martedì 2 novembre 2021
Omaggio a Vienna e alle vittime di Schwedenplatz, un anno dopo
mercoledì 13 ottobre 2021
AAA: Madamatap è tornata... E cerca lavoro!
Riassumendo: da inizio luglio sono tornata in Italia. Definitivamente.
Mi sono accorta da vari segnali sui social che un sacco di miei conoscenti non l'aveva capito.
Non che ci tenessi, evidentemente, a mettere i manifesti.
Avevo bisogno di riprendere confidenza con il mio Paese, la mia cittadina adottiva (Porto San Giorgio) e quella natale (Chieti).
Tutto qua.
E però, finita l'estate da un momento all'altro (ma proprio letteralmente: ho fatto il bagno l'ultima volta il 4 ottobre), mi sono resa conto che, se non proprio i manifesti, almeno qualche piccolo poster bisognava pure che lo appendessi.
E sì, perché ho bisogno di lavorare e, come immaginavo già da prima di tornare (anzi: già da prima di trasferirmi a Vienna), il lavoro qui (particolarmente qui, ma anche oltre confine, ve l'assicuro) lo si trova più facilmente per conoscenza diretta.
Ovviamente, non sto parlando di raccomandazioni (se fosse così, non avrei bisogno di scrivere questo post): sto parlando proprio del classico passaparola.
Ecco. Più di qualcuno adesso si starà domandando, come ai vecchi tempi, "che cosa vuoi fare?".
Darò una risposta probabilmente scontata, ma è l'unica che mi viene in mente: "Tutto".
Specificando un po' meglio, tutto quel che il mercato del lavoro mi darà la possibilità di fare quando me ne darà l'occasione.
Ad insegnarmelo, è stato il passaggio in Austria, dove mi sono trovata a sperimentare la doppia vita di lavoratrice dipendente con contratto a tempo indeterminato e di disoccupata con sussidio continuativo.
Gli inizi, dell'una e dell'altra esistenza, sono stati complicati per via della limitata conoscenza del tedesco e del rigido protocollo da seguire.
Una volta sistemata la burocrazia, tutto è poi filato liscio fino all'ultimo giorno. Gli asburgici hanno finito di versarmi ad agosto di quest'anno tutto quel che mi spettava, fino all'ultimo centesimo.
Finché sono stata lì, in cambio l'Agenzia del lavoro (chiamata Arbeitsmarketservice, in sigla AMS, temutissima da me, quando la vedevo lungo le ciclabili con quei caratteri cubitali in blu e rosso) mi ha chiesto solo di mostrarmi attiva nel mio desiderio di reinventarmi un futuro. Come l'ho fatto? In primo luogo, ho frequentato due corsi di lingua tedesca incrociandoli con gli incontri con le consulenti specializzate nel supporto al lavoro al femminile.
Sulla mia strada ne ho incontrate tre, più una quarta che è stata quasi un'amica, e varie altre figure di contorno, compreso il simpatico turco, Taylan K., ex giornalista laureato in Scienze Politiche come me, che mi ha parlato di Berlusconi.
Della prima consulente, ho già scritto qui, come forse qualche amico lettore ricorderà. Ai tempi stavo per sostenere il mio esame B1 di tedesco e pensavo di potermi candidare anche per posizioni, diciamo così, più basic: a detta della consulente, avrei potuto provare a fare la commessa in qualche negozio italiano del centro, dato che, a suo dire, l'austriaco parlato da una figlia della terra do' sole è considerato "charmant".
Tutto questo succedeva quando il Covid era già tra noi e i negozi, compresi quelli che mi avrebbero dato (forse) della charmant, erano chiusi o stavano per farlo. Idem per i musei, dove ho tentato di candidarmi per fare la sorvegliante (Museumsaufsicht, ricordo ancora la dicitura che inviavo all'AMS nei report periodici sulle mie candidature).
Per fortuna, il sussidio era sempre lì a sostenermi, per cui, tra una foto alle pipe di mio marito e l'altra, ho continuato a tenere duro.
Soprattutto, sono andata avanti con lo studio del tedesco, ottenendo anche il B2 alla vigilia della, credo, seconda ondata viennese e relativo lockdown.
Salto qualche passaggio per arrivare alla prima parte di quest'anno, quando ho conosciuto le altre due consulenti.
Katarzsyna S. è una quarantenne di origine polacca, con occhiali ed espressione bonaria su viso rotondo e fisico solido. La prima volta ci siamo viste su Skype. Non sapendo che cosa aspettarmi, per l'incontro mi ero messa persino il rossetto.
Lei, invece, indossava una felpa oversize, sfoggiando anche una grossa pinza nella quale aveva raccolto i suoi lunghi capelli chiari.
Abbiamo chiacchierato a lungo, mi ha parlato di Freude, gioia, in quello che si fa per campare, di Beruf, lavoro nel senso di professione, mestiere, impiego e Berufung, vocazione, sottolineando quanto sia importante fare qualcosa che ci somigli, come si dice.
Io la guardavo con rispetto, questo sì, ma anche con un pizzico di perplessità, non per le sue belle e rassicuranti parole (intervallate da materni Frau Cicalini, pronunciati sempre con grandi sorrisi), ma per le reali probabilità che dalle sue belle parole la sottoscritta potesse arrivare un giorno ad avere un nuovo lavoro, pagato, ovvio, ma anche foriero di gioia.
Con Kate ci siamo viste online almeno altre due volte. Indimenticabile quella in cui, di ritorno dall'Italia, il Bipede ed io siamo stati accolti dal riscaldamento rotto. In vista del mio appuntamento con lei, mi sono lavata almeno i capelli, scaldando le pentole sul fuoco. A pochi metri da me, dall'altra parte dello schermo del mio computer, stazionava il proprietario intento a discutere con l'idraulico su come rianimare la caldaia defunta (e per fortuna alla fine sostituita con un modello endlich, finalmente, moderno).
Ma dello scrauso ho già parlato, quindi andiamo avanti.
L'ultimo incontro con Kate è avvenuto di persona. Di persona personalmente, avrebbe detto Catarella.
Era fine maggio, la decisione di rimpatriare era già stata presa, ma lei ci ha tenuto comunque a incontrarmi. Ci ha tenuto perché? Forse le ero anche un po' simpatica - con gli estranei faccio spesso la giullare - ma credo che in verità il motivo fosse un altro. Il fatto era che tra le consulenze alle donne disoccupate la sua società prevedeva anche le passeggiate in natura a due, o in gruppo.
Ok, le ho detto via mail, vediamoci pure. Posto prescelto per il Berufungsausflug (me lo sto inventando adesso: vorrebbe dire qualcosa del tipo gita motivazionale) il parco di Schönbrunn, il mio posto del cuore a Vienna.
Mi ha parlato dei suoi nonni polacchi e del fatto che non fossero stati contenti che i genitori la portassero a vivere proprio nella terra dei nemici di un tempo. Kate alla fine si è inserita, ci ha messo un po', ha precisato, ma alla fine di Vienna le piace, le piaceva, la Gemütlichkeit, la tranquillità. Per lei, mi diceva mentre camminavamo, da sempre abituata ad andare a mille (un periodo si era pure lei trasferita all'estero, non mi sovviene dove, forse il Canada), Vienna è insomma un posto dove non c'è alcun motivo per correre. L'ho ascoltata con sincero interesse, anche quando sosteneva che gli italiani fanno più fatica degli stranieri provenienti da altri Stati, a inserirsi in Austria. Un po' come noi polacchi, mi è parso di cogliere tra le righe.
Sia come sia, lieta di come si era svolta la nostra camminata motivazionale, alla fine le ho chiesto se potevamo scambiarci gli indirizzi.
Le ho scritto io pochi giorni dopo per mandarle una foto, poi non ci siamo sentite mai più.
Non importa, è giusto così, però io dovevo mandarle quello scatto così straordinario.
Mentre eravamo intente a vergare i nostri indirizzi sedute su una panchina, a pochi metri da noi gironzolava una volpe, rossiccia e quieta, perfettamente a suo agio tra noi e gli altri umani che passeggiavano per il parco e che naturalmente avevano preso a fotografarla.
Kate, che credeva un po' nello sciamanesimo o in qualcosa del genere, mi ha parlato di quell'incontro tra noi e la bellissima quattrozampe come di un segno. Non saprei dire di che cosa, ma è comunque un ricordo che porterò per sempre con me, insieme con le sue parole sul mio valore. Non dimenticarti mai chi sei e quanto vali, mi ha detto. Grazie ancora, Kate, qualunque cosa tu stia facendo adesso, chissà se davvero sempre a Vienna.
Tolto il momento amarcord, mi tocca arrivare al punto nodale di questo lunghissimo post.
Dicevo che le consulenti che ho conosciuto erano tre.
L'ultima, solo in ordine cronologico, è Bettina H. Se oggi sono qui finalmente a casa mia, lo devo infatti essenzialmente a lei.
Giornalista di formazione e presumo di professione, l'ho scovata scoprendo per caso il progetto di reinserimento al lavoro dei pennivendoli come la me di un tempo, chiamato Ajour.
Finanziato anche questo dall'AMS, ho potuto accedervi sempre perché ho lavorato (come speaker di una radio in store finanziata dal gruppo Rewe) con un contratto superiore a dodici mesi e perché sono munita di una qualifica professionale, che evidentemente riconoscono anche lì.
Per essere inserita nel progetto, ho sostenuto un colloquio con un collega presumo pensionato, un austriaco anziano dal fisico da camminatore di montagna e giacca di tweed marroncina.
Molto simpatico, molto giornalista vecchia scuola, mi ha accolto in una specie di Circolo della stampa non troppo dissimile da quello milanese: ci siamo capiti, avevo in effetti già in testa di rientrare in patria e ho apprezzato tantissimo il tempo passato insieme a spulciare sul web le aziende austriache che hanno contatti con l'Italia.
Salutandoci, mi ha allungato il depliant più dettagliato del progetto Ajour ed io ho notato che tra i loro consulenti c'era anche uno psicologo. "Ci sono molti colleghi che ne hanno bisogno", mi ha spiegato rispondendo a una mia domanda vagamente ironica sulle ragioni che li avessero spinti a prevedere un supporto del genere. Ho smesso immediatamente di fare la stupida, ho ringraziato e mi sono messa in attesa della chiamata della collega che parlava italiano.
"Ha avuto un culo mondiale", mi ha detto questa signora di cui non ricordo più il nome. "Si è liberato un posto con la nostra consulente Bettina H. che potrà seguirla almeno fino a fine giugno".
Ottimo. Conosciamo anche Bettina, mi dico.
Capelli grigi su viso florido, Bettina si è palesata su Zoom un pomeriggio imprecisato tra aprile e maggio, scuro e minaccioso.
Ho sempre avuto un problema di punti luce, in pratica in tutte le case in cui ho abitato. Chissà che cosa avrà pensato di me, Bettina, vedendomi illuminata di giallo itterizia.
Qualunque siano stati i suoi pensieri, mi ha chiesto di descriverle che cosa avessi fatto durante la mia vita lavorativa: è andata abbastanza nello specifico. Mi ha chiesto persino quanti lettori ho su questo blog, un dato che, naturalmente, ignoravo e ignoro tuttora.
Rammento di essermi sentita un po' a disagio: perché insiste così, mi domandavo, perché vuole sapere tutte queste cose?
La mia faccia doveva parlar più chiaro delle mie parole in tedesco, perché a un certo punto Bettina mi ha fatto la domanda delle domande: "Ma tu - perché Bettina mi dava del tu a differenza delle altre due consulenti - dove vuoi vivere: qui o in Italia?".
Risposta secca, dopo una piccola pausa drammatica: "In Italien".
"Allora dobbiamo fare tutto un altro ragionamento", ha considerato lei.
Con Bettina H. abbiamo stabilito il calendario dei successivi incontri, fino all'ultimo di fine giugno, in cui ci siamo viste per un semplice caffè virtuale, dato che a quel punto avevamo ormai già impacchettato tutto.
La seconda volta, invece, Bettina mi ha messo al centro del foglio che vedete sopra.
Alessandra kann, Alessandra può, e mi ha aiutato a tirare fuori una per una le mie competenze e attitudini. Ho conservato quel foglio fino ad oggi perché sapevo che un giorno ci avrei scritto qualcosa.
Chi conosce la lingua non ha bisogno che mi metta lì a tradurne le singole voci, per tutti gli altri posso giusto riassumerne il senso generale.
Alla Obama maniera, anche io, come tutti noi, posso, possiamo, essere protagonisti delle nostre vite.
L'importante è crederci davvero, profondamente. Con fiducia e determinazione.
Perché se non ci crediamo noi, difficilmente ci crederà qualcun altro.
Su questo concetto, all'apparenza banale, ci lavoro tutti i giorni, con una convinzione sempre maggiore, prestando bene attenzione a non intristirmi eccessivamente o, peggio, ad autocommiserarmi.
Allenarsi a credere davvero in se stessi implica anche circondarsi di persone positive, ma imparare a riconoscerle è un'operazione che richiede antenne dritte, molto buonsenso e zero buonismo.
Non vedo l'ora di potervi raccontare gli sviluppi.
Madamatap è tornata. Più Tap e Madama (ho svoltato i 50, non ci posso credere!) che mai.
Ah, dimenticavo: il curriculum che vedete sotto è stato tradotto dalla sottoscritta dal tedesco all'italiano. L'impaginazione è rimasta all'incirca quella che aveva impostato la prima consulente, quella che mi parlava di charmant (Kate aveva provato a sua volta a stilare una seconda versione con un lunghissimo primo foglio di sintesi, ma il suo tentativo non ha entusiasmato Bettina, per cui alla fine l'ho accantonata e mai più ritradotta).
I colori, invece, sono stati aggiunti da Michaela R., una quarta consulente che ho conosciuto ai tempi dei miei corsi di tedesco, una donna dagli occhioni blu alta e longilinea, amante delle passeggiate in bicicletta, che mi ha dato a sua volta ottimi consigli, pratici ma non solo.
Per questo e per molto di più mi sento molto fortunata.
Basterà solo mettersi davvero in gioco e tutto andrà come deve andare. Dateci dentro con segnalazioni di qualità, daje!
E, in ogni caso, bis bald, a presto, e grazie del sostegno.
mercoledì 9 giugno 2021
Il bagaglio di chi torna, carico di esperienze. E di nuove pipe!
Forse dovrei scrivere questo post a vaccinazione avvenuta. Mi ero per la verità prenotata qui a Vienna in tempi non sospetti, tipo ad aprile, su suggerimento dei miei contatti austro/italiani che mi avevano assicurato la celerità della procedura. E invece. Invece ciccia: non mi hanno chiamata e a questo punto non mi resta che attendere... il rimpatrio definitivo!
Ebbene sì, amiche e amici: Madamatap e la sua sosia umana, con consorte e felini, se ne tornano a casa presto. Molto presto.
Il bagaglio di esperienze accumulate in questi lunghissimi e insieme cortissimi tre anni è enorme.
Sono sicura che non li dimenticheremo mai.
Torniamo, tuttavia, al Covid e a tutto quello che ha portato con sé.
Penso in particolare alla rinata vena artistica della sottoscritta (credeteci: parlo seriamente. Ma molto seriamente) che ha trovato la sua massima espressione nella mostra virtuale Die Corona - Pfeifen. Ve la ricordate tutti, no? Come dimenticarla.
Ebbene. Non ce l'ho fatta a smettere: ho dovuto per forza (me l'ha richiesto, capite, l'Arte, con la A maiuscola) aggiungere un'appendice o, se vogliamo, un epilogo trionfale che rappresentasse insieme l'uscita (SI SPERA) definitiva dalla pandemia e il rientro (ah, che sollievo) in patria.
La struttura di quest'appendice finale, composta di sole due sezioni, è identica.
Bando, dunque, alle ciance. Squillino le trombe, rullino i tamburi...
Signore e Signori, sehr geehrte Damen und Herren! Ecco a voi...
die Corona - Pfeifen Special Edition! Viel Spaß (buon divertimento)!
Dosen (Lattine)
Blumen (Fiori)
Come nella serie originaria dell'imperdibile esposizione, anche gli scatti delle sezioni conclusive sono stati tutti pubblicati originariamente sul mio stato WhatsApp.
Stavolta il bipede fumatore di pipa ha avuto un ruolo meno attivo, soprattutto nella seconda delle due, nata, diciamo così, un po' casualmente da un bocciolo reciso dai dentini aguzzi della nostra sterminatrice di fiori, altrimenti nota come gatta Bice.
Eppure, come sempre accade, dietro la mano di una grande artista (un tempo lo si sarebbe declinato al maschile. E che ci volete fare: i tempi sono cambiati), si nasconde sempre un grande uomo.
Grande (benché smilzo. Anzi: Smilzo) e rassegnato ad assecondare la pazzie della rompiballe che gli sta affianco.
Perché lo scrivo? Tra le altre ragioni, perché a lui è toccato andare a ripescare lo scatto che immortala la sottoscritta nella seguente plastica posa, suggello definitivo dell'esposizione maggiore:
Notate il calzino bianco, vero must - have della quarantena 2020, quella durante la quale era vietatissimo, oltre che pericolosissimo, mettere il naso fuori casa, figuriamoci indossare abiti più decorosi.
Permettetemi, in definitiva, un piccolo momento di amarcord per quei giorni andati, quando si cantava su balconi e terrazzi e si disegnavano arcobaleni.
Alles wird gut, dicevano da queste parti. Andrà tutto bene, scrivevate voi al di là delle Alpi.
Sapete che vi dico?
Tolta ogni ironia, abbiamo fatto bene a pensarlo e a dirlo a voce alta.
Abbiamo fatto bene ad immaginare il giorno in cui, davvero, tutto sarebbe andato meglio.
Questo ho imparato qui a Vienna.
Bisogna dirselo e dirlo anche agli altri. E scriverlo. E ribadirlo.
Andrà tutto bene. Sempre.
Qualunque cosa accada e accadrà, siamo vivi. Ed è bellissimo poter sperare ancora, per noi e per chi ci ha lasciato, ma continua a credere in noi. E ce lo fa sentire, nei fiori, nella pioggia, nelle lacrime, nelle risate, negli incontri e nelle parole che non ci aspettiamo.
Avete tirato fuori i fazzoletti?
Ma no, ma non è il caso.
Godetevi ancora un momento la straordinaria mostra e dopo...
arrivederci in spiaggia!
domenica 9 maggio 2021
Risvegliarsi e tornare, rinascendo ancora. Tanti auguri, mamma
Ricordo di averne parlato su Facebook, una volta. Anzi: devo averlo fatto direttamente poche ore dopo la scoperta, conoscendomi. In fondo, mi piace condividere le belle notizie, come si dice in gergo social #cosebelle. Chissà se esiste davvero quest'hashtag o se me lo sono solo sognato.
lunedì 19 aprile 2021
Le rose di Vienna e il Venerdì Santo a Chieti: eterni come i nostri ricordi
Fino a pochi anni fa non avrei mai creduto possibile saltare un Venerdì Santo a Chieti. Ho ancora ben impresso nella memoria quell'anno in cui ho scattato le foto alla Processione, su incoraggiamento del Fotoclub, dove stavo frequentando un corso.
sabato 20 marzo 2021
Stop scrauso, un round dopo l'altro, fino alla vittoria finale
Ci siamo portati dietro dalla casa di Fermo questa lavagnetta. Non ricordo più dove l'avevamo comprata. Forse nel negozio di casalinghi economici dove siamo tornati qualche giorno fa.
Pensavo, pensavamo tutti e due, che l'avessero chiuso. Sono anni che tappezzano la grande vetrina dell'ingresso con avvisi di svendite finali. Accorrete, gente, diamo tutto via a meno di niente.
E invece no. Era ancora là, con quegli articoli mezzo cinesi mezzo sovietici, tra i quali ogni tanto si nasconde qualche perla preziosa.
La lavagnetta era comprensiva di gessetti. Di questi, nell'appartamento marino, il nostro amato appartamento marino, non c'era più traccia.
Scomparso anche l'orologio a muro della cucina, comprato, questo sì, in un negozio di casalinghi più grazioso, pieno anch'esso, naturalmente, di articoli economici, ma almeno dal design più accattivante.
Molto probabilmente gessetti & orologio sono volati via verso qualche altra abitazione oppure, molto semplicemente, sono finiti nella spazzatura.
Mi domando però che persone abbiano, davvero, vissuto a casa nostra. Chissà che cosa passava per la testa del bambino che ha scritto i nomi di tutti i membri della famiglia con uno dei gessetti svaniti nel nulla. Chissà da quando era lì, quella scritta, se addirittura da febbraio dell'anno scorso, quando sono entrati, felici, credo, almeno all'inizio, di aver trovato un nuovo alloggio.
Nel tempo, le cose devono essere peggiorate, e pure parecchio. L'unico a non aver troppo risentito della crisi portata dal Covid, è stato, credo, il cane, un pitbull pare. Chissà quanto si deve essere divertito a grattare una delle porte, da entrambi i lati, poi.
E dire che i precedenti proprietari ci tenevano assai, a quelle porte: ricordo con quale orgoglio il vecchio postino, famoso in tutta la piccola cittadina adriatica, me le aveva mostrate, con quei vetri smerigliati e le decorazioni in rilievo colorate.
Ho fatto del mio meglio per pulirle. In generale, ho fatto del mio meglio per ridare alla casa un aspetto dignitoso.
Mi sforzo di trovare i lati positivi, l'ho sempre fatto, praticamente. Amavo molto la storia di Pollyanna, la piccola orfanella che aveva imparato a sorridere della vita, facendo il suo "gioco della felicità".
A pensarci adesso, mi sono spesso piaciute storie così, sono cresciuta, come molte altre bambine della mia generazione, con storie così. Amavo molto anche Il giardino segreto, forse, anzi, mi piaceva anche di più di Pollyanna. Trovavo bellissimo che questo ragazzino rifiorisse alla vita curando il "suo" giardino.
Avevo trovato anch'io, il mio giardino.
Era la mia casa marina, in un paese tanto anonimo quanto prezioso. Per me, solo per me. Mi sono innamorata di quel posto, Porto San Giorgio, ancora prima di andarci a vivere. Non so spiegare bene il perché, ne parlavo con un'amica con cui ho camminato con grande piacere sul lungomare, comunque solo lì, tolta la casa dei miei genitori, mi sento davvero bene.
Per questo, e non solo per questo, mi ha fatto molto male vedere l'appartamento in quelle condizioni, le lampadine fulminate o assenti, piena di rozze scarpe tacco 12 che però non ho avuto il coraggio di gettare direttamente in discarica (le ho infilate in quei contenitori per i poveri: chissà chi finirà per indossarle. Forse è meglio non saperlo).
Non ho buttato neanche i "Diari di una schiappa" del ragazzino che ha giocato sulla mia scrivania da bambino, macchiandola di colla o qualche altro materiale che non se ne va più. La prossima volta che torno li porto alla scuola elementare vicina: almeno potranno rivivere, come il giardino del romanzo.
Rivivere, ecco, ai mobili di mia nonna avevo dato questa possibilità, portandoli prima nella casa-torre, in cima alla collina del Girfalco, e poi nel mio appartamento, comprato con tanta fatica e gioia.
Al posto del letto in legno chiaro, l'inquilina mi aveva lasciato il suo, laccato bianco. Le avevo dato il permesso io, ignara del fatto che mi sarebbe toccato smaltire diversi pezzi di mobili smontati, più una rete matrimoniale e un'altra singola richiudibile.
Praticamente un magazzino. Un magazzino malmesso, le tapparelle lasciate su, alcuni vestiti e una vecchia gomma da masticare (non ancora mangiata, per fortuna) giù, sulla coperta del mio letto. E dire che nella telefonata di commiato la giovane non so quanto inconsapevole distruttrice mi ha detto che ci teneva a restituirmi la casa come gliel'avevo consegnata, piuttosto trepidante, tredici mesi fa.
A pensarci bene ora, solo il tavolo da sei di legno scuro, solido e indistruttibile, mi ha trasmesso un segno di speranza. Da quel tavolo bisognava ripartire. Lì abbiamo fatto colazione, contrariamente alle nostre abitudini di un tempo, per diversi giorni.
Andarsene via è stato triste, ma mi sentivo carica, ricaricata, e pronta ad affrontare una nuova fase, non so quanto lunga, qui in terra asburgica, dove ci aspettavano i gatti. Il gioco della felicità mi diceva che, sì, ero, sono stata fortunata, perché almeno adesso ho riavuto il mio luogo del cuore, chiuso e sbarrato in attesa del nostro rientro. Ma la mia vita, la nostra vita, al momento, è in questa fredda città del Nord Europa. Fredda, meteorologicamente parlando soprattutto, e non solo.
Amici e parenti (alcuni) ci dicono di resistere e il loro sostegno mi aiuta. Persino il mio dolce padre mi manda messaggi d'incoraggiamento, a dirla tutta un po' formali, ma teneri come solo un vecchio schivo come lui potrebbe scrivere.
Durante le quattordici di ore di viaggio, però, ho avvertito una fastidiosa incrinatura.
Mentre ascoltavo Mark Knopfler, e i suoi vecchi album dei vecchissimi tempi, mi è comparso sul cellulare il nome della mia proprietaria. Tuffo al cuore. Oddio, è successo qualcosa ai gatti. A lei ne avevo affidato la cura, ben sapendo che sarebbe stata in grado di occuparsene, vivendo al piano sopra il nostro e avendone anche lei due.
Kein Problem mit den Katzen, nein.
Il problema era un altro. Anzi, è un altro.
Caldaien rotten, ja. Fino a mercoledì prossimo (si spera non oltre) no acqua calda no riscaldamento.
Queste cose succedono, lo so. Anche a Milano rimasi due settimane nelle medesime condizioni.
La proprietaria, peraltro, ci ha anche procurato una stufa, un madonno pesantissimo, come piace tanto ai popoli nordici, che però la sua sporca funzione la fa.
Il problema è un altro, dicevo.
Il problema è lo scrauso.
Was ist scrauso?, mi ha chiesto un'amica austriaca che parla bene l'italiano.
Parafrasarlo significa togliergli la scorza onomatopeica, così essenziale in tutte le lingue del mondo, persino in tedesco. Sì, sì, amici, è così: non faccio ironia in questo momento.
Tornando allo scrauso, insomma, è una parola che incarna alla perfezione il fantasma, molto materiale, contro cui ho ingaggiato la mia personale battaglia.
Di più: lo scrauso è il nemico da sconfiggere assolutamente e in maniera definitiva. Non di battaglia si tratta, allora, ma di guerra.
Stop scrauso, stop scrauso, stop scrauso... Me lo ripeto come un mantra tutti i giorni, per vari minuti di seguito. Davvero.
E che cosa succede? Sentendo di essere in pericolo, lo scrauso, come qualsiasi altra creatura viva, si ribella. E mena pugni, buttandomi giù.
Io però non ci sto a restare a terra, mentre parte il countdown, e, in genere, a - 8 sono già in piedi. A Porto San Giorgio credo di essermi rialzata un po' dopo, forse a - 5, ma ce l'ho fatta e ho ripreso a recitare la mia preghiera. Hop hop hop, stop scrauso, stop scrauso, STOP. Rieccomi qua, barcollante ma in piedi. Tiè.
Fine ennesimo round.
Dopo il break, sono arrivata qui, consapevole di trovarmi all'inizio di un round ancora più duro.
E infatti. Banghete. Con meno tre gradi nel luogo in cui si depositano i bisogni primari, obiettivamente, la botta mi ha lasciato senza fiato.
Dieci, nove, otto, sette, sei, cinque, quattro... Non ci provare. Non mi avrai, scrauso, NON MI AVRAI.
Prima del colloquio con la consulente del lavoro su skype, perciò, ho scaldato due pentole d'acqua e mi sono lavata pure i capelli.
Non so come ho fatto, ma ho riso con la tizia e l'ho anche fatta ridere più di una volta. Mi sorprendo ancora quando capitano cose così, ma ormai dovrei saperlo: con gli sconosciuti riesco a simulare bene la fatica che faccio per respingere lo scrauso. Forse, anzi, la leggera agitazione che lascio trasparire fa anche personaggio. Mi dà quella spolverata buffoncella bastevole a dare l'impressione di essere una personcina a modo.
Sarà il tempo a dire se il nuovo curriculum, preceduto da un Kurzprofil (un profilo in breve) in cui metto in luce il mio amore per la scrittura, la fotografia e la mia predisposizione a dare fiducia alle persone (anche a quelle che ti sfasciano casa) servirà davvero nel mondo del lavoro austriaco.
Mi ha fatto piacere, certo, che la consulente, alla fine della nostra chiacchierata, mentre in cucina il proprietario e lo spazzacamino pianificavano l'eutanasia per la caldaia, abbia detto che il mio curriculum farà sicuramente un'ottima impressione, adesso che l'abbiamo riscritto un'altra volta.
Ha usato anche una metafora lusinghiera su come le sono apparsa: una specie di fiore all'apparenza compatto, in verità composto di tanti petali, uno dentro l'altro. O qualcosa del genere.
Di là si combatteva per me, per qualche minuto almeno, contro lo scrauso, e di qua, dentro allo schermo, una donna pressoché sconosciuta faceva altrettanto, rassicurandomi.
Da questi segnali capisco che non devo mollare. Lo so che è così.
E infatti non lo farò. Non è possibile che io molli.
La guerra è fatta anche di momenti di riposo. Le ferite hanno bisogno di qualche giorno per risanarsi. Solo in casi di urgenza si compie lo sforzo estremo di rialzarsi per assestare qualche pugno come si può, pur di sopravvivere.
Oggi non è uno di quei giorni. Ne ho vissuto qualcuno così in diversi momenti dei miei quasi primi 50 anni. Ne vivrò anche altri, di sicuro.
Oggi è il giorno del silenzio. Domani, dopodomani, bisognerà gettare un nuovo piano d'azione, avendo però sempre chiara la strategia di fondo.
Solo così lo scrauso sparirà.
A voi faccio quest'unica seguente preghiera, in vista degli imminenti Europei di lotta allo scrauso che mi accingo a combattere: credete in me, fate il tifo per me, fate la ola per me. E ripetete con me, se possibile a squarciagola, mentre assesto colpi definitivi:
Stop scrauso, stop scrauso, stop scrauso...
domenica 28 febbraio 2021
Le donne, il lavoro e la gioia di fare ciò che ci piace