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giovedì 7 maggio 2015

Mario Dondero e l'arte di vivere in "Calma e gesso", il documentario di Marco Cruciani

Mario Dondero e i gestori dell'Enoteca di Fermo, 25 aprile 2014
Ho scattato la fotografia che vedete sopra in una fortunata giornata dell'anno scorso: l'ultima prima di un mese e mezzo durissimo.
Di quel pranzo improvvisato devo ringraziare ancora molto, a distanza di oltre dodici mesi, Laura Strappa, la compagna di Mario Dondero, il grande fotoreporter genovese-milanese che ho conosciuto ormai cinque anni fa a Fermo, in occasione di una memorabile intervista (memorabile per me, naturalmente: chiunque abbia incontrato Mario, anche solo per cinque minuti, sa di che cosa parlo).

Parto da questo ricordo biografico giusto per darvi un'idea della commozione che ho provato ieri sera guardando Calma e gesso, il documentario che Marco Cruciani ha dedicato al grande fotografo, presentato ieri sera alla Sala degli Artisti di Fermo in anteprima assoluta, in occasione - non so se casuale o voluta - del suo ottantasettesimo compleanno.

Dopo una breve (e visibilmente emozionata) presentazione da parte dell'autore, sullo schermo del bel cinema fermano sono seguite due e ore e un quarto di inseguimenti compiuti dal regista nell'arco di ben cinque anni.
Finanziato, almeno in partenza, con un fondo della Regione Marche per il cinema, il film è stato ultimato - come racconta il medesimo regista in un'intervista a Today - grazie al crowdfunding, una moderna ma in verità antichissima forma di autofinanziamento che dovrebbe - si spera - permettere al suo ottimo lavoro di lasciare il nido marchigiano e toccare le principali piazze italiane e straniere, almeno tutte quelle in cui Mario ha lasciato la sua indelebile impronta, come si vede bene nel film, ossia, tra le altre, Genova, Milano, Parigi, Bologna e Locarno.

Una vita donderoad, rubando il neologismo a uno dei molti libri tributo che gli sono stati dedicati, a partire da quel primo, pericoloso viaggio in Val d'Ossola, dove, appena sedicenne, Mario ha fatto il partigiano di città (come racconta lui stesso nel film), non la staffetta, precisa, perché non conosceva i sentieri come i ragazzi del posto.

Da quel momento, la sua certamente genetica capacità di entrare in empatia con gli altri si è impastata di una sorta di comunismo di formazione che si potrebbe definire romantico: forte di questo sentimento appassionato oltre che di un bagaglio culturale non trascurabile, Mario è stato spinto in età già non più verde a ripercorrere i luoghi calcati da Robert Capa ai tempi della Guerra civile di Spagna del 1936, sulle tracce del miliziano ritratto dal reporter americano.

Per quale motivo l'ha fatto, direte voi. Per dimostrare - come racconta il documentario - che il famoso scatto di Capa, quello in cui si vede un giovane uomo in tenuta militare, le braccia spalancate e il fucile in una mano, che pare saltare ma che in realtà sta per cadere a terra colpito a morte, era autentico, non una ricostruzione effettuata a tavolino dal fondatore dell'agenzia Magnum.
A quella vicenda era dedicata un suo reportage uscito su Diario - mostra sempre il documentario - e una mostra in Sardegna, un altro dei luoghi amatissimi dal fotoreporter.

Molto forte è, dicevamo, l'impronta lasciata da Mario su Locarno, luogo nel quale si è voluto ripercorrere il suo fondamentale periodo francese, come sanno tutti quelli che hanno visto - magari sui libri di scuola - lo storico scatto al gruppo di intellettuali parigini passato alla storia come gli esponenti del cosiddetto Nouveau Roman.

Genova è, ancora, un altro luogo che gli ha voluto rendere omaggio, con una retrospettiva che Mario afferma di aver sempre desiderato: sorride contento di sapersi sulla parete del Palazzo Ducale in una gigantografia di uno dei suoi più celebri scatti, si vede sempre nel film.
Don Andrea Gallo (scomparso nel 2013), poi, offre sul fotoreporter, che nella città ligure ha passato vari anni soprattutto dell'infanzia, uno dei giudizi più emblematici contenuto nel racconto per immagini di Cruciani: "Un quinto evangelista portatore di un messaggio di speranza", lo definisce. Il tutto detto senza un filo di retorica.

Analoga è l'impressione che ha Vinicio Capossela che, dallo schermo del cinema, di Mario loda la sua capacità di "valorizzare tutti".
Ed è esattamente questo il motivo per cui ieri sera, come in molte altre occasioni in cui si sapeva che, forse, prima o poi, uno dei principali protagonisti degli anni d'oro del Jamaica, il mitologico bar di Brera a Milano, sarebbe apparso, eravamo così tanti a sentirlo cantare versioni differenti di Bella ciao, pezzetti da Luigi Tenco e altre canzoni che - ahimè - la sottoscritta non conosceva.

Mario è un dispensatore di dignità, una dote che va ben oltre il suo immenso, disordinato e insostituibile archivio di fotografie. Un patrimonio che molti suoi amici stanno cercando tuttora di sistemare, perché non ne vada disperso neanche un frammento.

Bellissimi davvero, tra gli altri momenti del film, quelli in cui noi spettatori siamo stati condotti nello studio fotografico del suo amico romano (purtroppo me n'è sfuggito il nome) che l'ha aiutato a più riprese a stampare e catalogare scatti da Mario dimenticati chissà dove; e altrettanto emozionanti sono i passaggi dedicati all'altro gruppo, quello della Fototeca provinciale di Fermo, in cui si vedono volti esausti - compreso quello del nostro eroe - che tentano di organizzare migliaia di diapositive scrutandole con un ingranditore, sotto la luce fioca di una lampada da scrivania.

Quante nottate avranno passato così, quanti discorsi, quante cene, quanto vino bevuto tutti insieme.

Mario è questo e molto altro, come sa - presumo - anche Marco Cruciani, al quale va il grande merito di aver creduto nel suo progetto, sentendo che andava fatto (come afferma nell'intervista che ho già citato), oltre ogni ragionevolezza.
Agendo così, a mio modestissimo avviso, il regista ha interpretato alla perfezione lo spirito dell'uomo,  ben più di un fotografo, ben più di un giornalista, come dicono in molti anche nel documentario.

L'ultima volta che ho incontrato Mario è stato sul pullman Fermo-Porto San Giorgio: era estate, quella di un anno fa. L'ho accompagnato a sistemare il suo orologio, in un affascinante negozietto dall'insegna gialla. Quando entri lì dentro, senti una calma speciale, scandita dal ticchettìo di svariati pendoli alle pareti e dalla radio (la Rai, di solito) in sottofondo.

Ha preso un gelato, dopo, se non ricordo male, e io un caffè. "Perdere la mamma è un colpo durissimo", mi ha detto. Già, Mario. Sarà per questo che uno dei ritratti che più mi piacciono, tra le tante foto che ho imparato a scoprire negli anni, è quella in cui si vede Pier Paolo Pasolini in primo piano, un po' di sguincio, e sullo sfondo, nella stessa posa, sua madre.

Adesso che ci penso, ci siamo incontrati di nuovo forse a inizio autunno. Sono andata come sempre io a rompergli le balle: leggeva come sempre un quotidiano, seduto su una delle panchine di piazza del Popolo, qui a Fermo. Si sentiva stanco, ma niente l'avrebbe tenuto un altro giorno di più imprigionato in una casa o, peggio, in un ospedale.

Se c'è una cosa che ho imparato semplicemente guardandolo è che a vivere non s'impara se non vivendo.
E lui ha vissuto.
E se davvero non avrò più modo di incontrarlo, posso dirmi davvero fortunata per averlo almeno incrociato.

Calma e gesso verrà proiettato questo fine settimana in vari orari alla Sala degli Artisti: chi può vada a vederlo. E soprattutto viva. Come cercherò di non dimenticarmi mai più.

Arrivederci, Mario.

martedì 14 gennaio 2014

Ninotchka e il fascino del cinema senza tempo


 
Credo di averne già parlato da qualche parte. Se l'ho fatto, beh, scusatemi (siete così pochi a seguirmi che se ne ho parlato, ve ne sarete sicuramente accorti).
In tutti i modi, ieri ho visto per la prima volta sul grande schermo Ninotchka, uno dei miei film maggiormente amati. Non so in effetti scegliere tra la pellicola passata alla storia per "la Garbo che ride" o l'altra, altrettanto perfetta, di Ernst Lubitsch che cito spesso senza quasi accorgermene. Sto parlando di "Scrivimi fermo posta", in inglese, più appropriatamente, The shop around the corner (il negozio dietro l'angolo, per i pochi non anglofoni rimasti).
 
Non ho quasi mai letto i sottotitoli in italiano, ma devo precisare che la perizia linguistica appena rivendicata in verità è stata di gran lunga sostenuta dal fatto che conosco il film a memoria, praticamente.
Anzi: lo conosco talmente bene che mi sono accorta persino degli errori nei sottotitoli che ogni tanto ho sbirciato (quando parlava la "granduchess Swana", per dire, non capivo quasi una mazza. Perdonatemi l'italianismo non troppo educato).
 
Capisco che la lingua si evolva e che debba adattarsi ai mutamenti dei costumi, però, per farvi un solo esempio, era proprio necessario sostituire la più musicale e francese parola "verve" con finezza, che non è proprio la stessa cosa?  
 
Mi riferisco a quando la granduchessa Swana incontra Ninotchka e Leon insieme e attacca a parlare a macchinetta (ed è lì che non ho capito assai) del cagnolino che lui le ha regalato.
A un certo punto si rivolge alla bella bolscevica scusandosi falsamente di fare discorsi che lei non può sicuramente capire. Ninotchka, invece, ricambiandola di altrettanto falsa cortesia, la rassicura: ha capito proprio tutto.
Allora Swana, teatralmente, sospira: "Oh mio dio, sto perdendo la mia verve". Così nel doppiaggio degli anni Quaranta (o Cinquanta, non più tardi, comunque), che mi ha da sempre conquistato.
 
La voce della Garbo era infatti affidata ad Andreina Pagnani, che ho imparato a conoscere puntata dopo puntata nei Maigret con Gino Cervi, per aver interpretato la fedele moglie Louise.
Una voce bellissima, dolce e profonda insieme. Il mio ideale di voce femminile.
 
E insomma. Le voci autentiche di Greta e Melvin (Douglas) sono altrettanto affascinanti e mi hanno fatto letteralmente impazzire nelle scene successive al teso incontro con la granduchessa, quando, ubriachi, fanno ritorno in hotel.
Che recitazione, accidenti.
 
Prima del film, che ho visto (a proposito) alla Sala degli Artisti di Fermo, che ha organizzato un cineforum lungo un anno intero con le pellicole presentate all'ultima Rassegna di Bologna nota come "Il Cinema Ritrovato", ho scoperto, ascoltando l'introduzione, che l'attrice di origine svedese smise di recitare due anni dopo Ninotchka per via del flop subito dal film successivo. 
 
Chissà se non c'erano anche altre ragioni, considerato tra l'altro che in molti Paesi la pellicola, uscita nel 1939, venne vista solo dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, come è stato specificato sempre prima della proiezione.
 
Magari era stanca, magari una diva abituata a stare sulla ribalta per molti anni finisce per non sopportare neanche il più piccolo stop. In fondo, succede anche oggi. Soltanto che di stelle così non ce ne sono poi molte.
Non voglio fare la passatista, eh, però capolavori così moderni e insieme senza tempo non nascono tutti i giorni.
 
Vi lascio con la scena dell'incontro tra il sergente Yacushova e il borghese Leon sul marciapiede parigino: ho ritrovato il suono dei clacson in un brano di Jelly Roll Morton chiamato Sidewalk Blues. Quest'ultimo, a sua volta, mi ha fatto troppo pensare al kazoo di Paolo Conte, che ama moltissimo il Jazz degli anni Venti e Trenta (e si sente tanto nella sua musica). Non potete immaginare che soddisfazione mi dia fare questo tipo di collegamenti: per trovarne altri, probabilmente, mi ci vorrà tutta la vita.
 
E meno male.
Prima di lasciarvi al video, aggiungo un'ultima preghiera: se potete, andate a vedere Ninotchka e altri film così grandi al cinema.
Avrete anche dei tv iper-ultra tecnogici, ma le luci che si smorzano in sala e persino i colpi di tosse dei vicini (e qualche dannatissimo cellulare che ogni tanto squilla ancora: ma li mortacci...), vi regaleranno tutt'un'altra profondità. Buona visione!