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domenica 7 luglio 2019

Mark Knopfler e i buchi del cuore



Ascoltavo "My heart full of holes" mentre stavo andando a intervistare un architetto di Fermo.
Ai tempi lavoravo per il settimanale diocesano con cui era cominciata la mia avventura in terra marchigiana. La crisi era già in atto e io ricordo perfettamente quanto mi sentissi, già allora, il cuore pieno di buchi.

Lo studio di quell'architetto aveva un ingresso improbabile, vagamente neoclassico. Ci sono ripassata varie volte davanti negli anni successivi e tutte le volte mi è tornata in mente quella prima volta. Mi sono sempre chiesta come diavolo fosse venuto in mente, al tipo, di adornarlo così. Mi capita spesso di fissarmi su dettagli che non saprei se definire insensati o salva-vita, nei momenti per così dire più drammatici.

Dopo la scossa di terremoto, ci siamo ritrovati tutti fuori, mamma papà e intero condominio. Ho scambiato uno sguardo con mia sorella: dovevamo essere conciate in maniera bislacca. Abbiamo ridacchiato, forse vergognandoci anche un po', visto il panico generale.

Ai tempi non credo che il mio cuore fosse pieno di buchi. Quelli li senti più avanti, non so bene a partire da quale età. 

Alla fine, un pochino te ne compiaci pure, appena appena eh, perché quando li senti ti illudi di averci capito qualcosa, della vita.

Mi piace però sapere di aver nutrito da sempre un certo senso di disincanto. Altrimenti non avrei riso con mia sorella anche a quell'età.

Per questo, forse, mi piace così tanto, a distanza di tanti anni, la musica di Mark Knopfler. 
Invecchiando (ma forse anche prima con i Dire Straits), i suoi testi hanno parlato spesso di figure variamente piegate dalla vita, dalla poetessa Beryl Bainbridge del penultimo album al tipo con il cuore pieno di buchi. La musica, però, è rimasta sempre piena di energia vitale, anche nelle ballate più intime, come in I am a slow learner dell'ultimo album.

Prima di tornare a vederlo, la scorsa settimana, qui a Vienna, sapevo dalla scaletta che l'avrebbe cantata. 
Allora l'ho riascoltata e mi è tornato in mente l'architetto.

Volevo predispormi alla nostalgia, forse. Causarmi "uno stato di esaltazione" romantico e decadente, come dice l'algida Ninotchka a Leone, quando lui la corteggia (con successo). E invece è saltata fuori l'ironia. Sì, è più forte di me.

In tutti i modi, la versione di "Heart full of holes" del concerto di quest'anno è bellissima. E per un attimo, mentre l'ascoltavo dal vivo, mi sono quasi commossa.

Con questa tournée, Knopfler ha deciso di dare l'addio ai live. 
L'ha ripetuto in ogni tappa: nel video di sopra è a Milano. "E' la vita", dice a un certo punto in italiano. 

Che tristezza, direte. Eppure no, non lo è. 
Bisogna saper voltare pagina. E poi ci sono i ricordi, quelli non te li toglie nessuno. 

A distanza di tempo, anche i momenti più oscuri lasciano tracce di colore. 
Non è stato bello il periodo finale di lavoro al giornale diocesano, proprio per niente. Però mi è rimasto il sapore di quel tardo autunno a Fermo, l'aria pulita, la poca luce, gli sguardi dei miei ex colleghi e le risate degli anni precedenti. 

Invecchiando, si mescolano le esperienze e le stagioni dell'anno con i loro profumi diversi. 
Vanno lì a riempire quei buchi, anche solo per qualche istante, mentre lavi i piatti o scrivi il prezzo del polpo surgelato.

Alla fine sei felice di avere qualche buco, vorresti solo trattenere quel ricordo un pochino di più, lasciartene intenerire fino alle lacrime. 
Poi però ti riscuoti e ti ributti nel presente. Ein bisschien anstrengend, manchmal, ma mica tanto.

Un attimo dopo mi soffermo a soppesare mentalmente l'insensatezza del gesto di qualcuno intorno a me. E ridacchio, aspettando il momento in cui ne parlerò al Bipede.

A proposito di ironia, a dirla tutta, il grande Mark è stato molto più brillante a Milano di quanto non lo sia stato a Vienna. 
Si vedeva proprio che gli piace l'italiano, il suono della nostra bellissima lingua.
A Vienna, invece, nichts, manco una parola auf Deutsch. E dire che l'hanno acclamato a gran voce (ma con quei suoni gutturali non funziona, spiacente per voi). 

Ovviamente il concerto è stato "super" (come dicono sempre qua) e io sono certa che anche questo sarà un ricordo destinato a riaffiorare all'improvviso, al prossimo giro di vita, chissà da dove.

Grazie, Mark, a nome dei buchi del cuore di tutti noi.







giovedì 15 giugno 2017

Fenomeno Gabbani e il segreto del successo


Sono incappata nel fenomeno Gabbani per questioni di lavoro.
Ora: non credo sinceramente che mi procurerò tutta la sua discografia, ma devo ammettere di esserne rimasta conquistata.
Mi piace su tutto la sua grande ironia non stronza, ossia di quelle che non virano verso il sarcasmo, bensì del genere sagace e divertente.

Nella full immersion che ho fatto nei giorni scorsi, tra l'altro, ho ascoltato anche pezzi poetici e riflessivi. Io però sto parlando soprattutto dei testi, mentre so benissimo che un buon ottanta per cento del successo di questo trentaquattrenne carrarese dipende soprattutto dalla grande energia che trasmette la sua musica.

Di base gli arrangiamenti sono radiofonici, concepiti per far ballare (o comunque ballonzolare) le persone mentre fanno la spesa (o stirano, come farò io forse tra poco), e questo, per una pallosa come me, è un limite.

Almeno in generale.
In questo caso, invece, intendo nella canzone che linko sopra, il connubio tra testo, musica e commercio è perfetto e a me non viene che inchinarmi per tanta professionalità.

Perché diciamocelo: ci sono tanti bravi musicisti e discreti interpreti, ma nel successo, quello che ti rende un nuovo Celentano o Battisti, voglio dire, contano, oltre alla fortuna personale, una cazzutissima preparazione (anche fisica), idee e staff qualificato che curi ogni minimo aspetto del personaggio che aspiri a diventare.

Qualche anno fa, se ho visto bene cercando i suoi pezzi sul web, Gabbani non era così in forma come è apparso ieri sera sul palco di Fermo. Avrà di certo pure un personal trainer.
Anche il look, quel ciuffo scolpito e quelle t-shirt semplici ma curate, la barbetta disegnata sopra quel magnetico sorriso sono studiatissimi.

Più invecchio e più capisco, insomma, che se vuoi sfondare non puoi lasciare niente al caso.
E la spontaneità, direte?
La spontaneità la usi anch'essa come marketing se lo sai fare, altrimenti cerchi di nasconderla con l'aiuto di un insegnante di public speaking o con la respirazione yoga, se sei uno che va in panico a contatto con la folla.

Molto probabilmente Gabbani ha doti naturali di comunicatività, però non è così per molti aspiranti artisti, pur bravi e talentuosi.

Oltre una certa età, detto ancora meglio, se non si è riusciti a governare la propria emotività o al contrario il proprio eccesso di ego, è piuttosto improbabile che il successo alla fine arrivi.

Per riuscire non basta il talento, insomma. Bisogna invece pure avere l'umiltà di farsi rivoltare come calzini da chi ha visto qualcosa in noi, purché, naturalmente, questo qualcuno sia un professionista con le contro-palle.

Diffidate dai dilettanti della comunicazione e delle arti in genere, voi che credete ancora di avere qualcosa da lasciare ai posteri.

Una scrittrice che ho intervistato tempo fa e che rivedrò stasera in una conferenza, mi ha parlato dell'importanza della sua agente letteraria nel farla salire di livello quanto a casa editrice con cui pubblicare.

Per arrivarci, la stessa si è fatta un mazzo così nella scrittura, innanzitutto, ma anche in tutto quello che comporta diventare un personaggio pubblico. I vestiti sono tutto, il modo di atteggiare il corpo anche, l'uso della voce, etc etc.

Con questo, ovviamente, non voglio dire che ci si debba imbalsamare, anche perché, se il risultato finale è troppo giustapposto, poi il pubblico se ne accorge e ti bastona.

Sto dicendo però che non bisogna aver paura di farsi un po' modellare, quando chi lo fa ha chiaro con te l'obiettivo di farti brillare, non di trasformarti in un clown.

Gabbani riluce, insomma, e persino una criticona come me l'ha capito.

Tutto sta a vedere come saprà gestire nel tempo la sua fama. In conferenza stampa si diceva tranquillo per la consapevolezza che, comunque, cambiando lui come accadrà nel corso del tempo, cambierà anche la sua musica. Da parte sua continuerà a scrivere canzoni. Meno male.

Oh my darling, che simpatica scoperta.

martedì 25 aprile 2017

Dal mare a Fermo. E ritorno


Sono un tantino stanca, quindi perdonatemi per il tono un po' dimesso.
Le ultime due giornate sono state piuttosto strane.

La mattina di domenica ho partecipato alla Camminata delle donne con un po' di amiche di palestra e, oltre a fare la figura dell'idiota con lo speaker della manifestazione, con quella storia della colazione sbagliata come causa probabile della mia nausea dopo appena dieci minuti che correvo, ho rischiato pure di mettermi a piangere mentre ascoltavo la testimonianza di una donna che ha scelto di rasarsi a zero piuttosto che mettersi parrucche o fazzoletti per nascondere gli effetti della chemio. Una tizia affianco a me mi ha abbracciato e mi ha sussurrato: "Anche io ci sto passando". Mi sarei voluta sotterrare. Ma da un altro lato, se posso esserle stata di aiuto come spalla, va bene così.

Mia madre non ha perso i capelli, le si erano giusto un pochino diradati. Ma anche questo non è il punto.

Volevo esserci a quella Camminata, che ho scoperto essere legata al reparto di oncologia dell'ospedale di Fermo la scorsa edizione, l'ultima (almeno credo) a Porto Sant'Elpidio, dopo lo spostamento a Lu Portu, la cittadina in cui vivo.

Forse ero in ansia anche per questo motivo e poi perché, in fondo in fondo, sono una persona competitiva. Ho in mente almeno due episodi della mia infanzia che testimoniano il mio desiderio, sempre negato verbalmente, di primeggiare. Ma ve li risparmio.

Spero che la piantina grassa che ho comprato allo stand dell'Anpof (associazione Noi per l'oncologia del Fermano) attecchisca e diventi grande. L'aloe sul balcone dei miei sta magnificamente.

Spero ancora di più che quell'atmosfera gioiosa dell'altra mattina produca effetti duraturi in chi lotta ogni giorno, non solo per via della malattia.

Riesco solo a lanciare preghiere monche e banalotte, ma non ho ricette né strategie generali per affrontare il dolore.

Nella serata di domenica ho saputo della morte di Teo Tini, un bibliotecario di Fermo che ho solo sfiorato negli anni passati, ma che era riuscito a lasciarmi una forte impressione.
Difficile incontrare tutte insieme umanità, intelligenza e ironia: quando capita, non te lo scordi più.

Molto sentiti i ricordi dei suoi amici stamattina durante il funerale: mi ha colpito anche il sacerdote, che ne ha parlato come si farebbe tra intimi, non da un pulpito.
Ho anche avuto la sensazione che nessuno avesse bisogno di nascondersi nel parlare di lui.
Teo evidentemente sapeva leggere negli altri e il risultato si è visto nell'autenticità ritrovata in un rito che troppe volte suona stucchevole.

Il funerale di mia madre non è stato così vero, anche se il parroco, che ne raccoglieva le confessioni e che la conosceva da molti anni, non credo fingesse. Semplicemente non la conosceva davvero perché mia madre era schiva, molto schiva, molto, troppo forse, trattenuta. Non amava fare esibizione di sé, in altri termini, ma spesso finiva per censurare il suo innato istinto da leader.

Mi resterà sempre il dubbio che sia andata davvero così: che si sia ammalata per non aver creduto a sufficienza nella sua naturale capacità di primeggiare. Ma non so, forse proietto e basta quel che leggo in me. Che leader non sono: ho un altro temperamento, nutrito di chiaroscuri come il suo, ma molto più superficiale.

Tornando al bibliotecario e all'immagine che mi hanno restituito i tanti volti afflitti che lo salutavano, penso che lui fosse di una pasta speciale, silenziosa e attenta, che in qualche modo resterà.

Pur nella tristezza della circostanza, sono stata contenta di essere lì e di rivedere vari volti noti dei miei anni trascorsi a Fermo.

Verso il comune sul colle nutro sentimenti ambivalenti: non riesco a non associarlo ai fatti più dolorosi (è inutile negarlo) della mia vita marchigiana, ma d'altra parte, proprio per la loro estrema importanza, ogni volta che ne ripercorro le vie del centro storico, me ne ridiscendo al mare diversa, con un peso specifico maggiore.

Dicevano che Teo si era innamorato del mare di queste zone la prima volta che le vide durante il militare. Qualcosa di simile è successa anche a me durante la scuola di giornalismo.
Mi domando ogni tanto se davvero non sia tutto scritto.

Poi vado avanti, com'è ovvio.
Avverto però, lo ammetto, un legame con i volti, i suoni e le pietre di quelle salite e discese. Sto cercando di metterlo a fuoco, forse per farci pace o per chissà quale altra ragione.

Staremo a vedere.
Per il momento, meglio guardare il mare il più possibile da vicino, sotto quei fuochi che la notte scorsa l'hanno illuminato a giorno, costringendo i miei gatti a nascondersi in fondo al letto.

Ne ho sentito uno con un piede, andando a dormire.
E ho sorriso.

venerdì 8 luglio 2016

#Emmanuel, #Fermo e la scimmia che è in me



Ho cominciato a lavorare per un sito di informazione locale a Fermo a primavera inoltrata, sottoscrivendo un contrattino che mi permette, diciamo così, di tamponare un po' il flusso in uscita dal mio conto corrente.
E' una piccola premessa necessaria giusto per dirvi che, in fondo, non sono una che ha grandi pretese.
Vorrei solo lavorare, pagarmi qualche spesa e sentirmi meno in colpa per aver buttato nel cesso le mie possibilità di carriera lasciando la grande città.
Fino a martedì scorso, tutto sommato, mi era sembrato possibile: mi era parso, voglio dire, che me ne potessi stare qui sulla costa adriatica, lontana dai grandi fatti della storia, a scrivere di sagre, di consigli comunali, di concerti e tante altre belle e piccole cose che accadono in provincia.
Ma poi è successo quello che ora sa tutto il mondo, a pochi metri, oltretutto da me e dai colleghi che ho incontrato in questa micro fetta di 2016.

L'autopsia, a breve, dirà penso con precisione, se Emmanuel è morto per via del pugno subito o per arresto cardiaco o chissà cos'altro.
Il punto, però, non è questo. La causa scatenante resta quell'insulto "scimmia africana" che il buon cuore dell'arrestato fermano (qualcuno lo dipinge come un povero diavolo, purtroppo anche tra qualcuno dei miei conoscenti) si è permesso di indirizzare alla sposa ventiquattrenne o forse anche al marito e all'amico che era con loro, chi lo sa.

Credo di aver  conosciuto veramente Fermo solo ora, dopo undici anni che ci abito e altri quindici che la bazzico.

Ho vissuto (qualcuno lo sa) l'esilio in terra marchigiana per circa otto anni dopo la mia esperienza, finita malissimo, al settimanale dell'arcidiocesi, ma, davvero, soltanto adesso sto capendo perché, a distanza di tutti questi anni, io continui a rimanere, per la maggior parte della gente che ho conosciuto (non per tutti, ovvio), un'estranea.

Completa estranea.
Anche ieri in Prefettura, tra colleghi locali e non, ho provato un forte, dolorosissimo, senso di solitudine.

Ho sentito giornalisti che, tra una telefonata a un avvocato e l'altra, parlavano di vacanze in Sardegna, altri che protestavano per non aver avuto abbastanza ribalta (Alfano effettivamente si è degnato di rivolgerci la parola con quasi due ore di ritardo). Ho fatto da dittafono vivente grazie al computer del collega per mancanza di mezzi tecnologici che qualunque giornalista che si dica tale dovrebbe avere (se volete, ve lo spiego meglio perché non li posseggo, se non fosse abbastanza chiaro), ho scritto su una scrivania di fortuna in mezzo agli scatoloni e ho lavorato cercando di non pensare allo squallore che ho visto intorno a me.
Per esempio, quello di giovani colleghi che si fanno i selfie esaltati dalla giornata speciale col ministro, dei mezzi sguardi di scherno lanciati tra una strisciata sullo smartphone e l'altra, e poi le chiacchiere da social-paese sul buon Mancini (e sugli italiani uccisi dai brutti negri) e quelle di chi manifesta, strumentalizza e, ancora una volta, cerca solo e sempre di mostrare se stesso.

Non sono fermana, non sono chietina, non sono milanese, non sono giornalista, non sono fotografa, non sono militante, non sono qualunquista, non sono.
Finora ho pensato questo sotto voce, in cuor mio anche con una certa autoironia da disadattata cronica.

Da martedì qualcosa ha cominciato a rompersi.
Sarà questo il capodanno che aveva previsto Branko per noi cancerini del cavolo questo maledetto martedì.

Adesso è ora di dire chi sono e cosa provo.

Sono antirazzista e antifascista. Sono una giornalista. Sono una che scrive e che fotografa. Sono un'amica dei più deboli, da qualunque posto provengano, purché siano onesti e sinceri (la badante albanese che ha trattato male mia madre mentre se ne andava, non posso perdonarla, non ci riesco). Conosco il dolore. Conosco il lutto e so che la violenza genera, sempre e comunque, la violenza.

Sappiatelo, cari conoscenti, anzi: non più cari conoscenti, se siete tra quelli che a mezza bocca dicono il contrario di quello che sto sostenendo in questo istante. Rispetto le opinioni, ma non potrete mai essere miei amici.

Quello che è successo a Fermo, nella cittadina dalla quale sono fuggita per non soffocare scegliendo la costa per potermene, almeno, ogni tanto, più agevolmente andare, è di una gravità enorme.

Ed è ancora più grave, e più triste, che solo in pochi qui se ne siano veramente accorti.

Una cosa del genere non si liquida con una fiaccolata (pure giustissima, naturalmente), né con un corteo antirazzista con i soliti slogan visti mille volte.
Da una barbarie di questa portata ci si può (forse) risollevare studiando, leggendo, viaggiando, incontrando e, soprattutto, guardandosi bene innanzitutto dentro e poi anche l'un l'altro, negli occhi. Senza pregiudizi. Anche verso chi viene da sotto la linea tracciata dal fiume Tronto. Ce la fate?

Dimenticavo. Non sono credente. Non sono.
Credo, però, ancora nell'uomo. E, di più, nella donna e spero che la giovane Chimiery diventi un giorno un medico, come sognava di fare prima che la tragedia le piombasse in casa, dilaniandola materialmente e moralmente. Spero, anzi, che sia proprio lei un domani a curare i Mancini di turno che, temo, continueranno a spuntare come funghi.

Finisco con due canzoni del mio amato Paolo Conte che alla scimmia e all'orango ha dato una dignità che la maggioranza dei cosiddetti esseri umani non avranno mai. Se le scimmie sono queste, allora lo sono anche io.













mercoledì 20 aprile 2016

Da Fermo... a Fermo Attivo!



Non lo faccio quasi mai, ma oggi mi rilancio (sempre per via del mio rapporto passato-presente con Fermo).

Chi può, vada sul Colle del Girfalco dal 23 al 25 aprile: ci troverete ben due manifestazioni artistiche e culturali. 
Io, invece, molto probabilmente, sarò nella terra natale.

Buoni giorni.

mercoledì 13 aprile 2016

San Marco alle Paludi, forza, voglio rivederti presto intatta



Conosco la piccola abbazia di San Marco alle Paludi, alle porte di Fermo, da quando sono arrivata in zona: anzi, da prima di trasferirmici stabilmente.
Ricordo benissimo l'anno e anche la data in cui ci sono entrata per la prima volta: 2001, 6 ottobre. In quel giorno, è cominciata ufficialmente la vita matrimoniale della mia amica Tullia, detta così da noi italiani. Perché il suo nome vero è cinese, anzi vietnamita. Giusto stamattina mio marito ha sentito Thu, che da quel lontano giorno di quindici anni fa è andata a vivere nel Teramano e ancora una volta, come nel precedente post, a ripensarci, mi corre addosso un mini-brivido.

Sarà che questa piccola donna, costretta alla sedia a rotelle da una malattia invalidante che l'ha colpita quand'era una bambina, è sempre stata una maga. E' a causa sua (sì, diamole tutta la colpa) se poco tempo dopo sono venuta a vivere a pochi chilometri dalla chiesa di don Vinicio Albanesi, rimasta vittima, poco prima della mezzanotte di ieri, di un attentato esplosivo.

Stamattina, poi, tutto avrei immaginato fuorché di incontrare giusto quest'ultimo, il "padre" di Thu e dei molti altri ospiti della Comunità di Capodarco, un altro luogo fondamentale del mio passato.
Immagino (l'ho scritto) che fosse andato lì per un primo sopralluogo sull'entità dei danni subiti, a una prima occhiata piuttosto ingenti.

Cioè a dire che le probabilità di incontrarlo, in fondo, erano abbastanza alte. Eppure, pensando anche alla seconda volta in cui sono entrata in questa chiesina, ossia per il funerale di Pia Colonna, una donna fragilissima nel corpo ma dalla tenacia di una regina, secondo me, di casuale non c'è proprio niente.

Ma finiamola di mescolare la realtà alla fantasia. O al destino di cui vi ho già parlato.

Voglio davvero augurarmi che i tre episodi vandalici che hanno colpito la Chiesa fermana nel giro di due mesi siano "solo" gesti dimostrativi e intimidatori, come sembra sostenere don Vinicio.
In caso contrario, le tranquille contrade di questa schiva provincia potrebbero mutare natura nel giro di poco tempo.

Lo dico perché, come sappiamo, la percezione comune del senso d'insicurezza si è notevolmente acutizzata, quindi ha ragione il sindaco di Fermo, Paolo Calcinaro: bisogna essere vigili. In che modo e con quali strumenti, naturalmente, non è mia materia.

Tornando al biografico, ci tengo davvero che San Marco alle Paludi torni in fretta a essere quell'oasi di bellezza e di misticismo che ne ha fatto un punto di riferimento non solo per la città, ma anche per i visitatori che per caso o per scelta la vengono a visitare.
La quarta volta che ci tornerò, insomma, voglio che sia per un'occasione lieta. E che diamine.

Forza San Marco. Il terrore e la barbarie non ti avrà.

 

lunedì 11 aprile 2016

Da Fermo a Fermo... ad maiora!

Foto scattata nel 2011 a Fermo, in via Mazzini, poco prima della statua di San Savino

La didascalia, stavolta, riassume più o meno tutto.
Stamattina sono tornata proprio nella via dove ho vissuto per sei anni. L'anno prima ero sempre a Fermo, ma in un'altra, fondamentale, casa.
Durante i sette anni passati sul Colle del Girfalco, come sapete, mi è successo un po' di tutto.
Credo di averlo già scritto, ma è bene ripeterlo: credo di essermi trasformata in una donna adulta proprio durante questi cruciali, a tratti dolorosissimi, sette anni.

Vado molto cauta con la novità che mi ha portato di nuovo alla base del punto più alto della cittadina marchigiana. Per ora mi limito a osservare che sembra davvero l'inizio di una fase nuova.
Detto in altri termini, forse davvero era necessario che lasciassi la collina per potermici riavvicinare con un altro spirito

Comunque andrà a finire, oggi, dopo tanto tempo, ho risentito il gusto di un mestiere che credo mi abbia scelto, non il contrario, manco fosse una vocazione mistica. 

Certe volte penso sul serio che sia tutto scritto e che conviene rilassarsi e lasciare che il giorno X si avvicini senza inutili resistenze. In altri casi, credo ancora di più che bisogna volere fortemente il cambiamento e concentrarsi per non farci cogliere impreparati.

Sono tutte sciocchezze, ma sì. 
Dirò di più tra qualche tempo. E il tempo lo farà con me.

Oggi è meglio godersi il pomeriggio assolato, il primo con un cielo blu che ti spingerebbe a strapparti i vestiti e buttarsi a mare (ma la brezza lo sconsiglia, diciamo dai quaranta in su).
Rubando il motto all'altro blog, posso concludere solo in questo modo: ad maiora!


venerdì 11 marzo 2016

Sibilla Aleramo e Dino Campana, un incontro a Porto San Giorgio carico di domande. Aperte



L'incontro al Teatro di Porto San Giorgio sulla storia d'amore tra Sibilla Aleramo e Dino Campana è partito con spezzoni del film Un viaggio chiamato amore con Laura Morante e Stefano Accorsi. A sceglierlo, gli organizzatori del terzo dei quattro appuntamenti chiamati  I giovedì dell'arte, un ciclo di lezioni voluto dai Licei artistici di Fermo e del paese ospitante.
Accorsi, ve lo confesso, non mi piace granché, per cui è probabile che abbia alzato il sopracciglio (destro o sinistro) senza accorgermene. I pregiudizi sono una brutta bestia, difficile da domare, ma quel poco di sale in zucca che mi è rimasto ha permesso al resto del mio corpo di restare incollata sulla sedia della platea del bel teatrino e di mettermi in ascolto.

Sinceramente: le lettere che la Aleramo scrisse durante l'anno d'amore con il poeta tosco-emiliano (lette dal vivo da Carla Chiaramoni) mi sono sembrate sciocchine, non troppo dissimili da quelle che potrebbe scrivere qualsiasi persona molto innamorata. Eppure, il loro legame, giunto in una fase della vita di questa donna affascinante e contraddittoria, morta nel 1960 a 84 anni, è assai letterario. Inevitabile, insomma, che se ne ricavassero film e che si moltiplicassero emuli di ogni risma.

Le poesie di Dino Campana, poi, o almeno, quelle lette (da Carlo Pagliacci) durante la lezione, mi sono sembrate bellissime. Non ne avevo idea, sono sempre più ignorante, per cui bene così.

Ho trovato molto brava, come già l'anno scorso a Belmonte Piceno, Sabrina Vallesi, la professoressa moderatrice: spero davvero che stia allevando almeno qualche fiore speciale tra i suoi studenti.
Ad averne di prof così.

In sala c'erano rappresentanti di tutte le generazioni, dai liceali alle signore dell'Università dell'educazione permanente e del tempo ritrovato di Grottazzolina: piccole perle di vita di provincia, di quelle che ti fanno dimenticare, almeno per qualche ora, problemi presenti e futuri.

Nota a margine sul poeta fermano Franco Matacotta, di cui lungo conoscevo solo la lapide sul corso cittadino, all'altezza della sua abitazione: doveva essere un bell'opportunista, di quelli con la O maiuscola, almeno stando alla lettera di addio che gli scrisse la Sibilla.
Certo: sarebbe facile malignare sulla quarantennale differenza d'età tra loro (lei, naturalmente, la vecchia della coppia), ma se è vero che il nostro vip locale sottrasse le lettere tra la scrittrice e il poeta orfico non è che ci faccia proprio una gran figura.

Davvero: non ne so nulla, per cui mi limito a queste impressioni a caldo.

Mi domando, in ogni caso, se le multi-relazioni di questa antesignana del femminismo non siano dipese anche dalla violenza dalla medesima subita a soli sedici anni, dall'uomo che poi le famiglie costrinsero a sposare. Da quel che ho capito, non si trattò di un episodio isolato, per cui non oso immaginare quanta sofferenza si possa accumulare giorno dopo giorno, anno dopo anno.

Dino Campana stesso, affetto da seri disturbi mentali, finì per essere accecato da gelosia morbosa e, manco a dirlo, di nuovo violenta, al punto che la scrittrice visse reclusa in un paesino alle pendici della Val di Susa per tentare di non vederlo mai più.

Antesignana del femminismo, certo, ma anche costretta ad abbandonare il figlio pur di allontanarsi dal marito-padrone. Sibilla non lo vide mai più: quanto una scelta del genere finisca per segnarti nessuno può saperlo.

Insomma: l'incontro di ieri mi ha lasciato svariate domande aperte.

Un giorno, forse, leggerò Una donna, l'autobiografia di Sibilla Aleramo, il cui cognome, ho scoperto da un pezzo della Ventisettesima Ora del Corriere della Sera, è l'anagramma di amorale, come questa signora (che nella realtà si chiamava Rina Faccio, era di origine alessandrina, ma girovagò tra Civitanova Marche, Milano, Firenze e poi Roma), scelse di chiamarsi.

Amorale non significa, ovvio, immorale.
A me dà l'idea che, invece, una morale ce l'avesse eccome.
La morale della libertà, con tutte le conseguenze che la medesima comporta.

Mi piace pensare che i suoi multi-amori abbiano placato almeno un po' il vuoto che più o meno ci afferra tutti. Sarà stata almeno qualche giorno davvero felice?

Non dò risposte. Non ne ho.
Buone domande a voi, amici.

mercoledì 9 dicembre 2015

La giusta terapia anti sindrome da Calimero


Ho scattato la foto che ripubblico sopra esattamente quattro anni fa, l'anno dei miei primi quaranta (e passa), lo stesso in cui ho conosciuto Bibi Iacopini, prima, e Patrizia Di Ruscio, dopo.
Sto parlando dei due organizzatori di #Intanto, la mostra collettiva natalizia che ha trasformato uno spazio "temporaneamente" non utilizzato come l'ex mercato coperto di Fermo in un mega salone espositivo per i molti talenti e artisti provenienti in massima parte dalla provincia.

Tolta la prima edizione (in cui non conoscevo ancora praticamente nessuno in città), ho partecipato sempre. Anzi: ho osato partecipare.
Perché scrivo così? 
Perché, obiettivamente, il livello di alcuni espositori è notevole (basti pensare a Pierluigi Savini tre anni fa, per citare un vero artista. Ma ne ho in mente anche altri). 
Quest'anno, poi, è stato previsto anche un omaggio a Mario Dondero e sono sicura che diverse cose mi sorprenderanno. E forse trasmetteranno un po' di malinconia.

Sono giorni abbastanza opachi, d'altra parte. Quattro anni fa è cominciato il mio declino professionale e anche se, contemporaneamente, ho scoperto di non aver del tutto perso la creatività che mi attribuivo in anni più verdi, il bilancio continua a sembrarmi negativo.

Lagnarsi è il peggio che si possa fare, quindi soprassiedo.
Durante il ponte appena passato, mi ha tuttavia fatto una certa impressione notare quanto siano cresciuti i nipoti e quanto la vita vada avanti per tutti, me compresa.

Quattro anni fa non avrei mai immaginato di perdere mia madre, né di ritrovarmi a fare, certe volte, da madre a mio padre. Quest'ultimo, in verità, mi dà ancora un sacco di dritte (e di punti), ma è evidente che sia più fragile, anche se non sempre riesco ad accettarlo. 
Quanto vorrei che si potesse tornare indietro, in alcuni momenti.
Come vorrei non sentirmi così inutile, in certe situazioni. 

Sapete che cosa penso davvero?
Sono afflitta da una specie di sindrome da Calimero.
In alcuni momenti, diciamo in concomitanza con il dannato ciclo femminile, mi pare che gli altri siano tutti migliori di me, più realizzati e felici di me e che mi tengano a distanza apposta per questo.

Non voglio pensare a che cosa farò quando saranno sparite le crisi mensili per l'avvento della menopausa.
Sicuramente troverò un'altra scusa per alimentare il pulcino nero che è in me.

E meno male che ci ironizzo su.

Ho passato troppo tempo da sola, a cantarmela e suonarmela davanti a uno schermo, alternando le chiacchiere di passaggio con i negozianti alla solitudine domestica.
Studiare per il concorso, alla fine, mi ha fatto bene anche perché mi ha costretta a dare una finalità a questi lunghi anni di distanza da tutto

Però mi sono chiesta oggi (e alle altre crisi mensili precedenti): sarei capace di reggere alle relazioni sociali degli ambienti di lavoro? Quanta fatica farei a riadattarmi a stare in mezzo alla gente non cinque minuti, ma ore?

L'aspetto più terribile del sentirsi Calimero è proprio questo: mi prenderebbero ancora di più per un'aliena? Riuscirei a nascondere il senso d'inadeguatezza alla vita che, temo, mi si legga in faccia?

Gli altri (le altre) si faranno tutte queste pippe mentali o è davvero arrivata l'ora di darsi alla pesca?

Non credo che esistano risposte, però avevo bisogno di questo breve momento di verità.
Oltre i sorrisi che uso come divisa d'ordinanza.

giovedì 19 novembre 2015

Billy Elliot e i sogni (si spera) contagiosi dei ragazzi


Prima di tutto, una piccola confessione: non sono un'esperta di musical. Sarà per questo che ieri sera, a un certo punto, diciamo intorno alle 23, ho cominciato ad agitarmi vieppiù sul seggiolino alto del palchetto dell'affollatissimo Teatro dell'Aquila di Fermo, dal quale ho assistito alla messa in scena di Billy Elliot, tappa esclusiva regionale dell'allestimento curato da Massimo Romeo Piparo, con le musiche di Elton John tradotte in italiano.

A essere bravi, erano tutti bravi e in parte: in particolare ho apprezzato Mrs Wilkinson, l'insegnante di danza di Billy, interpretata da Sabrina Marciano. Mi ha poi molto divertito il personaggio di Michael, l'amico del cuore del protagonista, per il cui ruolo di sicuro è stato rubacchiato qualcosa a Elton.

Credibilissimo il fratello maggiore di Billy, il sanguigno minatore difensore dei diritti della classe operaia, che non riesce a capire, insieme con il grosso degli uomini-machi della piéce, per quale motivo un ragazzino preferisca la danza al pugilato.

Forte anche la nonna, anche se un po' troppo caricaturale, per i miei gusti.

Che cosa non mi è piaciuto?
A mio personalissimo avviso, a parte l'eccessiva lunghezza, i balletti non erano eccezionali, a parte quelli a base di tip tap e i volteggi del Billy grande con quello giovane.
La musica, mi spiego meglio, molte volte era troppo potente e troppo energica, mentre lì, sulla scena, il leggiadrissimo protagonista Alessandro Frola, continuava a roteare su se stesso, anche quando, sempre secondo me, avrebbe dovuto tirare fuori più fervore.

A ben guardare, per buona parte dello spettacolo è giusto che Billy non sveli a noi del pubblico tutto il suo talento, ma a me è sembrato che non l'abbia fatto neanche nella canzone danzata davanti alla commissione del Royal Ballet, nella quale ci stava, per l'appunto, spiegando perché ama così tanto ballare. Ma può anche darsi che fossi semplicemente stanca morta e che a mancare d'energia fossi solo io.

Nel complesso, comunque, è stata un'esperienza interessante: davanti a me c'erano due ragazzi più o meno della stessa età dei due protagonisti e del grosso delle ballerine sul palcoscenico. Uno dei due teneva segretamente il tempo e canticchiava le canzoni dello spettacolo. Dall'accento ho dedotto che non fosse di Fermo, ma non ho capito bene se facesse parte anche lui della compagnia. Di certo lui e il suo amico (o il fratello?) con i capelli lunghetti avevano l'aspetto di ballerini. Solo nell'intervallo mi sono resa conto che il teatro era strapieno di adolescenti così ed è stato davvero straordinario osservarli tutti insieme. Quanti talenti, quanto entusiasmo, quanti sogni.

Nelle interviste della Rai che ho guardato ieri alle due piccole star del Billy Elliot nostrano, mi ha colpito proprio quello che entrambi dicono sul loro futuro: tutti e due vogliono diventare "artisti completi". Lo affermano con una sicurezza dalla quale ci si vorrebbe far contagiare, come capita alla già citata Mrs Wilkinson, la fascinosa e disillusa insegnante di danza che è la prima ad accorgersi di quale etoile in potenza abbia davanti a sé.

Il vero spettacolo, in definitiva, erano proprio i giovanissimi attori in scena e quelli intorno a me, immersi nei loro progetti a tutto tondo, bisognosi, però, di tutto il sostegno dei grandi.
Ed è poetico, e si vorrebbe credere anche vero, che il maschilista papà di Billy (l'attore Luca Biagini) addirittura metta da parte la sua aspra battaglia sindacale pur di stare accanto al figlio "diverso".

Il potere delle storie più amate dai noi esseri umani è, concludendo, proprio questo: trasmettere sentimenti di speranza e spiragli di vita nuova. Quindi, onore a voi, artisti e ragazzi innamorati di Billy Elliot.
E soprattutto, buon futuro.

Ps guarderò presto il film che ha dato vita a tutto ciò e, nel caso, ne parlerò. Vi toccherà tornare a trovarmi :)

venerdì 23 ottobre 2015

Ritorno a Fermo, tra realtà e sogno

Fermo, zona Girfalco

Stamattina sono salita in cima al colle per risolvere una questione burocratica e per vedere un'amica.
Non venivo nel centro storico di Fermo da inizio estate, per la precisione dal giorno in cui ho restituito le chiavi ai miei ex proprietari. Mi ha fatto uno strano effetto.
Pur essendomi tutto, com'era ovvio, ancora molto familiare, m'è sembrato di essere piombata in un sogno, uno di quelli in cui c'è qualche elemento del tuo passato mescolato ad altri di fantasia.

Mi è venuto in mente, per esempio, il mio lavoro (si fa per dire) fotografico sulla via dove abitavo appena sotto il giardino del Duomo e in particolare lo scatto della panchina sommersa di foglie, le stesse che vedete nella foto sopra. Da quella foto sono passati esattamente quattro anni, abbastanza per accumulare altra vita (e che vita), ma non troppa per lasciarmi andare a un eventuale amarcord.

In quel giardino ho fatto varie telefonate a mia mamma, praticamente in tutte le stagioni. Qualcuna, poco prima di andarmene via, pure a mio padre, per informarmi sulle varie visite di controllo alle quali non avevo potuto assistere.

Ferma a osservare il cedro secco ricoperto di carta argentata (ho provato a fotografarlo, ma l'obiettivo del mio cellulare mi è andato in crisi sfocandomi albero e sfondo), ho avvertito nitidissimo un brivido lungo la schiena e una vaga vertigine
Sono scappata via
Riscendendo nella piazza centrale, deserta e assolata, ho intravisto l'edicolante anziano su un lato (ho avuto l'impressione che mi abbia riconosciuta, ma chissà) e una donna impegnata a lavorare a maglia sull'altro. Che calma. 
Troppa. 

Qualcosa mi dice che passeranno altri mesi prima che mi riaffacci lassù.
A scanso di equivoci con gli eventuali amici lettori del blog nati, cresciuti e giustamente fieri di Girfalco e dintorni, il problema non sono questi luoghi, crudelmente rasserenanti. Sono io che non sono in armonia con loro, troppo giovane per la pensione e troppo vecchia per mischiarmi con i ragazzi che hanno ripreso l'autobus con me per ritornare giù al mare.

Ho bisogno di aria, di luce e di radici più profonde, insomma.
Forse (lo dico piano) la mia nuova vita sta cominciando, insieme con i ciclamini e l'erica che ho rinvasato oggi pomeriggio, i panni da casa, le ciabatte e il caffè caldo sorbito sul balcone.
Il mio balcone.

Fatemi l'in bocca al lupo.
Ne ho bisogno.

giovedì 7 maggio 2015

Mario Dondero e l'arte di vivere in "Calma e gesso", il documentario di Marco Cruciani

Mario Dondero e i gestori dell'Enoteca di Fermo, 25 aprile 2014
Ho scattato la fotografia che vedete sopra in una fortunata giornata dell'anno scorso: l'ultima prima di un mese e mezzo durissimo.
Di quel pranzo improvvisato devo ringraziare ancora molto, a distanza di oltre dodici mesi, Laura Strappa, la compagna di Mario Dondero, il grande fotoreporter genovese-milanese che ho conosciuto ormai cinque anni fa a Fermo, in occasione di una memorabile intervista (memorabile per me, naturalmente: chiunque abbia incontrato Mario, anche solo per cinque minuti, sa di che cosa parlo).

Parto da questo ricordo biografico giusto per darvi un'idea della commozione che ho provato ieri sera guardando Calma e gesso, il documentario che Marco Cruciani ha dedicato al grande fotografo, presentato ieri sera alla Sala degli Artisti di Fermo in anteprima assoluta, in occasione - non so se casuale o voluta - del suo ottantasettesimo compleanno.

Dopo una breve (e visibilmente emozionata) presentazione da parte dell'autore, sullo schermo del bel cinema fermano sono seguite due e ore e un quarto di inseguimenti compiuti dal regista nell'arco di ben cinque anni.
Finanziato, almeno in partenza, con un fondo della Regione Marche per il cinema, il film è stato ultimato - come racconta il medesimo regista in un'intervista a Today - grazie al crowdfunding, una moderna ma in verità antichissima forma di autofinanziamento che dovrebbe - si spera - permettere al suo ottimo lavoro di lasciare il nido marchigiano e toccare le principali piazze italiane e straniere, almeno tutte quelle in cui Mario ha lasciato la sua indelebile impronta, come si vede bene nel film, ossia, tra le altre, Genova, Milano, Parigi, Bologna e Locarno.

Una vita donderoad, rubando il neologismo a uno dei molti libri tributo che gli sono stati dedicati, a partire da quel primo, pericoloso viaggio in Val d'Ossola, dove, appena sedicenne, Mario ha fatto il partigiano di città (come racconta lui stesso nel film), non la staffetta, precisa, perché non conosceva i sentieri come i ragazzi del posto.

Da quel momento, la sua certamente genetica capacità di entrare in empatia con gli altri si è impastata di una sorta di comunismo di formazione che si potrebbe definire romantico: forte di questo sentimento appassionato oltre che di un bagaglio culturale non trascurabile, Mario è stato spinto in età già non più verde a ripercorrere i luoghi calcati da Robert Capa ai tempi della Guerra civile di Spagna del 1936, sulle tracce del miliziano ritratto dal reporter americano.

Per quale motivo l'ha fatto, direte voi. Per dimostrare - come racconta il documentario - che il famoso scatto di Capa, quello in cui si vede un giovane uomo in tenuta militare, le braccia spalancate e il fucile in una mano, che pare saltare ma che in realtà sta per cadere a terra colpito a morte, era autentico, non una ricostruzione effettuata a tavolino dal fondatore dell'agenzia Magnum.
A quella vicenda era dedicata un suo reportage uscito su Diario - mostra sempre il documentario - e una mostra in Sardegna, un altro dei luoghi amatissimi dal fotoreporter.

Molto forte è, dicevamo, l'impronta lasciata da Mario su Locarno, luogo nel quale si è voluto ripercorrere il suo fondamentale periodo francese, come sanno tutti quelli che hanno visto - magari sui libri di scuola - lo storico scatto al gruppo di intellettuali parigini passato alla storia come gli esponenti del cosiddetto Nouveau Roman.

Genova è, ancora, un altro luogo che gli ha voluto rendere omaggio, con una retrospettiva che Mario afferma di aver sempre desiderato: sorride contento di sapersi sulla parete del Palazzo Ducale in una gigantografia di uno dei suoi più celebri scatti, si vede sempre nel film.
Don Andrea Gallo (scomparso nel 2013), poi, offre sul fotoreporter, che nella città ligure ha passato vari anni soprattutto dell'infanzia, uno dei giudizi più emblematici contenuto nel racconto per immagini di Cruciani: "Un quinto evangelista portatore di un messaggio di speranza", lo definisce. Il tutto detto senza un filo di retorica.

Analoga è l'impressione che ha Vinicio Capossela che, dallo schermo del cinema, di Mario loda la sua capacità di "valorizzare tutti".
Ed è esattamente questo il motivo per cui ieri sera, come in molte altre occasioni in cui si sapeva che, forse, prima o poi, uno dei principali protagonisti degli anni d'oro del Jamaica, il mitologico bar di Brera a Milano, sarebbe apparso, eravamo così tanti a sentirlo cantare versioni differenti di Bella ciao, pezzetti da Luigi Tenco e altre canzoni che - ahimè - la sottoscritta non conosceva.

Mario è un dispensatore di dignità, una dote che va ben oltre il suo immenso, disordinato e insostituibile archivio di fotografie. Un patrimonio che molti suoi amici stanno cercando tuttora di sistemare, perché non ne vada disperso neanche un frammento.

Bellissimi davvero, tra gli altri momenti del film, quelli in cui noi spettatori siamo stati condotti nello studio fotografico del suo amico romano (purtroppo me n'è sfuggito il nome) che l'ha aiutato a più riprese a stampare e catalogare scatti da Mario dimenticati chissà dove; e altrettanto emozionanti sono i passaggi dedicati all'altro gruppo, quello della Fototeca provinciale di Fermo, in cui si vedono volti esausti - compreso quello del nostro eroe - che tentano di organizzare migliaia di diapositive scrutandole con un ingranditore, sotto la luce fioca di una lampada da scrivania.

Quante nottate avranno passato così, quanti discorsi, quante cene, quanto vino bevuto tutti insieme.

Mario è questo e molto altro, come sa - presumo - anche Marco Cruciani, al quale va il grande merito di aver creduto nel suo progetto, sentendo che andava fatto (come afferma nell'intervista che ho già citato), oltre ogni ragionevolezza.
Agendo così, a mio modestissimo avviso, il regista ha interpretato alla perfezione lo spirito dell'uomo,  ben più di un fotografo, ben più di un giornalista, come dicono in molti anche nel documentario.

L'ultima volta che ho incontrato Mario è stato sul pullman Fermo-Porto San Giorgio: era estate, quella di un anno fa. L'ho accompagnato a sistemare il suo orologio, in un affascinante negozietto dall'insegna gialla. Quando entri lì dentro, senti una calma speciale, scandita dal ticchettìo di svariati pendoli alle pareti e dalla radio (la Rai, di solito) in sottofondo.

Ha preso un gelato, dopo, se non ricordo male, e io un caffè. "Perdere la mamma è un colpo durissimo", mi ha detto. Già, Mario. Sarà per questo che uno dei ritratti che più mi piacciono, tra le tante foto che ho imparato a scoprire negli anni, è quella in cui si vede Pier Paolo Pasolini in primo piano, un po' di sguincio, e sullo sfondo, nella stessa posa, sua madre.

Adesso che ci penso, ci siamo incontrati di nuovo forse a inizio autunno. Sono andata come sempre io a rompergli le balle: leggeva come sempre un quotidiano, seduto su una delle panchine di piazza del Popolo, qui a Fermo. Si sentiva stanco, ma niente l'avrebbe tenuto un altro giorno di più imprigionato in una casa o, peggio, in un ospedale.

Se c'è una cosa che ho imparato semplicemente guardandolo è che a vivere non s'impara se non vivendo.
E lui ha vissuto.
E se davvero non avrò più modo di incontrarlo, posso dirmi davvero fortunata per averlo almeno incrociato.

Calma e gesso verrà proiettato questo fine settimana in vari orari alla Sala degli Artisti: chi può vada a vederlo. E soprattutto viva. Come cercherò di non dimenticarmi mai più.

Arrivederci, Mario.

venerdì 10 ottobre 2014

I libri inutili e i cambi (necessari) di stagione


Il periodo è quello giusto: il cambio di stagione va onorato anche con una bella selezione tra i libri della nostra vita. Finora non ne avevo mai buttato neanche uno, ma ultimamente mi sono resa conto che non c'è niente di più sbagliato (almeno per me) della sacralità imposta.
Chi decide che un libro meriti di essere conservato più di un paio di scarpe o di una spugnetta abrasiva?
Non tutti i libri sono utili. Non tutto, in generale, è veramente indispensabile.

Tornando al tema, alcuni libri, in particolare, mi parlano di periodi morti e sepolti che non ho alcuna voglia di ricordare.

Fino a ieri pomeriggio avevo ancora il raccoglitore contenente il primo anno di numeri della Voce delle Marche. Adesso non ce l'ho più. L'ho lasciato sul bidone della carta, in piedi, aperto.
Chissà se i netturbini l'hanno sfogliato giusto un attimo prima di mandarlo al macero.

Nel novembre di dieci anni fa ho preso i miei primi contatti con Fermo. A inizio 2005 ho cominciato a lavorare nel settimanale diocesano, ormai mitizzato nella mia memoria.
I tre anni successivi sono stati tanto belli quanto dolorosi da rievocare. Ogni volta che ne parlo mi risale una rabbia che non ha più senso.

Perciò era ora che mi privassi di quel raccoglitore. Oltretutto, in cantina staziona ancora la collezione completa che avevo fatto da sola, da brava formichina, numero dopo numero.
Qualcosa mi dice che finirò per buttare anche quella.

Necessito di spazio. Di pulizia disco, quella che non faccio mai sul mio pc, sottoponendolo a sforzi eccessivi. Ogni tanto, infatti, il mio povero portatile va in tilt, esattamente come me.

Anche la casa dei miei genitori ha bisogno di un cambio di stagione. Non sarà facile liberare un po' d'armadio per mio padre, ma lo faccio per lui. E anche per mia mamma che approverebbe.

Quindi, tra poco, parto.
Compiendo un viaggio all'indietro che indietro non è.

domenica 4 maggio 2014

Senigallia e la sindrome (tutta italiana) dell'emergenza continua





Spero di rivedere a breve Senigallia così.
Certo è che da quando abito nelle Marche di dissesti idrogeologici ne ho visti parecchi.
La parte paranoica di me (in uno dei due episodi di Maigret di ieri sera si parlava di tare genetiche) ogni tanto mi spinge a domandarmi: non è che sono io che porto iella?
Poi razionalizzo (come no) e dico: tiè.

In tutti i casi, quando ti trovi molto vicino a un disastro molto poco naturale (lo sappiamo: la portata d'acqua di ieri era eccezionale, ma le ferite alla terra non lo sono affatto e non da adesso), ti rendi conto che a spalare il fango ci potevi essere anche tu, in queste stesse ore.

Oggi ho osservato bene la protezione che hanno imbastito sulla grossa frana che lo scorso novembre si è staccata pochi metri più su rispetto al palazzo in cui abito io: a occhio non mi pare un granché sicura, ma parlo da totale profana.
Poi però sento che è crollato un ponte sullo stesso corso d'acqua, detto simpaticamente Ete Morto, che in un altro punto, un po' più verso la costa, ne aveva rotto un altro causando due vittime nel non lontano 2011.

E mi dico: possibile che a tre anni dal tragico incidente nel frattempo nessuno abbia provveduto a sistemare tutti i valichi sullo stesso fiume?
Sempre Maigret, appropriatamente ieri sera considerava che la vox populi molto spesso è vera. A pensar male, insomma, si pensa ahimè troppo spesso bene.

Per fortuna, il centro storico di Senigallia sembra essersi salvato dalla doppia esondazione (Misa + Cesano), ma ci vorranno diversi giorni prima che si possa tornare alla normalità. Sempre che ci si intenda allo stesso modo sul significato di quest'ultima parola.

Normale non è un Paese che lascia costruire dove non si deve, condannando al disastro prossimo venturo abitanti (poveretti i due anziani vittime dell'alluvione senigalliese. Che triste fine. E per fortuna che ai ragazzi rimasti intrappolati nella scuola in cui va anche la figlia della mia amica Maria Loreta Pagnani non è successo nulla) e titolari di aziende.
Davvero, non se ne può più di sentire la conta dei danni successiva.

Mi colpisce, infine, anche un'altra altrettanto poco onorevole coincidenza. Mentre i senigalliesi lottavano contro la furia delle acque, i malcapitati cittadini romani a passeggio nei pressi di Ponte Milvio tentavano disperatamente di evitare la furia degli ultras.
Mi dispiace: non riesco proprio ad appassionarmi al calcio.
A cominciare dal crollo dello stadio dell'Heysel in avanti (ricordo di un razzo sparato su un bambino o un ragazzo più o meno negli stessi anni), allo sport più amato dai miei connazionali associo immagini di violenza, razzismo, stupido machismo e totale anarchia.

Se fosse per me, il campionato dovrebbe essere abolito.
Ma so di far parte di una minoranza, quindi pazienza.
Però sono veramente stufa di vivere in un Paese che sembra capace solo di passare da un'emergenza all'altra, o che comunque viene raccontato in questo modo da troppi miei cosiddetti colleghi (io ormai non mi sento più una giornalista, se non lo si fosse capito. O forse non lo sono mai stata, al di là del tesserino e del diploma che mio padre mi ha fatto incorniciare).

E insomma. Il discorso sarebbe troppo lungo e adesso non ho voglia di affrontarlo.
Ha smesso di piovere, anche se il cielo è ancora grigio e fa freddo come a dicembre.
Auguriamoci che le temperature diventino più miti, almeno questo.
Forza Senigallia, tornerò presto a visitarti.

lunedì 28 aprile 2014

#Fermoattivo e la magia di vivere il presente



E poi, quando meno te l'aspetti, ricevi doni inaspettati.
Ho scattato la foto che vedete sopra da un balcone di una vera casa fermana.
In che cosa si sostanzia quest'ultima, vi starete chiedendo.
Tentando una non facile sintesi, direi che nelle case dei veri nativi di questo luogo aleggia una mistura di antico e di moderno tutta speciale.

Solcando la moquette verde che ricopriva pure le scale, si accedeva in ambienti arredati nei modi più disparati. Ho intravisto poltrone marroni di pelle, sedie e letti inizio Novecento e poi stanze stile b&b anni Duemila. Non ho potuto memorizzarli bene, data la velocità della nostra invasione, ma oltre all'imbarazzo di trovarmi a casa d'altri senza essere stata invitata, provavo anche altre sensazioni.

L'estraneità di cui vi ho parlato un paio di post fa è ancora tutta lì, ma devo ammettere che essere accolti in quella maniera, percepire l'orgoglio delle radici di chi ti mostra il proprio luogo del cuore e sentirsi pure proporre un caffè per cercare di farti restare ancora un po' è stato molto bello.

Ringrazio perciò intimamente gli organizzatori di #Fermoattivo, la tre giorni di passeggiate artistiche per il centro storico della cittadina marchigiana, e, se c'è qualcuno lassù che mi ascolta, grazie a lui/lei/neutro anche per il sole che ha generosamente protetto le persone che hanno esposto en plein air le proprie opere e quelle che si sono soffermate a guardarle, incuriosite anche dai cortili, le piazze e altri angoli finalmente animati di vita.

Su Minime Storie proporrò a breve una cronaca più dettagliata (ho scattato abbastanza foto da ricavarne una galleria, un'attività che mi piace tanto tanto), ma qui volevo solo aggiungere che per una volta ho vissuto pienamente il posto in cui abito ed è stato importante. Per molti motivi.

E anche se adesso sembra di nuovo novembre, non importa.
Ho vissuto e ho condiviso la pienezza del presente con altre persone.
La magia è ancora possibile.

martedì 15 aprile 2014

Fermo e l'invincibile distanza


Ci ho pensato a lungo, ma la conclusione è rimasta la stessa cui ero approdata fin da subito. Desidero dedicare qualche riga alla chiusura di Alelà, il piccolo negozio di calze, canotte e costumi, nel quale sono entrata più di una volta, soprattutto quando ho avuto bisogno di fare qualche regalo un po' più di qualità.
Sono rimasta malissimo quando ho saputo la brutta notizia.

Pur non essendo una habituè dei negozi di piazza del Popolo, il magnifico cuore del centro storico di Fermo, mi piaceva infatti dare un'occhiata alle vetrine, come chiunque (non solo di sesso femminile) abbia un minimo di interesse per vestiti, scarpe e accessori vari.
Da quando sono arrivata quassù, però, lo shopping dei miei occhi si è di anno in anno sempre più ridotto, lasciandomi nel cuore la spiacevole sensazione di abitare in un paese fantasma.

So di dire qualcosa di scomodo per chi - giustamente - è molto attaccato alle proprie radici, ma, credetemi, se giorno dopo giorno Fermo mi è diventata sempre più estranea non è solo per colpa mia e del mio essermene restata chiusa nella "torre" troppo a lungo.

Ci ho provato, e continuo tuttora, in fondo, a tentare di sentirmi a casa, ma non ci sono riuscita. E, ahimè, ormai mi sono convinta che mai riuscirò.
Il che non vuol dire che in tutti questi anni non abbia conosciuto persone interessanti e fatto bellissime e indimenticabili esperienze.
E' solo che se non lavori sul posto, se non hai un legame non solo hobbistico con il luogo in cui abiti diventa obiettivamente più difficile.

E non che non abbia provato anche a cercarmi qualche lavoretto. Una volta ci sono anche riuscita ed è stato bello, ma del tutto inutile in prospettiva.
In questo caso, però, il problema è tutto mio e del percorso di studi e professionale troppo poco spendibile in una terra dedita al lavoro prevalentemente manuale (agricoltura+calzaturiero) come questa.

Mettici in più la crisi, mettici la tendenza non solo locale allo svuotamento progressivo dei centri storici a favore dei grandi centri commerciali, mettici le potenti lobby politico-ecclesiastiche contro le quali ho ampiamente sbattuto il muso quando lavoravo per il giornale diocesano. Fatto sta che la mia condizione di estraneità ha finito solo per rafforzarsi. E per aggravarsi ulteriormente per via di questo progressivo sgombero dalle vie che circondano la bella casa-torre nella quale soggiorno, dotata di questa vista mozzafiato che per lo meno ha lenito un po' lo sconforto dei momenti più bui.

Me ne dispiace. Tanto. Non sapete quanto.
Per scelta ho lasciato la grande città, alla ricerca di un luogo e di uno stile di vita più semplice.
E mi devo ritenere persino privilegiata per aver avuto la possibilità di fare almeno un po' il mio lavoro i primi tre anni passati qui con voi.

All'inizio della mia vita marchigiana, tra l'altro, abitavo sulla costa, dov'ero approdata in pieno inverno, accolta da una nevicata epocale che aveva imbiancato persino la spiaggia.
Ricordo ogni giorno, o quasi, passato alla Voce delle Marche, le risate e l'impegno che ci mettevamo, ogni settimana, per fare uscire quel piccolo giornale.
Quel giornalino, come lo chiamò una volta lo zio mantovano di mio marito, facendomi non poco scaldare, era una ragione più che valida per sentire davvero, o per illudersene, di aver trovato il proprio posto nel mondo.

Non è stato così, purtroppo, e anche ammesso che sia anche il mio carattere a indurmi a nutrire sempre un certo senso di distanza dagli ambienti troppo formati e strutturati (non ho mai fatto parte degli scout e agli sport di squadra preferisco di gran lunga quelli individuali), so anche stare con gli altri. So dare il mio contributo e fare un passo indietro a favore di qualcun altro più capace.
L'importante è avere l'occasione di dimostrarlo: il che significa essere accolti per quello che si è, senza preconcetti.

L'epilogo non felice dell'avventura commerciale della mia omonima commerciante di calzette di qualità mi ha amareggiato soprattutto per una ragione personale, insomma: se ha chiuso lei che a Fermo è nata, che per Fermo ha lasciato un posto di lavoro ai tempi stra-blindato in una grossa azienda, se oltre a lei hanno mollato le redini altri commercianti una volta molto gettonati del centro storico, compresa la mia ex edicolante, che oggi fa la fioraia (non so con quale successo) a Porto San Giorgio, perché mai avrei dovuto avere più chance io, che manco ci sono nata?

Faccio un'ultima considerazione, stavolta più politica: come può essere valutata una giunta comunale che ha lasciato andare verso il tracollo un centro così bello?
Che ha tolto i parcheggi ai residenti sulla strada che ospita il Municipio, sperando in questo modo di attrarre più gente, ovviamente automunita, senza pensare minimamente a potenziare altre vie di accesso al centro, altre forme di mobilità cosiddetta leggera che ormai dovrebbero essere un obbligo per qualunque centro che si dica civile?

Come si giudica un Comune che non ha ancora attivato la raccolta differenziata porta a porta, sempre nel medesimo centro storico?
Che cosa devo pensare della frana che si è staccata a pochi metri dalla nostra casa-torre, sembra per colpa della mancata manutenzione alla collina di tufo (o qualcosa del genere) sulla quale sorge il colle più alto della città?

In questo discorso il mio mal di vivere personale non c'entra. Però c'entra, come direbbe Nanni Moretti.
Perché se in questi anni avessi assistito a scelte illuminate, fatte per i cittadini (tutti: fermani di nascita e non) e non per favorire gli interessi di qualcuno; se avessi assistito non allo svuotamento, bensì alla rinascita del centro, alla faccia della tendenza nazionale, forse mi sarei convinta che comunque ho fatto bene a venire qua.

Mi resta sempre il dubbio che in una metropoli sarei stata ancora peggio, anche se nei grossi centri il senso di estraneità sarebbe passato inosservato, dal momento che tutti, più o meno, sono anonimi abitanti di non-luoghi.

Che dire? Ricorrendo a un'espressione che utilizzo spesso in modo ironico, ormai è andata.
E d'altra parte non mi sono del tutto arresa, visto che sto preparando una foto per una manifestazione collettiva di artisti (gli altri, non io), che esprime tutt'altro sentimento rispetto a quello che ho vergato qui.
Come me farebbe chiunque abbia ancora (molta) voglia di vivere. E di partecipare. A modo mio, naturalmente.

Vi saluto con un sogno: dopo anni passati in Germania o chissà dove in giro per il mondo, un giorno, d'inverno, i miei nipoti torneranno a Fermo e si ricorderanno di quando vi avevano venduto i loro giochi da bebè, felici dei guadagni realizzati e della festosa atmosfera che li circondava. E la riconosceranno perché, nonostante il freddo pungente che spesso alberga anche da queste parti, vi troveranno tanta gente di tutte le età, che passeggia circondata dal verde, costeggiando negozi di ogni genere, colorati ed eleganti.

E' un sogno di giovinezza, lo so, fuggevole come quella vera.
E tuttavia è l'unica visione sperabile, non tanto per me, ma per quelli che a Fermo verranno a vivere. Un giorno lontano.

venerdì 21 marzo 2014

Loretta Emiri, Giacomo Leopardi e il progresso dell'uomo


 
 
Per pura coincidenza, ho terminato il montaggio del video che vedete sopra proprio la sera di mercoledì, giorno nel quale sono andata ad assistere alle Operette morali, lo spettacolo del Teatro Stabile di Torino, con la regia di Mario Martone, ricavato dagli omonimi scritti di Giacomo Leopardi, in scena al Teatro dell'Aquila di Fermo.
 
Giusto a chiusura della rappresentazione, sul palcoscenico è stata innalzata una enorme vela, punteggiata di segni geografici e abbozzi di mappe: l'accorgimento scenografico doveva trasportare noi spettatori sull'Oceano Atlantico, solcato da Cristoforo Colombo quando viaggiava alla volta del Nuovo Mondo.
 
Speravo tanto che nel dialogo tra l'attore che interpretava il famoso navigatore italiano e Pietro Gutierrez, il suo compagno d'avventura (personaggio affidato al bravissimo Renato Carpentieri, quello che in Caro Diario scappa via da Alicudi, urlando "frigoferooo, ascensoreee, televisioneee, telefonoooo"), si facesse un qualche accenno alle conseguenze dello sbarco nelle Americhe.
Certo, come la pensasse il grande poeta-filosofo di Recanati sul progresso lo si poteva capire anche da altri dialoghi (fenomenale, per esempio, quello tra Timandro ed Eleandro).
 
Un riferimento esplicito, però, mi avrebbe aiutato a trovare un aggancio tra l'entusiasmante esperienza teatrale dell'altra sera e quella vissuta in compagnia di Loretta Emiri, la mia amica scrittrice, a sua volta amica (alleata) degli Indios d'Amazzonia, che ho avuto l'onore di accompagnare durante la sua conversazione con il pubblico presente lo scorso 8 marzo a Monte Giberto, in occasione dell'incontro organizzato dall'Università dell'educazione permanente e del tempo ritrovato di Grottazzolina, un altro alacre paese in provincia di Fermo.
 
E tuttavia non importa.
L'aggancio tra il pensiero dell'immortale genio recanatese e quello di Loretta c'è comunque.
Il progresso, di per sé, è un'illusione, sembrano dire entrambi. O meglio: tale è il progresso tecnologico, se privo di analogo progresso morale da parte degli uomini.
 
Negli anni Settanta, ossia il periodo in cui Loretta è approdata in Amazzonia, gli indios brasiliani (e non solo loro) erano ridotti a poche centinaia di migliaia. Grazie all'intervento di missionari, religiosi e laici, le loro condizioni sono andate via via migliorando, al punto che l'eguaglianza tra indios e bianchi (ma anche, naturalmente, meticci di ogni ascendenza) è diventato principio fondante della Costituzione del Brasile, entrata in vigore nel 1988, dopo la fine della dittatura militare. E Loretta è giustamente orgogliosa di aver dato il suo contributo alla cosiddetta opera di "coscientizzazione" delle popolazioni native di quel bellissimo Paese all'altro capo del mondo.
 
Perché sia andata lì e non in Africa, per esempio, la scrittrice indigenista l'ha spiegato con parole semplici, intrise di quella modestia orgogliosa che contraddistingue il suo carattere. Loretta non voleva "evangelizzare" nessuno e in Brasile, almeno per l'esperienza che ha avuto lei, non era questo lo scopo principale che ci si prefiggeva.
 
I primi tempi, anzi, si è dovuta rimboccare le maniche prestando anche aiuto sanitario, lei che era, nella sua prima vita, titolare di un'agenzia di assicurazione, niente di più lontano dalle esigenze di pura sopravvivenza nutrite laggiù all'epoca.
 
In seguito si è trasformata in formatrice di maestri indios ed è lì, immagino, che si deve essere compiuta la sua totale trasformazione.
Ho volutamente lasciato l'attimo di commozione che si avverte nella sua voce mentre legge il brano dedicato agli abbecedari realizzati direttamente dai nativi.
 
Tra le parti che ho tagliato, con un certo rammarico, c'è la risposta che la nostra "eroina dei due mondi" ha dato a una delle molto stimolanti domande del pubblico: se gli indios del Nord del Brasile, gli Yanomami con i quali Loretta ha anche vissuto direttamente in foresta, erano i più preservati dal contatto con l'uomo bianco - ha chiesto a un certo punto una signora - perché andarli a disturbare?
 
Perché il "disturbo", ha risposto la scrittrice, c'era comunque già stato: a insidiarli, ci avevano già pensato i cercatori d'oro e la strada da loro fatta costruire che si addentrava nella foresta lambendo anche i villaggi più sperduti.
Si potrebbe dire: ma il progresso non si può fermare. Certo che no, ma mi domando e vi domando: è progresso quello che porta con sé anche malattie, fisiche e morali, come ha raccontato Loretta?
 
E in ogni caso, anche ammettendo che, in effetti, non si può più tornare indietro, chi l'ha detto che tutti vogliamo vivere in città assediate da fumi e rifiuti? Perché, in altri termini, invadere tutto il pianeta con un modello di sviluppo che sta già da anni cominciando a implodere?
 
Non si tratta di essere fintamente ecologisti, si tratta di lasciare coesistere, a beneficio di ogni creatura vivente, alternative concrete allo stile di vita della maggioranza dei popoli.
Anche senza arrivare all'essenzialità dei nativi amazzonici, insomma, potremmo imparare da loro moltissimo. Potremmo esercitarci a essere più autentici, più umani, in una parola.
 
Leggendo Loretta e ascoltandola parlare, si coglie tutta la vastità del mondo. E ci si ricorda, come diceva Leopardi nel Dialogo della natura e di un islandese, che non ne siamo affatto i padroni.
 
La superiorità dell'uomo, quella sì, è un'illusione.
Chi volesse continuare a perseverare in questa convinzione, in ogni caso, impari a esserlo davvero, lasciando in pace chi ha un'altra idea, di sé e degli altri.

martedì 7 gennaio 2014

Fermo di Sualzo, la vita oltre il panico



Natale 2013: davvero memorabile.
Sono, siamo, stati bene e oltretutto, nonostante il gran casino prodotto dalla festosa presenza dei nipoti, sono pure riuscita a leggere un po'.
Fermo, il libro a fumetti che vedete sopra, mi è stato regalato da mia sorella (e relativo coniuge), inizialmente attratta, com'è facilmente intuibile, dal titolo. Prima di incartarlo, però, l'ha letto, persuadendosi ancora di più che potesse essere adatto a me. E infatti aveva ragione.

"Fermo" è esattamente quel che era per me prima di venire ad abitare nell'omonimo sostantivo nome del piccolo comune marchigiano distante pochi chilometri dal mare Adriatico.
Fermo è stato, per un anno intero, il protagonista della storia scritta da Sualzo, pseudonimo di Antonio Vincenti, che si descrive sul risvolto della quarta come "sassofonista mancato e disegnatore autodidatta, interessato alle cose del mondo".

Come ho già sottolineato in altri post, io non so disegnare, ma adoro le storie disegnate, in generale mi interesso alle cose del mondo e sono abbastanza un'autodidatta di quasi tutto quel che mi capita a tiro. Questo solo per dire che non sono in grado di dirvi se il tratto usato dall'autore di Fermo sia o meno buono.
Di certo è il sincero specchio di una visione del mondo malinconica e insieme ironica quanto basta.

Sebastiano, questo il nome del protagonista della storia, resta "fermo" a Bibbiena per oltre un anno per svolgere il Servizio civile. L'anno dopo, racconta all'inizio, la leva obbligatoria sarebbe stata abolita, ma essendo lui uno studente bloccato a un tot di esami dalla laurea, sceglie di fare l'obiettore come una sorta di male minore, convinto che l'avrebbero spedito in qualche deserta biblioteca a pochi minuti da casa.
E invece la destinazione che gli assegnano è parecchio lontana, non solo geograficamente.

Proprio a lui, che soffre di attacchi di panico da quando aveva sedici anni, tocca di occuparsi di malati, psichici e fisici. Il suo compito, a dire il vero, non è poi così difficile: come gli spiega l'impiegata comunale che segue i ragazzi del Servizio civile, basterà che faccia loro un po' di compagnia, per dare ai familiari la possibilità di prendersi qualche ora di libertà. Se poi fosse riuscito anche a provare anche dell'affetto, beh, sarebbe stato ancora meglio. Ma non indispensabile.

Sebastiano è però di quel genere di persone che sanno entrare in empatia con gli altri, lo si capisce pagina dopo pagina, striscia dopo striscia.
E d'altra parte dubito che un'esperienza del genere non lasci traccia alcuna, anche sulle scorze più dure.
Il rischio di cadere nella retorica c'era, insomma, ed è proprio per questo che ho particolarmente apprezzato il tono sensibile ma non buonista adottato da Sualzo anche nella descrizione della tragedia, in fondo da tutti aspettata (anche da chi legge), che a un certo punto interviene nella storia.

Allo stesso modo, ho trovato molto felice la titolazione dei capitoli, rubata qui e là da canzoni (una scelta piuttosto obbligata per un musicista come l'autore) e i brani poetici riportati in fondo alla pagina di apertura di ciascuno di loro.
L'ultimo mi si è conficcato quasi sotto la pelle. E' una poesia (credo intera, ma non ne sono certa) di J. Twardowski, un autore che non avevo mai sentito nominare (e scusate l'ignoranza). S'intitola Contro di te e dice:

Prega per quello che non vuoi affatto
di cui hai paura come uno scoiattolo della pioggia
da cui fuggi come un'oca sempre più lontano
e tremi come in un soprabito senza imbottitura d'inverno
da cui ti difendi con tutte e due le mascelle

inizia finalmente a pregare contro di te
per ciò che è più grande e viene da solo.

Non credo di essere capace (anzi ne sono sicura: non lo so fare) di pregare contro di me, ma so che cosa significa pregare perché quella crisi arrivi, prima o poi. Perché una volta che è arrivata, così come è arrivata, poi passa.

Se non ho male interpretato il finale del libro, Sebastiano e il suo alter-ego Sualzo superano definitivamente gli attacchi di panico proprio dopo l'anno di "fermo" a Bibbiena. Se così non fosse, non importa: con il panico, o qualunque altro demone alberghi nei nostri cuori, si può convivere. Certo che si può.

L'importante è imparare a non fuggire, ma a starci, dentro i nostri demoni, dentro i nostri fermi interiori.
E' forse questo il segreto della vita?
Penso di sì, ma non ho la pretesa di dettare ricette universali.
Come penso non ce l'abbia neanche Sualzo, che è stato davvero molto bravo nel mescolare la realtà e la fiction, come solo i grandi tessitori di storie sanno fare.

E adesso l'anno nuovo può finalmente cominciare.
Demoni miei, vi aspetto al varco.