel videoclip, che ho finito di montare piuttosto velocemente poco fa.

Just one, to be completely honest with myself. Ho ottenuto il Toeic, ossia la certificazione internazionale di inglese per la quale ho cominciato a prepararmi due anni fa (con intensità MOLTO alta solo nell'ultimo periodo, eh).

Ho rivisto un po' di persone, ma non tutte quelle che avrei voluto (Luciana e Paolo, sono assai dispiaciuta di non essere riuscita a riabbracciarvi. Ciò significa solo che, come dico nel video, devo tornare presto).
Ascoltando i loro racconti, mi sono soffermata su ogni parola con reale desiderio di essere lì, evitando con molta naturalezza di soffermarmi troppo su ciò che NON ho avuto rispetto a quanto hanno avuto loro (figli compresi) negli ultimi dieci anni.

Mi sono goduta il più possibile il presente, insomma.

Si tratta, ve l'assicuro, di un risultato ancora più grande del voto che ho preso all'esame, considerato il soggetto nevrotico e ansioso che sta digitando.

Adesso è come se fosse il 2 gennaio e dovessi riprogrammare tutto l'anno che verrà.
Non è facile (anzi: per certi versi l'ansia degli ultimi tempi mi sta dando la misura di ciò che mi aspetta).

Non so nemmeno bene da dove cominciare (non credetemi: questo dannato cervello bacato sa sempre, alla fine, da dove partire), ma il cielo novembrino di oggi non mi inganna.
La primavera è praticamente arrivata e se anche la mia personale temo stia finendo già da mo', fa niente. 

Qualcosa accadrà.
Accade sempre.

Alla prossima, amici.

lunedì 29 ottobre 2012

Sentirsi come un albero d'autunno


Sono nata e cresciuta in una città di provincia. Ma questo è assodato. E digerito, direi.
Per scelta, nel lontano 2005 sono venuta a vivere in una omologa cittadina posta sulla cartina poco più a nord. La piazza che sta alle spalle di questo scatto è magnifica e conservo ancora il ricordo della prima volta in cui l'ho percorsa, ai tempi del secondo anno della scuola di giornalismo. Era inverno, anzi, autunno inoltrato, probabilmente era venerdì sera, e ci stavamo dirigendo verso quello che vari anni dopo ho scoperto chiamarsi auditorium San Martino. Quella sera Alessandro Bergonzoni dava uno spettacolo proprio per noi aspiranti pennivendoli dalla pelle ancora liscia (qualcuno un po' meno) e il curriculum ancora da riempire (almeno per quanto mi riguardava).
Quel paesaggio era così simile al mio, eppure così esotico. Un anno a Milano vale doppio: già dopo un giorno che ci trascorri, tutto il resto sembra evaporare e ti ritrovi all'improvviso in un presente eterno, senza memoria e senza futuro. Almeno, era questo l'effetto che mi faceva vivere in quella città, forse proprio perché sono cresciuta in posti in cui percepisci lo scorrere delle stagioni, nei colori delle colline, nelle rughe del cielo e nell'aria che si fa all'improvviso pungente. Ogni volta che torno a Chieti, per dire, ritrovo gli odori della mia infanzia e adolescenza e come Proust con la madeleine mi torna in mente chi sono. A Milano, invece, finisci per dimenticartelo e se può andar bene per i maniaci del lavoro o per chi ha ferite dell'anima da curare con il distacco, non può essere adatta a chi, viceversa, vuole, almeno ogni tanto, ritrovarsi. Specchiarsi e riconoscersi. Parlare a cuore aperto con qualcuno, osservare un tramonto, ascoltare il vento. Non che tutto questo non ci sia anche a Milano, è solo che passa in secondo piano, coperto dai rumori, dai volti, dai mezzi e dai continui stimoli, spesso davvero eccitanti, di una città dei balocchi arida e tentatrice.
Non che io non ami scoprire cose nuove, aggiornarmi sulle ultime tendenze (rammento ancora la lezione della mia amica Cristina sulle differenze tra kitsch e camp. Se volete ve le spiego), fare shopping, andare alle mostre e chiacchierare con le mie ex coinquiline, ma non è possibile passare la vita in questo modo: di fatto non lo fa nessuno, neanche chi ci vive contento.
Con il passare degli anni, poi, è logico aspettarsi anche altro, magari un po' meno smog, magari un po' più di calore nei rapporti, un po' più di spessore. L'ho constatato l'ultima volta che ci sono tornata: nessuna di quelle ex ragazze che passavano con me per la bella piazza di Fermo è rimasta identica a come era in quei giorni. C'è chi è diventata mamma, chi ha cambiato lavoro svariate volte, chi ha proprio smesso di fare la giornalista (una a caso?), chi ha scoperto l'India. Per fortuna, si cambia, insomma, anche in quella città così unica, nel bene e nel male.
A distanza di anni, insomma, finisci per dirti: ma perché me ne sono andata? Anche qui, alla fine, i rapporti sono ugualmente superficiali, la grettezza e la disorganizzazione dilagano, e pure il paesaggio, certi giorni, è piatto e squallido e l'aria puzza. Che cos'è che mi ha fatto dire, un giorno di tanti anni fa, mentre passeggiavo in bicicletta sul lungomare di Porto San Giorgio, sì, voglio trasferirmi qui?
Ufficialmente, mi hanno condotto qui il lavoro e l'amore. Poi, però, il primo è finito e con quello gli anni dorati della mia giovinezza. Di questo, ahimè, sono davvero convinta: smembrato il piccolo gruppo brancaleonesco con cui ho passato giornate indimenticabili, è finita anche la mia lunga, prolungatissima, adolescenza.
Il carattere, certo, resta quello, ma dentro qualcosa si è rotto. Qualche illusione di troppo, qualche idealismo da manifestazione scolastica, qualche legame che reputavo importante.
Era ora, probabilmente, ma vi assicuro che un po' fa male, perché ti guardi nello specchio (di tempo in questo periodo ne ho fin troppo per osservare la mia faccia un po' così) e ti chiedi, di nuovo: ma io chi sono e che ci faccio qui?
Così guardo la foto che ho scattato l'anno scorso, sotto Natale, in giornate intense, di quelle che piacciono tanto a una ex bambina come me, e penso di essere come un albero che sta perdendo le foglie (mi sono appena resa conto di aver copiato Giuseppe Ungaretti. Giuro che non l'ho fatto apposta). La primavera è lontana, ma tornerà: conviene risparmiare energie per allora, indurendo la corteccia quanto basta contro il gelo shakespeariano.

venerdì 3 agosto 2012

Bizzarrie metropolitane in una calda mattina d'estate





Trenta secondi dopo, il tizio che fa le flessioni sul sagrato del duomo di Milano è sparito dietro l'angolo tutto saltellante. Pareva proprio che dicesse hop hop. Mi trovavo a passare da lì per caso, era il 27 giugno, circa le 13.30, e si schiattava di caldo.
Ho trovato talmente bizzarra la situazione che non ho resistito e ho scattato.
Mi resta un dubbio, atroce. E' amore per lo sport quel che appare o pura alienazione metropolitana? 
Chi può saperlo. 
Aggiungo che io, tutto sommato, sono una tipa abbastanza allenata, sia per conformazione naturale (e che ci si può fare se c'ho le gambe da Rumenigge? Mi è stato detto davvero un'estate di una vita fa da un ragazzotto toscano, probabilmente ubriaco, che me l'ha gridato dal buio di un lettino da spiaggia, mentre passavo in cerca non certo di lui. In vino veritas, epperò) sia perché mi piace tenermi in forma.
Però mai e poi mai mi metterei a fare ginnastica sotto un sole da infarto e meno che mai in un luogo non troppo dissimile da piazza San Marco a Venezia quanto ad affollamento.
Se non fosse corso via come un razzo, sarebbe stato da chiederglielo.
Perché? Perché lo fai? E' la tua pausa pranzo? E quando mangerai? E soprattutto che cosa? Una bella pizza farcita e spugnosa, pregna d'olio bisunto, oppure un'insalatona dalla dubbia provenienza in qualche mensa aziendale?
O magari sei uno degli atleti attualmente impegnati nelle Olimpiadi. Ecco, sarà così, ma siccome pratichi una disciplina minore, di quelle difficili da commentare per via della loro misteriosità, cerchi di attirare su di te gli sguardi dei passanti. A giudicare dalla pancia di quello più a sinistra tra i due che ti osservano, non credo che ti stiano prendendo sul serio. E non per invidia. Pur essendo, all'apparenza, di origine orientale, per me stanno commentando alla chietina maniera: "Cussù è nu pazz".
Chi può saperlo.
In ogni caso, il giorno dopo sono stata ben felice di riprendere la via per il centro-sud.
Per il mare. 
Almeno qui, se fai le flessioni sott'acqua, nessuno se ne accorge. 

mercoledì 1 agosto 2012

Dedicato ai migranti italiani e a quelli che, a fatica, restano ancora qui



Chissà se Paolo è andato a lavorare in Svizzera, alla fine. E chissà se a Priscilla rinnoveranno lo stage in una prestigiosa agenzia del centro di Milano.
Salita sul treno per la grande metropoli del Nord, non avevo granché voglia di intrecciare conversazioni, meno che mai sul lavoro. Lì per lì, dunque, scoprire che il mio posto era giusto affianco ai due giovani viaggiatori partiti varie ore prima di me da Foggia, non è che mi facesse proprio piacere.
Con ostinazione, mi sono ficcata nelle orecchie gli auricolari e ho ascoltato, forse Paolo Conte (è piuttosto probabile), ma può essere anche Mark Knopfler (e d'altra parte non cambio la playlist da secoli... beh, non è proprio vero, visto che da pochissimo ci ho aggiunto le dieci puntate di "Alle otto della sera" dedicate, indovinate un po'? Ma ovviamente al Maestro!).
Fatto sta che dopo un po' non ne potevo più di assordarmi e poi, comunque, i due ragazzi non sembravano affatto antipatici. E infatti non mi sbagliavo.
Priscilla, 27 anni circa, è laureata in Sociologia e dopo vario peregrinare tra Roma e Milano, ha scelto la seconda nella speranza di avere qualche sbocco in più. Per fortuna, la città le piace, più della capitale sicuramente, anche se avrebbe preferito restare all'università a fare il dottorato. Ascoltandola parlare della sua interessantissima (anche se un pizzico inquietante) tesi di laurea su una catena di hotel specializzata in funerali con annessi e connessi che sta facendo grande business a Milano e dintorni, mi rendevo sempre più conto di avere vicino una persona fuori dal comune. In un certo senso, mi ricordava me gli ultimi anni dell'università, prima della "grossa crisi", con le stesse ambizioni fondate su impegno e (perché non dirlo) intelligenza, ma con qualche disillusione in più sulle speranze di vederle realizzate.
Paolo, invece, era leggermente più grande di lei e di sicuro ancora meno fiducioso. Studente lavoratore, come la sua giovane conterranea era un po' pentito di aver scelto una facoltà debole, di tipo umanistico (come li capisco!), ma fino a poco tempo prima era riuscito comunque a restare nella sua terra, convinto della necessità di lavorare a casa propria per non sottrarre ulteriori risorse a una zona storicamente già ferita da oceaniche emigrazioni. Finché un giorno, chissà perché (è ironico) è cominciato il mobbing che alla fine l'ha spinto a rassegnare le dimissioni. Da un contratto un tantino anomalo. E sì, perché Paolo si è a un certo punto accorto che, oltre a essere pagato in ritardo, non c'era traccia di contributi versati e altri piccoli optional che tanto fanno la felicità dei lavoratori dipendenti (gli autonomi, invece, ci hanno rinunciato ormai da un pezzo). Avendone chiesto spiegazione, il giovane foggiano, piccole esperienze di cooperativa alle spalle e anni di praticantato nel negozio di famiglia, si è condannato all'uscio. E all'emigrazione verso il Nord, dove, per sua fortuna, vive una sorella. Da lei fa base ogni volta che lo chiamano per un colloquio. Fino a quel viaggio, però, non ne aveva cavato granché. Solo una sfilza di colloqui per mansioni commerciali, spesso a provvigione, nessuna assunzione probabile. Il giorno dopo il viaggio in treno in cui l'ho incontrato, ne avrebbe avuto un altro che non lo entusiasmava assai, però, come diceva a Priscilla, ossessionandola forse un po', a trent'anni non sei più un ragazzo e devi trovare uno sbocco. Uno qualsiasi. Per forza. Tanto, al limite, sarebbe potuto restare per qualche tempo dalla sorella e poi, un giorno, chissà. Poco prima di arrivare a Milano, gli squilla il cellulare. Capisco che ha bisogno di una penna per appuntarsi qualcosa. Gliela allungo, un po' trepidante anch'io, come pure Priscilla con la quale scambio un'ansiosa occhiata. Trecento fiorini svizzeri a settimana? Sinceramente non ricordo più la cifra ripetuta ad alta voce davanti alle facce sorprese delle sue dirimpettaie, la giovane e la vecchia (per scherzo, a un certo punto, Paolo mi ha chiesto se doveva darmi del lei. Ho finto di mandarlo a quel paese).
Chiude la conversazione e alza su di noi uno sguardo ridente, di puro stupore. L'hanno chiamato dalla Svizzera per fissargli un colloquio per il giorno successivo a quello milanese. Gli hanno già parlato di guadagno, di contratto, l'importante è che sia un frontaliero. Paolo, da quel che ho capito, lo è, quindi chissà se adesso è lì a rifarsi di tutte le frustrazioni accumulate in un Paese che, a essere bello è bello, ma è troppo crudele con troppi figli suoi.
Con questo mi riallaccio, esplicitamente, al piccolo, affettuoso dibattito avuto con mia madre su Facebook a proposito dell'idea non proprio positiva che ho della terra, amatissima, che mi ha visto nascere.
La crisi è anche in Spagna, anche in Germania, dappertutto. Anche all'estero licenziano e mettono alla porta molta gente. Però basta varcare il confine settentrionale della Penisola per rendersi conto delle differenze.
E basta parlare con chi sta vivendo situazioni di stallo analoghe a ragazzi come Paolo e Priscilla, ma anche a persone più grandi di loro come noi coniugi Sfaccendati e molti altri come noi: in Germania, ad esempio, si assume ancora senza fare questioni di età (dietro, naturalmente, un po' di formazione) e chi perde il lavoro ha qualche aiuto dallo Stato. Da noi il Welfare lo fanno i nonni, i genitori nel caso dei due foggiani trentenni. E questo non è giusto. No che non lo è. Priscilla per il suo stage prende 250 euro al mese: alla sua età, molti dei sessantenni e settantenni di oggi erano padri e madri da tempo. E a questo proposito, solo da noi si diventa genitori sempre più tardi: nel nord Europa nascono più figli semplicemente perché li si mettono al mondo prima, come imporrebbe l'orologio biologico. Poi, certo, ci sono ragioni individuali e sociali che tengono molte donne italiane lontane il più a lungo possibile dalla maternità: Priscilla, per esempio, magari adesso non avrebbe voglia di fare la mamma, presa com'è dal suo legittimo desiderio di affermazione professionale, ma quando ho accennato alle difficoltà delle mie amiche quarantenni con figli piccoli, spaventate dall'eccesso di smog che assedia grandi e piccini, e del loro desiderio, proprio per questa ragione, di fuggire dalle metropoli, ho colto un lampo di malinconia nei suoi grandi occhi chiari.
In Germania le piste ciclabili abbondano e l'aria è spesso assai più respirabile, nonostante il clima ostile.
Insomma, è una questione di scelte, purtroppo non solo personali.
Siamo condizionati, nel bene e nel male, dal luogo in cui nasciamo. Paolo ama la sua terra, e anche Priscilla, lo si intuiva da come le si illuminava la faccia parlando di casa sua. Però, da noi, chi emigra non può più tornare indietro, e non solo perché ha trovato (speriamo per loro e per tutti gli altri che stanno chiudendo la valigia in questo momento) una collocazione professionale migliore, ma anche perché non si riconoscerà più, almeno non del tutto, in quelli che sono rimasti in patria, che sia un piccolo paese del sud o lo Stivale tutto intero.
E sapete perché non vi si riconoscerà più? Perché, tornando indietro, ritroverà le medesime, stanche anomalie di un Paese che non vuole crescere, non quanto a Pil, bensì a benessere collettivo, in una parola a civiltà. Inevitabile sarà la rabbia (i primi tempi) e la malinconia (andando avanti negli anni) che li risospingerà verso la patria adottiva, nel Nord (Europa) oppure verso l'Africa, per quelli di loro che avranno compiuto la scelta più ardita convertendosi, magari, alla ristorazione italiana dopo una vita sui libri, o ancora verso la cosiddetta Cindia, per quelli dotati di spirito più pratico.
Temo, ahimè, che non ci sia scelta. Non molta, comunque.
E tuttavia, nonostante la mia età non più verde, io sono ancora allo stadio della rabbia, un sentimento che mi fa tutt'oggi dire che non siamo degni, come popolo, del nostro grande passato. Lo dimostra anche la vicenda di Milano e della riapertura della zona C alle auto per la vittoria di un'azienda privata di posteggio, raccontata dall'Amaca di Michele Serra qualche giorno fa e che ha scatenato il dibattito (ripeto, affettuoso) tra mia madre e me.
Ne sono convinta, cara mamma: persino Gesù, su questa vicenda meneghina e in generale sul futuro negato a schiere di giovani italiani, avrebbe qualcosa da ridire. Forse, chissà, andrebbe dai potenti anziani che ci hanno reso schiavi e che non vogliono proprio saperne di schiodare e li scaccerebbe via come i mercanti dal tempio. Sì, forse interverrebbe, non foss'altro perché anche lui è stato vittima della gerontocrazia. Solo che adesso lo crocifiggerebbero ancora prima, visto che sarebbe fuori tempo massimo per il contratto di formazione (oggi detto di apprendistato) di ben quattro anni.
Quest'ultima, naturalmente, è una piccola provocazione, ma a chi ha solo la voce, la tastiera e un po' di cultura non resta che usarle come può. Soltanto così continuerà a resistere e a sognare la riscossa, almeno morale, della nostra amata-odiata Italia. Anche se non sembra, insomma, io ci credo ancora.
E voi?