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mercoledì 2 dicembre 2020

Un matrimonio riuscito


Non se n'era mai andato, ma è da qualche giorno che ne avverto la presenza nitidamente. 

Sto parlando del volto di mia madre, ma non solo di quello.

La vedo a figura intera, in alcune sue pose tipiche.

La sera dopo cena spesso la trovavo seduta in cucina nel suo modo bizzarro. Poggiava le ginocchia sulla sedia, sempre la stessa, dal lato dei fornelli, e i gomiti sulla tavola. A volte si teneva il mento tra le mani, altre volte sfogliava i giornali del mattino in quella posizione, come se volesse dominarli dall'alto con il suo busto, avvolta nella vestaglia, lunga e materna. 

La schiena la teneva piuttosto piatta, vagamente inarcata all'indentro, come quando si fanno certi esercizi di ginnastica. Nelle sere d'inverno, quella posa piaceva moltissimo a Sancio e Stino, i due gattoni di casa.

Non di rado se li ritrovava addosso, un peso enorme, tutto considerato, per il quale, chiamandomi a gran voce, rideva fingendo sconforto. 

Sono sicura di avere una foto in cui l'ho ritratta così, con quei due vitelli a pesarle sulla bella schiena di mamma.

Aveva anche un'altra postura stravagante, che poi le ho rubato. Seduta al solito posto, girava la sedia verso la televisione e, per guardarla, poggiava i piedi sulla sediolina impagliata della nonna. Per la precisione, di solito li infilava sul sostegno orizzontale delle piccole gambe di legno. Non sia mai che dovesse rilassarsi del tutto.  

La schiena, però, le si piegava un po' in avanti, soprattutto quando poggiava i gomiti sulle ginocchia e si teneva, stavolta sì, il mento tra le mani. A pensarci adesso, in quei momenti sembrava più vecchia di come fosse in realtà.

E d'altra parte, non ho mai ben capito perché, nonostante avesse sonno, amava restarsene lì in cucina fino a tardi, spesso fino a dopo mezzanotte, la porta della cucina accostata per trattenere ancora un po' il calore dei termosifoni ormai spenti e forse per non disturbare mio padre e, quando c'ero, anche me.

Dopo aver chiuso la tv in sala, prima di andare a letto passavo dalla cucina per salutarla, spesso le davo proprio il bacio della buonanotte, anche da grande.

Una volta, però, mi ha scioccato.

Mia nonna, sua madre, era morta da pochi giorni e lei era davvero a pezzi. 

Io ero appena uscita per sempre dal liceo: negli ultimi due anni avevo dormito spesso dalla nonna, via via che la sua salute si faceva più precaria. 

In genere andavo da lei volentieri: mi piaceva il latte bollente (mi pelavo proprio la lingua) con il Nesquik e i biscotti Atene Doria (sempre quelli) che la nonna mi faceva trovare tutte le mattine nel soggiorno, dopo aver lasciato la tazza sulla stufa a gas, per tenermela meglio in caldo.

Ricordo il tratto in macchina che separava il nostro appartamento dalla sua grande casa. Partivamo dopo cena, mentre guidava la mamma mi dava spesso una breve carezza sul ginocchio sinistro, quello più vicino al cambio. Poi arrivavo dalla nonna e aprivo io con le chiavi: lei mi salutava dal letto, gli occhiali sulla punta del grande naso. 

Tutto questo, dicevo, un giorno d'estate è finito e forse me ne sento ancora un po' in colpa. 

Gli esami si avvicinavano e io avevo bisogno di concentrarmi. Ho espresso questo mio desiderio probabilmente a entrambi i genitori, con la mia proverbiale veemenza. Oppure, chissà, quella volta la veemenza ce l'ha messa mio padre, sempre così pronto a farsi in quattro per le sue bambine.

Come sia andata, insomma, non lo ricordo più. So solo che quello è stato uno dei rari casi in cui ho visto mio padre alzare la voce con mia madre. Pareva proprio l'avvocato della pubblica accusa durante l'arringa finale, la mamma la controparte messa rabbiosamente nell'angolo.

La nonna, però, stava male davvero e, a posteriori, capisco quanto mia madre, sua figlia, dovesse essere preoccupata. Come posso lasciarla da sola?, si sarà detta, Chi veglierà su di lei durante la notte? Alla fine la scelta è ricaduta su mia sorella, tornata da Roma, dove frequentava l'università, non so bene se richiamata apposta o perché in pausa tra un esame e l'altro. 

Proprio a mia sorella è toccato effettivamente soccorrere la nonna nei drammatici momenti finali. Quattro giorni dopo il mio esame orale, ci ha lasciato. Eravamo annichiliti. Il voto finale, per me, alla fine, non è contato più nulla.

Molto più importante, era invece riuscire a trovare un modo per stare vicino alla mamma, affranta come mai l'avevo vista.

Non potevo sopportare che soffrisse, è stato così anche molti anni dopo, quando si è ammalata. Solo in un'altra circostanza, qualche tempo prima, l'avevo trovata distesa sul divano della sala, senza forze. Chissà se aveva l'influenza o se era solo un ciclo particolarmente doloroso, fatto sta che io ero nel panico. 

Ricordo di averla quasi sgridata: "Dai, su, alzati!", penso di averle detto e lei mi ha sorriso debolmente e mi ha risposto, qualcosa del tipo: "Sì, sì, domani sto meglio". Chissà se lo pensava davvero o se voleva solo rassicurarmi.

Stavolta la sua infelicità aveva un'origine diversa, non sapevo proprio come maneggiarla. Gli strepiti non sarebbero serviti e nemmeno altre lacrime.

Però una sera sono entrata comunque in cucina per il solito saluto della buonanotte. La mamma non piangeva più. Seduta davanti alla tv con i piedi sulla seggiolina, aveva la fronte corrugata di chi già da minuti stava rimuginando su un pensiero preciso e sgradevole. 

Con una certa cautela mi sono avvicinata a lei, l'ho abbracciata e discretamente l'ho baciata sulla guancia magra.

Stavo quasi per allontanarmi quando l'ho sentita dire: "Voglio il divorzio".

Rammento di essere rimasta lì accanto a lei qualche istante, atterrita. Ma come? Ma perché? Papà aveva sbagliato, certo, o comunque non aveva capito la gravità della situazione, d'accordo, ma addirittura il divorzio. E io? E noi? Possibile che tutto dovesse finire così?

L'episodio mi è tornato in mente ieri, sentendo la rassegna stampa mattutina sulla radio, un'abitudine di famiglia ereditata dal nonno paterno che non ho mai più perso.

Fino a poco tempo fa anche mio padre la ascoltava sempre, non di rado a un volume piuttosto alto, negli anni più recenti, da suo lettone di vedovo. 

La mamma no, la mamma guardava la televisione, non rammento di averla mai vista armeggiare con manopole e frequenze. Se fosse stata ancora tra noi, forse avrebbe visto in tv qualche servizio sui cinquant'anni dalla legge sul divorzio, l'anno in cui era incinta di me.

Chissà che cosa ne pensava ai tempi, chissà che cosa ha votato, quattro anni dopo, al referendum. 

Di nostro padre parlava di tanto in tanto come di un uomo bravo, intelligente e serio, lodandolo particolarmente per le sue qualità di padre. "Quello che dite voi, per vostro padre, è legge", asseriva. Di solito tirava fuori questo discorso mentre era impegnata in qualche attività domestica, nello specifico mentre spazzava, ed io, a volte vagamente annoiata, ma in verità registrando ogni sua parola, l'ascoltavo dal piccolo divano dello studio, con un libro in grembo.  

A sentirla parlare, insomma, il suo era un matrimonio riuscito, anche se ripetutamente a me e mia sorella ha detto che il vero collante che tiene in piedi qualsiasi unione, all'epoca sua come ai tempi in cui abbiamo messo famiglia noi figlie, è la donna.

Credo, sinceramente, che avesse ragione, anche se, almeno lei, ha lasciato che nostro padre gestisse i conti e altre attività storicamente considerate maschili, mentre lei, pur lavorando, ha voluto mantenere il controllo della casa e della nostra educazione affettiva. Per quella intellettiva, da un certo momento in poi, ci ha pensato invece papà, spinto dal grande desiderio di farci studiare, un'attività per la quale lui stesso era molto portato, come ribadiva sempre la mamma.

E dire che lei ha insegnato, aiutando a crescere generazioni di bambini, con una passione pura e vitale, che oserei definire violenta, in certi istanti. La mamma non amava le mezze misure, anche se all'esterno, soprattutto negli anni più maturi, fingeva una pacatezza per la quale spesso l'ho presa in giro.

Se non fosse stata così, così passionale e assoluta, intendo, non avrebbe detto mai quella frase, davanti a me diciannovenne, intontita e sognatrice com'ero.

A pensarci adesso, in queste ore in cui mi appare davanti con i gatti sulla schiena e gli occhi che le si chiudono dal sonno, sono contenta di aver vissuto quel momento. Quello squarcio di verità di donna offesa, ancora giovane, ancora forte e in grado di conquistare tutti, donne e uomini, con la sua bella figura e la sua autorevolezza.  

Chissà come hanno fatto pace, chissà se papà le ha chiesto scusa, chissà in che modo l'avrà fatto, considerando la sua dolce goffaggine di uomo poco abituato alle smancerie. 

In ogni caso sono rimasti insieme fino alla fine, ma temo che non sapremo mai quanto sia stata dura, per papà, vederla andarsene giorno dopo giorno.

Non ho mai pensato davvero che avrebbero divorziato, mai più, almeno, dopo quella volta. 

Non so che cosa avrei fatto né come sarebbe stata la mia vita se fossi stata figlia di genitori separati. So invece com'è stato essere una figlia amata, una figlia che ha fatto fatica a crescere e che oggi fa fatica ad invecchiare.

Sono però grata a tutti e due per come erano e come saranno per sempre, diversamente ansiosi, ugualmente pratici, leggeri, pesanti, attenti.

Grazie, mamma, per essere sempre con me, con noi. Ti aspetto presto, davanti a me, dentro di me. Intorno a me.

E tu, papà, resisti. Pure io lo farò. Per te e per me. 

mercoledì 6 giugno 2018

Always on my mind


Bettye Lavette ha cambiato le parole di questa canzone di Bob Dylan quel tanto che basta per renderla perfetta. Per me e per te.
Che resterai per sempre dentro di me.

Te la dedico con tutta me stessa, idealmente con la stessa forza con cui la canta questa leonessa della musica, capace di farti sentire tutta la malinconia che non passa per l'assenza di qualcuno che non rivedremo mai più.

Domani saranno passati quattro anni da quel momento in cui qualcuno ha sollevato le tue palpebre per vedere un'ultima volta i tuoi occhi blu.

Come dice lei, pure io quando mi guardo allo specchio ti trovo nel mio riflesso, anche se non ci somigliamo come tutti dicono, se non nei colori, che sono decisamente i tuoi.

You are always on my mind. 

Mamma.

giovedì 22 febbraio 2018

Ho ancora bisogno di te


Dovrei alzarmi da questa sedia e andare a fare qualcosa di pratico, ma sono giorni e giorni che ho davanti questa fotografia, ri-fotografata l'ultima domenica dello scorso gennaio, al termine di un pranzo di famiglia che ho voluto strappare alla routine degli spostamenti da e verso Chieti in solitaria, quelli fatti, voglio dire, da mia sorella e da me per dare il giorno di riposo alla tizia che dorme da nostro padre.

Eravamo davanti al Campidoglio, in abiti eleganti come si conviene alla mamma e alla sorella della sposa. Ricordo molte cose di quella giornata e anche di quella seguente, compresi alcuni piccoli incidenti frutto dell'emozione collettiva (e del maltempo: quanta pioggia!).

La osservo spesso quando vado giù, come faccio, d'altra parte, anche con le altre fotografie appese alle pareti da lei, nostra, mia madre.

Le piaceva radunarle in piccoli collage corredati di didascalie scritte a penna che man mano vanno sbiadendosi. 
Negli anni era diventata più palesemente sentimentale, anche se manteneva comunque un certo contegno, tipico di chi non gradisce troppo le smancerie.

Eppure amava riceverne o almeno io ricordo diverse occasioni in cui si è mostrata offesa per la mancanza di tatto, vera o presunta, degli altri. 
Permalosa? Forse sì, lo era, ma vere ferite non credo ne abbia ricevute. 
Qualche delusione gliel'abbiamo data (io di sicuro), ma il legame tra noi non si è mai spezzato e credo l'abbia sentito (almeno lo spero) fino alla fine.

Comunque, tornando alla fotografia, mi piace molto l'espressione che abbiamo entrambe.
Il suo sorriso è aperto e accogliente (credo dipenda dall'autore dello scatto, mio marito, presumo, verso cui mia madre ha mostrato, diciamo quasi da subito, grande simpatia).
Io, invece, non mostro i denti, come faccio nelle foto non forzate.

Mi limito a sorridere, appoggiandomi leggermente a lei, la mia forza, il mio bastone. Anche in senso negativo.
Non c'è stata mai nessuna persona capace di farmi sentire piccola e insignificante più di mia madre.
Che, al contrario di quanto possiate pensare in questo momento, mi riempiva spesso di complimenti, soprattutto per il mio aspetto e per la mia natura "fragile e forte", come mi scrisse in una lettera.

In quel periodo litigavamo per le mie scelte professionali, ma lì, in quello scatto, mi accorgo che non ve ne fosse minima traccia. Il bene che ci volevamo andava oltre la ragione, i progetti e gli errori che pure sono seguiti.

In quella foto sono solo la figlia, la sua Sandrina così confusa e dolce, la sorellina orgogliosa che gioca a fare la donna, ma che in realtà ha ancora bisogno di affetto e di supporto.

Ne ho bisogno ancora oggi, ma quello sguardo lì non c'è più né potrà più esserci. 

Sono stata fortunata, però.
Non tutti sono amati dai genitori, dalle madri, poi.

Avrei voluto avere più tempo per farmi vedere come sono oggi, con le pezze al culo più del solito,  un po' smagrita, ma con la testa assai più sgombra dalle inutilità.

Chissà che faccia avremmo avuto se avessero potuto fotografarci insieme a una festa, o magari durante un viaggio, uno dei molti che lei avrebbe voluto fare e che molto vorrei fare anch'io prima che sia troppo tardi.

Eppure io sento che c'è e che mi segue. Ogni tanto mi viene a trovare in sogno e in genere è energica come lo è stata da viva. 

Che mi stia dicendo ancora di non mollare?
Ma io non mollo, cara mamma, stai tranquilla. Non è facile, no, anzi: è durissima, ma sento di essere a un passo dal decollo, e stavolta non è un'illusione delle mie, perché di illusioni non ne ho più.

Aiutami a restare concreta e insieme a non avere paura. 
Fammi sentire che posso ancora appoggiare la mia spalla alla tua e sorridere lievemente, come in quella foto.

E non andartene, non ancora, almeno.

C'è molto bisogno di te, quaggiù.
Io, figlia a metà, ho ancora molto bisogno di te.


mercoledì 7 giugno 2017

Ti aspetto nei miei sogni

Tre anni fa, più o meno a quest'ora, mia mamma se n'è andata. Ho sempre il timore (e il terrore) di scadere nella retorica, per cui perdonatemi se non scriverò molto di più su quel momento.
Erano però vari giorni che pensavo di buttare giù qualche riga, partendo dal presente.

In tre anni la mia vita è cambiata quasi totalmente.
Ho la sensazione che mi si sia seccato il cuore, da una parte; dall'altra, di aver sgombrato la mia pur sempre confusionaria e velleitaria testa da un mucchio di ciarpame.

Come vorrei dirlo a lei, che pure, se lo sapesse, mi guarderebbe ancora con un misto di amore e scetticismo.
Quante volte ci siamo ritrovate in cucina, io seduta nella sedia di lato alla credenza, lei su quella che ora uso sempre io quando resto lì a guardare la tv la sera, spesso anche quando papà se ne va a letto.
Prima non vedevo l'ora che quest'ultimo sgomberasse per potermi piazzare sul divano a fare zapping sul mega-schermo (pure negli anni Ottanta il salotto era il luogo deputato all'apparecchio più grande).

Di ritorno dall'università mi fermavo a lungo, di solito dopo pranzo, a raccontarle i fatti rilevanti dei giorni passati lontano da lei. Qualche volta scendevo pure più sul personale, come quella volta - ce l'ho davanti ancora chiaramente - in cui le ho svelato di essermi fidanzata.

Conoscendola, doveva impazzire di gelosia e di rabbia: "chi sarà mai quest'ennesimo scansafatiche?" Di certo si augurava solo che non facessi qualche leggerezza, anche se, sul fronte sesso, in verità, sapeva essere piuttosto esplicita. "Guai a voi se fate la pizza". O qualcosa del genere, di solito riferito a qualche figlia di sedicente amica di collega, che, per l'appunto, l'aveva fatta e addio scuola e altri progetti.

Voleva proteggermi dall'amore, una parola così abusata la maggior parte delle volte in cui la si associa al rapporto sentimentale.

Lo sapete: non sono madre, per cui quella roba strappa-budella che ti succhia sangue ed energia da dentro la conosco solo per sentito dire.

So però che in molti casi aveva ragione lei: non c'è quasi nessun legame che duri per sempre, ma quando ne incontri qualcuno che vale la pena alimentare e far fiorire non c'è genitore che ti possa trattenere.

Mi dispiace di averlo capito troppo tardi, cioè di non averglielo potuto dire. Ma forse non avrei dovuto usare le parole: mi avrebbe sgamata guardandomi in faccia.

Per amare bisogna avere rispetto di sé, curarsi profondamente, ascoltarsi davvero.
Tu hai saputo amare me e Linda perché ci hai saputo parlare a volte con brutalità elefantiaca, ma insieme con rispetto.

"Sembri proprio una giornalista", commentavi leggendo qualche boiata che vi costringevo a sciropparvi. Mi è sempre piaciuto questo sano ridimensionamento del narcisismo da prima della classe e anche se faccio tuttora quotidianamente i conti la mia scarsa soddisfazione professionale, so che quella è l'unica strada per diventare persone equilibrate.

E' insomma come se, perdendoti, tu ti fossi installata stabilmente dentro di me aiutandomi quasi minuto per minuto a non sprecare energie in operazioni fallimentari, in relazioni inutili e altre cretinerie.

Non ho ancora la forza che hai dimostrato tu nell'ultima fase della tua vita né so nulla di quasi nulla su perché diavolo di ragione io sia piombata sulla terra.

So di più sulla fragilità umana, anche sulla tua e, se possibile, mi manchi ancora di più anche per questo. So pure che le lacrime non vanno sparse al vento come gocce di caligine.
Quando piangerò di nuovo, sul serio, sarò da sola: quelle lacrimucce di commozione che facevo fatica a mostrare da adolescente e che, invece, ogni tanto spuntano fuori adesso che mi avvio ai cinquanta, non sono altro che piccole melensaggini.

Dentro, sono un gigante, cara mamma, ma sto ancora crescendo, le articolazioni scricchiolano per questo (sì, come no).

Mi sono accorta di essere passata dalla terza persona al tu, parlando di lei. Parlando di te.

Perdonami per non aver capito tutto il dolore che provavi mentre te ne andavi. Per aver avuto così tanta paura della vita per lunghi, lunghissimi anni, da seguire alla lettera le tue raccomandazioni maternamente rigide anche quando non sarebbe stato necessario.

La verità è che io non ero in grado di amarti come tu hai fatto con me, ora lo so.

L'amore non si sceglie, l'amore arriva e basta, come io (e mia sorella) siamo arrivate da te.

Non so come chiudere: la banalità chiama.

Ti aspetto nei miei sogni.

domenica 14 maggio 2017

Auguri, mamme (e in bocca al lupo alla mia bouganville)



Ho comprato una bouganville ad albero al mercato dei fiori: è stata l'unica pianta che mi ha attratto su tutte quelle che ho visto, anche se davvero non ho idea se sarò in grado di farla sopravvivere. La vera minaccia è, oltre alla mia scarsa propensione per il giardinaggio, la gatta grigia, che ama spezzare i boccioli dei garofani (per il momento messi al riparo dai suoi dannati canini sull'altro balcone).
Staremo a vedere. Il motivo per cui ho scelto proprio questa graziosa piantina è molto infantile: si chiama come me, con una x al posto delle due s. Cercando una foto per questo post, ho letto giusto ora qualche consiglio per coltivarla. La vedo dura.

Non sto scrivendo, per la verità, solo per aggiornarvi sui miei propositi green, ma anche perché domani è un giorno che in altri tempi mi avrebbe messo allegria.
Non riuscivo a guardare tutti quei cuori e quei cartelli che richiamavano la festa mobile dedicata alla mamma.

Nei giorni scorsi ho parlato con otto diverse madri di bambini e ragazzi di età ed esperienze diverse. Il risultato uscirà domani (ormai oggi) sul quotidiano per cui collaboro, ma quello che non ci sarà è proprio l'effetto che hanno prodotto su di me, che mamma non sono, le loro parole e i loro sguardi.

Avevo fatto un lavoro simile per i papà, ma in questo caso sapevo già prima di buttarmi a capofitto nell'organizzazione di un incontro dopo l'altro (faticosissimo incastrarsi con gli orari contingentati delle mamme!) che ne sarei riemersa un po' cambiata

E se sento di non essere più esattamente la stessa di prima già al solo ascolto delle loro profonde trasformazioni, figuriamoci che cosa mi sarebbe successo se l'avessi provato anch'io personalmente.

Ve lo posso dire, non me ne vergogno: le donne che hanno il coraggio di fare figli sono imbattibili. Certo, esistono casi difficili, orribili addirittura, ma se non si è psicopatiche o particolarmente in bolletta oppure - certo - impossibilitate per motivi di salute, dalla maternità si ha solo da guadagnare.

Attenzione, però. Il miglioramento personale che ne viene fuori può essere pure totalizzante e determinare la fine di ogni romanticismo

Se non si ha affianco un partner che a sua volta comprenda appieno che diavolo di miracolo è vedere una creatura che ti spunta come dal niente, che abbia la forza sovrumana di innaffiarla, potarla e fortificarla più o meno come viene naturale alla mamma, non c'è unione che tenga.

Per fortuna ce ne sono tanti che hanno queste caratteristiche, ma le donne che nutrano dentro se stesse l'ardito desiderio di dare la vita devono scegliere con attenzione il seme che le feconderà.

Non sto scherzando: a meno di incidenti fortuiti o di colpi di fulmine incontrollabili, bisognerebbe prendere l'uomo che ti corteggia e intervistarlo per bene: tu che intenzione c'hai? Mi metti incinta e poi sparisci? Cos'è tua mamma per te? Vuoi viaggiare? Sei un fan di Erode? Etc etc.

Capisco benissimo che sia complicato e che potrebbe sembrare un po' calcolatore, ma chi glielo dice, poi, al piccino che papà non sa fare niente, che si sente messo da parte proprio da quest'alieno in miniatura e che la playstation proprio non la vuole cedere? 

Ma probabilmente al grosso delle coppie che decide di riprodursi (o che si sorprende della novità in arrivo) basta uno sguardo d'intesa di massima per capire che ci si va a genio l'uno con l'altra (cambiate pure le declinazioni di genere, se vi pare).

Io, comunque, ho la massima stima per chi si è imbarcato in questi straordinari viaggi.
E comprendo sempre di più quanto sia per loro complicato dialogare con chi non li sta affrontando.

Mi piacerebbe, vi confesso pure questo, che non facessero sentire noi non genitori come delle povere creature incomplete, come si percepisce negli occhi condiscendenti di alcuni di questi meravigliosi avventurieri.

E tuttavia, nel profondo del mio cuore, mi sento di dar loro ragione pure ai compatenti: se non hai figli, sai davvero molto poco della vita e del perché, accidenti, ti servano denari per campare.

In una società rurale, magari, bastava avere almeno il pane e un tetto e di tablet, scarpe di marca e zaini fighetti non se ne parlava proprio.

Ma il punto è sempre lo stesso: si fa di tutto e di più per i figli perché è giusto e bello.

E terribilmente commovente.
E se l'avessi capito diversi anni fa, sarebbe stato tutto più semplice. 
E dire che ho avuto un esempio straordinario di mamma. Forse persino troppo.
Magari è stato così grande da farmi sentire protetta e coccolata ben oltre gli anni in cui avrei dovuto organizzare serrate interviste ai miei possibili fecondatori.

O semplicemente dovevo diventare adulta in un'altra maniera, con la sua perdita.

Non si torna indietro, per cui quel che fatto è fatto, ma di quell'energia assoluta che ho visto in lei e nelle mamme che mi hanno aperto il loro cuore sull'infinito amore di cui sono state capaci, farò tesoro. Sempre di più.

Auguri a tutte le mamme, di ieri, di oggi e di domani.

martedì 25 aprile 2017

Dal mare a Fermo. E ritorno


Sono un tantino stanca, quindi perdonatemi per il tono un po' dimesso.
Le ultime due giornate sono state piuttosto strane.

La mattina di domenica ho partecipato alla Camminata delle donne con un po' di amiche di palestra e, oltre a fare la figura dell'idiota con lo speaker della manifestazione, con quella storia della colazione sbagliata come causa probabile della mia nausea dopo appena dieci minuti che correvo, ho rischiato pure di mettermi a piangere mentre ascoltavo la testimonianza di una donna che ha scelto di rasarsi a zero piuttosto che mettersi parrucche o fazzoletti per nascondere gli effetti della chemio. Una tizia affianco a me mi ha abbracciato e mi ha sussurrato: "Anche io ci sto passando". Mi sarei voluta sotterrare. Ma da un altro lato, se posso esserle stata di aiuto come spalla, va bene così.

Mia madre non ha perso i capelli, le si erano giusto un pochino diradati. Ma anche questo non è il punto.

Volevo esserci a quella Camminata, che ho scoperto essere legata al reparto di oncologia dell'ospedale di Fermo la scorsa edizione, l'ultima (almeno credo) a Porto Sant'Elpidio, dopo lo spostamento a Lu Portu, la cittadina in cui vivo.

Forse ero in ansia anche per questo motivo e poi perché, in fondo in fondo, sono una persona competitiva. Ho in mente almeno due episodi della mia infanzia che testimoniano il mio desiderio, sempre negato verbalmente, di primeggiare. Ma ve li risparmio.

Spero che la piantina grassa che ho comprato allo stand dell'Anpof (associazione Noi per l'oncologia del Fermano) attecchisca e diventi grande. L'aloe sul balcone dei miei sta magnificamente.

Spero ancora di più che quell'atmosfera gioiosa dell'altra mattina produca effetti duraturi in chi lotta ogni giorno, non solo per via della malattia.

Riesco solo a lanciare preghiere monche e banalotte, ma non ho ricette né strategie generali per affrontare il dolore.

Nella serata di domenica ho saputo della morte di Teo Tini, un bibliotecario di Fermo che ho solo sfiorato negli anni passati, ma che era riuscito a lasciarmi una forte impressione.
Difficile incontrare tutte insieme umanità, intelligenza e ironia: quando capita, non te lo scordi più.

Molto sentiti i ricordi dei suoi amici stamattina durante il funerale: mi ha colpito anche il sacerdote, che ne ha parlato come si farebbe tra intimi, non da un pulpito.
Ho anche avuto la sensazione che nessuno avesse bisogno di nascondersi nel parlare di lui.
Teo evidentemente sapeva leggere negli altri e il risultato si è visto nell'autenticità ritrovata in un rito che troppe volte suona stucchevole.

Il funerale di mia madre non è stato così vero, anche se il parroco, che ne raccoglieva le confessioni e che la conosceva da molti anni, non credo fingesse. Semplicemente non la conosceva davvero perché mia madre era schiva, molto schiva, molto, troppo forse, trattenuta. Non amava fare esibizione di sé, in altri termini, ma spesso finiva per censurare il suo innato istinto da leader.

Mi resterà sempre il dubbio che sia andata davvero così: che si sia ammalata per non aver creduto a sufficienza nella sua naturale capacità di primeggiare. Ma non so, forse proietto e basta quel che leggo in me. Che leader non sono: ho un altro temperamento, nutrito di chiaroscuri come il suo, ma molto più superficiale.

Tornando al bibliotecario e all'immagine che mi hanno restituito i tanti volti afflitti che lo salutavano, penso che lui fosse di una pasta speciale, silenziosa e attenta, che in qualche modo resterà.

Pur nella tristezza della circostanza, sono stata contenta di essere lì e di rivedere vari volti noti dei miei anni trascorsi a Fermo.

Verso il comune sul colle nutro sentimenti ambivalenti: non riesco a non associarlo ai fatti più dolorosi (è inutile negarlo) della mia vita marchigiana, ma d'altra parte, proprio per la loro estrema importanza, ogni volta che ne ripercorro le vie del centro storico, me ne ridiscendo al mare diversa, con un peso specifico maggiore.

Dicevano che Teo si era innamorato del mare di queste zone la prima volta che le vide durante il militare. Qualcosa di simile è successa anche a me durante la scuola di giornalismo.
Mi domando ogni tanto se davvero non sia tutto scritto.

Poi vado avanti, com'è ovvio.
Avverto però, lo ammetto, un legame con i volti, i suoni e le pietre di quelle salite e discese. Sto cercando di metterlo a fuoco, forse per farci pace o per chissà quale altra ragione.

Staremo a vedere.
Per il momento, meglio guardare il mare il più possibile da vicino, sotto quei fuochi che la notte scorsa l'hanno illuminato a giorno, costringendo i miei gatti a nascondersi in fondo al letto.

Ne ho sentito uno con un piede, andando a dormire.
E ho sorriso.

martedì 4 aprile 2017

Quello che rimane di te è tanto. Sempre di più (grazie, Julico)



Stamattina ho passato due ore piacevolissime in compagnia di Julian Corradini, alias Julico, un musicista e cantante italo-argentino che ho incontrato per un'intervista che devo ancora scrivere.
Lo ammetto: mi ha conquistata soprattutto per la sua intelligenza e (certo) anche bella presenza. Mi rendo conto che i due aspetti sono profondamente intrecciati in tutti noi, ma in questo trentenne biondo dalla pelle dorata, gli occhi grandi e il fisico ben piantato a terra spiccano particolarmente. Vi assicuro che direi lo stesso se si fosse trattato di una donna: basta vederlo muoversi e parlare per capire di che cosa sto parlando.

Detto ciò, ho scelto questa canzone che già mi aveva colpito prima ancora di conoscerne la genesi per un motivo molto preciso.

Oggi avresti compiuto 75 anni. Stavo quasi per sbagliare il numero, cosa non strana per me, ma piuttosto scioccante lo stesso.
Julian (che bel nome: lo stesso del mio nipote maggiore) mi ha detto di averla dedicata alla sua nonna paterna, cugina del calciatore Omar Sivori.

Quello che rimane è negli occhi, nelle mani e nei colori di chi resta.
Nei miei colori c'è molto di te e più invecchio e più capisco quanta parte di te sia in me.

Però la musica che accompagna questo testo a pensarci bene molto malinconico è leggera, ariosa, come eri tu, segno di fuoco di primavera.

Amavi le telenovelas sudamericane e negli ultimi anni ti piaceva pure guardarle in spagnolo.
Mi è venuto in mente proprio adesso mentre scrivo.
Ti avevamo anche regalato un vocabolario e mi pare pure un manuale di questa bella lingua. O forse erano ricette. 

Eri curiosa, avresti viaggiato di più, o comunque hai sognato di farlo.
Ho già parlato del bizzarro ritrovamento tra le tue carte più segrete di un poster dell'attore di Cuore Selvaggio, quello che interpretava Juan del Diablo, un uomo scomparso prematuramente, i capelli lunghi e lisci come questo artista oriundo marchigiano. 

Ti sarebbe piaciuto conoscerlo, avresti provato la stessa istintiva simpatia che ho sentito io.

La vita è una gran cosa, cara mamma. Non dovevi andartene così presto, ma so che sei stata capace di viverla fino all'ultimo, con una dignità che mi sta ancora insegnando tanto.

Non posso andare avanti.
Quello che rimane è intorno a me, più forte che mai.

Buon compleanno.


lunedì 4 aprile 2016

Tanti auguri, cara mamma


Da quando lei non c'è più, l'aloe sul balcone dei miei non ha più messo fiori così rigogliosi. 
L'ultima volta che sono tornata, stava finendo di sfiorire un unico, solitario, braccio segaligno.

Ed è già tanto che la pianta sia riuscita a sopravvivere: l'estate scorsa era tutta marrone, rugosa come un pezzo di Grand Canyon. Invece si è ripresa. Misteri della botanica o di chissà cosa. 
Se ci fosse stata ancora, le avrei per esempio raccontato della bizzarra pianta spuntata così, senza ragione apparente, dietro al piccolo, resistente ciclamino, uno dei pochi che mi sta dando qualche soddisfazione. Com'è possibile?, mi sono detta guardando i boccioli di alcuni fiorellini gialli di questa pianta aliena ben più alta di tutte le mie creature vegetali. Come diavolo sarà finita nel mio vaso, come diavolo ha fatto ad annidarsi giusto dietro al ciclamino? 

Sì, gliel'avrei raccontato e immagino che le avrei pure mandato la foto che ho pubblicato ieri su Facebook anche via Skype. Oppure lei stessa mi avrebbe anticipato, scrivendo, non cliccando, "mi piace" sotto la stessa.

Oggi è un giorno malinconico, ma ancora una volta, come mi succede sempre più spesso man mano che si allontana il giorno in cui mia sorella ed io l'abbiamo vista andarsene via, non riesco a pubblicare le sue fotografie. Eppure ne ho di belle, di dolorosamente belle. Sarà per questo o sarà perché mi sembrerebbe di esporla ancora di più ai meccanismi dell'emozione social.

Bisognerebbe avere più pudore, più riservatezza. Sono sicura che lei sarebbe d'accordo, anche se, come una bambina, amava usare le faccine di Skype esattamente come faccio io.

Negli ultimi mesi l'ho sognata spesso: era viva, energica e ansiosa come lo è stata davvero, a tratti preoccupata per qualcosa, ma quasi mai malata. Non ho davvero idea di che cosa vogliano dire così tanti sogni su di lei e sul resto della mia famiglia. Spesso, infatti, ci sono anche mio padre e mia sorella, spesso siamo in case grandi, tipo quella che ormai non è più tra i beni comuni, della mia nonna materna. A volte sono presenti altri parenti non meglio specificati.
C'è casino come nelle riunioni vere che per fortuna facciamo ancora.

E c'è anche, ogni tanto, quella specie di morsa allo stomaco che mi prende quando siamo davvero tutti insieme, quel senso del tempo che fugge, quelle facce più smagrite o quei fisici un po' appesantiti, che sorridono e mangiano fingendo svagatezza.

A tratti ridiamo sinceramente, aiutati, forse, anche da un pochino di vino. Al commiato ci promettiamo di rivederci presto, ma già sappiamo che passerà parecchio tempo e che la volta successiva dovremo fare comunque un piccolo sforzo iniziale per ritrovare quel calore che ci fa star male a pensarci quando siamo lontani.

La famiglia è un'esperienza troppo simile e insieme diversa per ciascuno di noi. Qualcuno recide i legami per tempo, ma chissà se poi di notte sogna cose ben più complicate di quelle che capitano a me.

Oggi ho letto il vangelo del giorno, in onore suo. Mia zia (sua sorella) prende a me e mia sorella il messalino, che ha cadenza bimensile. Me lo sono portato anche a Venezia (in fondo negli alberghi ti lasciavano una Bibbia, almeno nei film sembra che succeda ancora così), ma lì non l'ho neanche tolto dalla valigia.
Oggi, invece, l'ho aperto: Luca racconta di quando l'Angelo avvisa Maria che avrà un figlio da un uomo chiamato Giuseppe, pure se quest'ultimo non la sfiora nemmeno. Il massimo del legame con l'Altissimo, il mistero della vita incarnato in questa donna così speciale.

Mia mamma era nata proprio oggi. O forse ieri, come mi ha raccontato molte volte. Pare che l'avessero registrata con un giorno di ritardo, infatti. Un bi-compleanno poteva capitare solo a lei, profondamente legata al cielo e alla vita. 

La verità è che non ho ancora accettato di non poterla vedere mai più, anche se sono certa che possa sentirmi. E guidarmi ancora. La pensa così anche zia Zita, una persona straordinaria, che ieri ha compiuto 81 anni, la più simile a lei, sotto certi aspetti, almeno. 

Se è davvero così, buon compleanno, cara mamma. 
Magari quella pianta me l'hai portata tu. Mi piacciono i fiori gialli, forse lo sai. 

Grazie di tutto. Ora e sempre.

martedì 8 marzo 2016

Fierezza, dignità e niente spogliarelli: buon otto marzo, amiche e amici

Grazie ad Alessandra di Torino per la mimosa che mi ha mandato su whatsapp

Non male il doodle di Google dedicato alla festa della donna.
Peccato che in questo giorno mi prenda una grande malinconia.
Gli auguri più belli erano quelli di mia madre per sms: retorici e dolci allo stesso tempo.
Da lei ho imparato un sacco e credo, francamente, di stare continuando a imparare.

Se fossi madre, forse me ne renderei ancora più conto. Ma madre, ahimè, non lo sono.
Condannata a essere (probabilmente) figlia per sempre, spero comunque di riuscire sempre a trasmettere alle altre donne tutta la fierezza che ho appreso nell'esserlo io stessa da questa donna oggi lontana.

Nata in primavera, ha scelto la stessa stagione per andarsene. Non c'era persona che amasse, come lei ha amato, i fiori, il sole, i profumi della natura. La vita.
Su molte cose siamo e rimarremo diverse. Ma chissà se è davvero così. Più passano gli anni e più mi specchio in lei. Mia sorella, mamma, dice che si è ritrovata ad applicare i suoi stessi, contestatissimi un tempo, sistemi educativi.

Nostra madre non era perfetta, nessuno lo è. Però era sincera, aperta e appassionata.
E se c'è una cosa che non dimenticherò mai, su tutto quello che mi ha passato con il sangue e con gli abbracci che da bambina scansavo, è il senso di dignità che metteva in tutto quello che faceva. E che infondeva in chi incontrava.

Non posso andare avanti, sento che mi sta salendo una commozione molto poco dignitosa.
E a lei non piacerebbe.

Le poche volte che ha lasciato che la vedessimo piangere sono tra i pochi brutti ricordi che associo a lei. Mi mancano persino i litigi, così sani e infantili (le porte che sbattevo e la voce che alzavo, sapendo bene di avere torto, mi fanno adesso solo una grande tenerezza).

Conserva il tuo sorriso e la tua ironia per l'infinito cielo, mia cara mamma.
E a voi, amiche e amici del blog, i miei migliori auguri.

I compiti che ci aspettano sono gravosi: ma ce la possiamo fare, alleandoci con chi ci vuole bene e cacciando, con o senza tacco 12, chi ci umilia.

E, per favore, lasciate perdere i patetici spogliarelli.
Semmai, spogliamoci noi di tutte le inutili illusioni sui principi azzurri & affini.

Fatelo capire alle vostre figlie, come ha fatto mia madre con me. E persino sua madre (una donna dolcissima, madre di quattro figli, classe 1911) con lei.

Forza.

lunedì 16 novembre 2015

Valeria Solesin, mia sorella. Grazie, mamma



Valeria Solesin mi somiglia. Soprattutto, somiglia a molte donne tra la sua e la mia generazione che continuano tutti i giorni a lottare per affermare e mantenere il proprio ruolo sociale nel mondo.
Da pochissimo mia sorella maggiore ha cominciato un dottorato di ricerca. Ebbene sì: alla sua veneranda età (48 anni) ha fortemente voluto sfruttare l'opportunità che le offre il suo datore di lavoro pubblico (ah, questi statali) di darsi alla ricerca.
Per riuscire in questo intento, ha studiato tutta l'estate, fino a tarda notte, dopo essersi occupata dei figli, della casa e anche del padre in difficoltà.

Si è sentita pure fare delle battute sciocche (non dico da parte di chi, non vorrei metterla nei guai) sul fatto che, ma come, ti rimetti a studiare tu, che c'hai una famiglia e vari anni sulle spalle? Alla faccia dei cretini di ogni religione e (sub) cultura, lei è riuscita a superare uno scritto e un orale e ora avrà a che fare, forse, anche con giovani come Valeria, una sua possibile sorellina minore, quasi figlia volendo, una di quelle che doveva vivere e continuare a studiare come mai in Italia le donne con figli (ma purtroppo non solo loro) spesso stanno a spasso o sono (troppe volte) semplicemente sotto pagate e in generale sotto valutate solo perché portano tacchi e smalti colorati.

Giusto qualche ora prima che questa splendida mia sorellina minore (volendo mia figlia, se fossi stata una di quelle spose bambine di cui tanto si chiacchiera spesso a sproposito) venisse barbaramente cancellata dalla Terra, mia sorella vera mi stava appunto esponendo le sue indecisioni in merito all'argomento che dovrà trattare nella ricerca: l'istinto la stava conducendo verso la sociologia politica, ma, molto appropriatamente, si domandava se non sarebbe meglio proseguire nei suoi studi condotti quando Valeria andava ancora alle elementari, anno più anno meno, ossia il diritto amministrativo e le sue procedure.

Non so quale scelta farà alla fine, ma potete stare certi che a qualunque cosa si dedicherà, l'affronterà con la stessa serietà ed entusiasmo presenti nell'articolo che la giovane dottoranda italiana alla Sorbona aveva inviato due anni fa a una rivista francese, vedendoselo pubblicare pur essendo un'illustre sconosciuta.
Un fatto che in Italia capita molto, molto di rado.

Colpisce, non solo me, la dignità con cui la madre parla di sua figlia, la voce rotta, ma presente a se stessa. Mancherà, dice questa signora, alla società, Valeria, perché era una persona meravigliosa.
Una madre non dovrebbe mai piangere per la morte dei propri figli.
Se la mia fosse stata ancora qui, sarebbe stata così orgogliosa di mia sorella e se mia sorella ce l'ha fatta a dimostrare ancora una volta quanto sia meravigliosa, il merito è anche suo.

Non è una consolazione, non può esserlo, ma vorrei tanto che la mamma di Valeria lo sapesse: se sua figlia aveva quel gran talento, ma soprattutto se lo stava mettendo in pratica in modo così brillante, il merito è anche suo.

La mia tesina per diventare giornalista professionista riguardava il Libro Bianco di Marco Biagi, ucciso da vigliacchi bastardi non musulmani: i signori colleghi della commissione, nel 2002, mi fecero i complimenti per l'argomento e per lo stile.
Alla tesi di laurea, idem, applausi, per il mio stile di scrittura giornalistico.

Se ho ancora qualche chance di uscire dal guado, lo prometto solennemente in questo momento, lo farò anche in nome di Valeria.
E in nome di mia madre, che per fortuna non ha assistito alle tragedie di questi ultimi tempi.

Aggiungo solo un piccolo, patetico, grazie.

E ora, forza, sotto a lavorare, donne.

sabato 8 agosto 2015

Madamatap's version su Barney, libro e film



Alla fine sono riuscita a terminare Barney's version, dopo mesi e mesi.
Parlo della versione in lingua originale de La versione di Barney, un libro che ho letto anni fa in italiano (me l'aveva prestato qualcuno, forse la mia amica Simona di Milano) e che già all'epoca avevo considerato grandioso.
In inglese, a mio parere, è ancora più bello. E incomprensibile, se sei a un livello, discreto sì, di conoscenza della lingua anglofona, ma di certo non tale da poterti accostare a testi di qualsiasi natura senza fare piccoli e grandi sforzi.

Insomma, ce l'ho fatta perdendomi qualche pezzo, ma non l'essenza della prosa di Mordecai Richler, che, tra l'altro, infila nella narrazione frasi in francese e in lingua ebraica, giusto per complicare ancora di più le cose (magari anche ai madrelingua, chi lo sa).

Da romantica tendente allo svenevole (ma solo nel chiuso della mia testa quadrata: giuro, è davvero quadrata), mi sono piaciute soprattutto le parti dedicate a Miriam, il "my heart's desire", dice all'incirca Barney, ossia la terza, amatissima signora Panofsky, la madre dei suoi tre figli e l'unica donna che avrebbe potuto salvarlo finché morte non li avesse separati.

E poi, ovviamente, mi sono piaciuti assai i dialoghi tra Barney senior, lo sconsiderato padre del protagonista, e Barney junior, ma in generale, proprio quel misto di ironico-demenziale (umorismo ebraico? Ma chissà: prende per i fondelli anche la religione delle sue origini) e di straziante, inesorabile, avvicinarsi della fine. Una fine triste, senza memoria e senza amore, riscattata solo in parte dal finale che, ovviamente, per i pochi che non avessero letto questo libro che merita senz'altro di essere inserito tra i classici, non vi svelo.

Il caso ha voluto che, a due capitoli dalla fine, Iris mandasse proprio il film tratto (direi più precisamente ispirato) dal libro.
Bravissimi gli attori, anche se, sempre a mio modestissimo parere, l'ironia complessiva del testo scritto si coglie molto meno. E del resto, chi è capace di trasformare in immagini i sotto-testi di una scrittura fatta di scetticismo e poesia? Troppo difficile. Quindi bravi tutti per aver creato, alla fine, un'altra versione di Barney (tra l'altro ambientata a Roma, nei ricordi di gioventù del medesimo, anziché a Parigi).

In fondo metterò una scena o forse il trailer del film.
Qui vi trascrivo dei pezzettini in inglese. Vi anticipo che lo faccio anche per me, per non disperderli del tutto. Magari piaceranno pure a voi (ma non li traduco: ho caldo e vado di fretta... sì, sì, ottima scusa):

"I was thoroughly ill at ease among so many strangers at the Ritz, until everything changed. Then and forever. Across the crowded room (...) there stood the most enchanting woman I had ever seen. Long hair black as a raven's wing, striking blue eyes, ivory skin, slender, wearing a layered blue chiffon cocktail dress, and moving about with the most astonishing grace. Oh, that face of incomparable beauty. Those bare shoulders. My heart ached at the sight of her".

Mi piacciono molto, non so perché, le "bare shoulders", le spalle nude (in italiano fa un altro effetto), un ricordo che Barney ripete spesso durante tutto il libro: anche nei capitoli non direttamente dedicati alla terza moglie, Miriam, di tanto in tanto, affiora comunque. Perché chi ama ha bisogno di nominare l'amato.

E poi eccovi un altro passaggio, anche questo scritto più volte durante il romanzo:

"I once dared to hope that Miriam and I, into our nineties, would expire simultaneously, like Philemon and Baucis. Then a beneficent Zeus, with a gentle stroke of his caduceus, would transmogrify us into two trees, whose branches would fondle each other in winter, ouser leaves intermingling in the spring".

Mi ha fatto venire una gran voglia di rileggermi i miti greci. A Chieti dovremmo avere ancora un libro in cui ce ne sono parecchi. Lo cercherò.

Sto per ripartire.
Ieri ho fatto una predica a mio padre: sentivo le parole che mi uscivano di bocca così, senza controllo. Non so se abbiano sortito qualche effetto, ma era evidente che avessi bisogno di dirgliele.
Mi aspettano giorni impegnativi, ma non ho intenzione di ridurmi come l'ultima volta (virus maledetti permettendo).

Purtroppo, come a Barney, neanche a mio padre è stato permesso di arrivare fino ai novant'anni con la moglie, mia mamma. Quest'anno la sua mancanza è ancora più forte e l'altro giorno ho fatto un sogno troppo strano: era lì che cucinava, cucinava, ma io volevo restare sola e la sua presenza non me lo permetteva. Che cosa mai significherà? Lotto per staccarmi da lei?
Chissà se mio padre la sogna mai e che cosa sogna.

Bene.
Vi lascio, come promesso, con un video dedicato al film (ne ho trovato uno migliore del trailer): Rosamunde Pike è uno spettacolo, Paul Giamatti fantastico, ma interessanti anche le cose che dicono gli altri sul film e sul libro (Richler, non Richter: c'è un errore nei sottotitoli in italiano).





Bello, eh? Beh, a me piace.
Buona settimana di ferragosto a tutti.

martedì 7 luglio 2015

Noa e il disvelamento. Alla buon'ora

 
 

 
 
Ho conosciuto Noa diversi anni fa, più o meno agli inizi della storia che sto per raccontarvi. L'album (Love Medicine) dal quale è tratto il brano Little star, costruito su una melodia nota - presumo - in tutte le scuole elementari e medie del mondo, è dello scorso anno.
 
L'ha scoperto (manco a dirlo) per caso Paolo (il nome vero del Bipede) giusto a ridosso del trasloco. Sinceramente non mi ricordo se avevamo già fatto il rogito, comunque la musica di quest'artista israeliana-newyorkese è perfetta per i periodi di cambiamento.
 
Il mio rapporto con il Bipede è cominciato (più o meno) proprio con Noa. Ai tempi dello stage nel quotidiano Il Centro accompagnava non di rado le nostre gite fuori porta.
Ho passato mesi memorabili nella vecchia redazione pescarese del giornale che mio padre compra tutti i giorni, più o meno da quando è nato.
 
Non voglio assolutamente ammorbarvi con i miei ricordi di gioventù (sappiatelo: tutti i giornalisti, prima o poi, vi raccontano la loro vita), ma solo tornare per un attimo agli albori della mia vita adulta.
 
C'è chi diventa grande presto, per costrizione o per scelta.
Oggi posso dirlo: ho rischiato un sacco di volte di passare dall'immaturità alla muffa senza mai aver vissuto una vera fase di maturazione.
 
Succederà a molti, certo: dubito di essere speciale anche sotto questo aspetto.
Sia come sia, da qualche giorno vivo come se la cataratta l'avessero tolta a me, non a mio padre.
 
Come sono stata infantile. Quante energie buttate, quanta inutile (e dannosa) modestia.
Quante relazioni subite. Quanta negatività accumulata per vigliaccheria.
Quanto masochismo, in una parola.
 
Scrivo queste parole non per infliggermi ulteriori colpe immaginarie costruendomi l'ennesimo alibi dietro al quale continuare a nascondermi, ma solo perché sono, ebbene sì, ancora molto incazzata per averci messo così tanto tempo a capirlo.
 
Noa che c'entra, dirà qualcuno di voi (forse)?
Ascoltate attentamente la canzone.
A un certo punto dice:
 
Twinkle, twinkle, I will sing,
For tomorrow always brings,
Opportunities to begin again

Una ninna nanna che guarda al futuro non l'avevo mai sentita, mai comunque con questa potenza ed energia. Che voce sublime, accidenti.

Ascoltandola al mare due giorni fa, ebbene sì, ho pianto. Non avrei voluto farlo, come dice la canzone in un altro punto, ma le lacrime andavano giù da sé.
Mi sono scorsi davanti gli ultimi quindici anni, davvero come la pellicola di un film, anzi, come si vede nei flashback dei film.

Mi sono calmata solo quando è finita la canzone, o forse proprio l'album, lo stesso, tra l'altro, che asseconda meglio le mie corsette sul lungomare degli ultimi giorni (ho subito un brusco stop per via della febbre e della callaccia amara che ancora non ci ha mollati).

Si chiama, vi dicevo, Love medicine e per i cinici dei nostri tempi (quanti ne ho incontrati in questi quindici anni) sarà retorico, femminile e buonista.
Si fottano, perdonate il linguaggio da marinaio.

I primi giorni, in effetti, non riuscivo ad ascoltarlo per via della voce della riccia con il naso da aquila e gli occhioni da Bambi che ti costringe a stare lì a sentirla. Un po' come mi capita con Mina: con la tigre di Cremona non hai scampo. O stai lì e ti fai pervadere dalla potenza delle sue corde vocali o spegni e parli tu.

Sono riuscita a concentrarmi sulle singole canzoni solo quando mi sono ritrovata a tu per tu con la sua musica.
Peccato che Smile sia diventata il simbolo per eccellenza del buonismo piddino, perché anche quello è un magnifico pezzo.

In ogni caso...
sono stata interrotta dalla telefonata di mio padre.
Non ho molto altro da dire. Solo questo.

Se avessi figli, insegnerei loro innanzitutto a non mentire mai a loro stessi. A non avere mai paura di guardarsi dentro.
A non aver paura di nulla, come dice sempre Noa in un'altra splendida canzone.

Non aver paura di nulla non significa fare per forza bunging jumping, o come diavolo si chiama.
Significa solo alzarsi e andare, come mi ha costretto a fare mia madre il giorno che sono dovuta partire per Pisa per andare a prendermi la mia dannata (per molti inutile) laurea.

La strada ce l'avevo già chiara davanti con il suo solo esempio.
Ma lei a 24 anni era già una donna.
Mi fa male non averla qui accanto a me adesso, ma in qualche modo ne avverto forte la presenza.

Che sia la black star di Noa?
Domani si va a Chieti.
E' giusto così.

Buoni giorni a voi (e ascoltate la riccia!).


sabato 6 giugno 2015

Un anno dopo


Ho pubblicato la foto della grigia su Facebook, per cui, miei fidati sparuti lettori, perdonatemi per la ripetizione.
Sono così stanca da non riuscire a connettere, ma volevo farvi comunque sapere, restando in tema di connessione, che da oggi (lo dico a voce bassissima, più di me) la linea Adsl pare funzionare e pure discretamente.

Risolta la questione della tv che andava in una stanza sì e tre no (non chiedetemi perché: non sono riuscita a capirlo), superato l'allagamento della cucina per via del tubo di scarico della lavatrice mal fissato (o non fissato tout court, temo), recuperato l'uso dei fornelli e dell'acqua corrente in cucina, sgombrata da cartoni e oggetti sparsi la mia scrivania da scuola primaria, direi che siamo entrati già nella fase 2 dell'ambientamento.

Originariamente volevo offrirvi la seconda puntata di "mondo operaio", ma ahimè, non ce la faccio proprio.
Vi butto lì giusto un dialogo dell'assurdo tra la sottoscritta e l'elettricista, avvenuto stamattina (si era scordato di attaccare il forno e l'accensione elettrica. Non chiedetemi come mai, perché, di nuovo, non l'ho capito).

"Ma... vi piaceva proprio questa zona?".
"Sì, certo".
"No, perché ci stanno tande case noe, qui li fili sò tutti sthretti".

E il bello è che io gli ho pure risposto seriamente.
Solo dopo ci ho ripensato.
La realtà supera sempre la fantasia.

Dopo un po' mi ha chiesto se conoscevo qualcuno che voleva un appartamento (evidentemente suo) a Porto Potenza, vicino al centro riabilitativo.
Ah ecco. Se aspettavo un altro po' potevo comprare quello. Come no.

Quando mi sarò ripresa del tutto (quando?), aggiungerò altri dettagli.
Sperando che nel frattempo non mi facciano altri "sbuci" di troppo.

Chissà se mia mamma se la ride, dovunque sia adesso.
Forse doveva andare esattamente così: dovevo trovare casa dove volevo (caro il mio elettricista, a Porto Potenza ci vada qualcun altro) esattamente in questo periodo.

Se non fosse successo così, questi giorni sarebbero stati davvero duri da affrontare.
Invece, certo, sono stanca morta, ma molto proiettata nel presente.

Ringrazio ancora una volta i miei, per tutto l'amore che mi hanno dato.
A domani, cara mamma. 

mercoledì 8 aprile 2015

La protezione da lassù. Che non si vede. Ma c'è


Sono ancora un pochino provata dalle recenti vacanze pasquali. Per fortuna in senso positivo, stavolta.
Zia Zita, splendida neoottantenne, del resto lo dice sempre: "Sono tutti miracoli che sta compiendo tua madre".
Che ci si voglia credere per bisogno o che sia vero in qualche maniera misteriosa che poco ha a che fare con la razionalità di noi poveri bipedi, in ogni caso domenica scorsa c'era davvero un'atmosfera magica (la luna su Chieti - nella foto sopra - immortalata grazie alla pronta segnalazione del cognato italo-tedesco ne è la prova tangibile).



I nuclei familiari coinvolti nei festeggiamenti erano accomunati da lutti piuttosto seri, oltre che da un legame di sangue tanto indiretto quanto sentito.
Prima di trovarci seduti tutti là, però, non credo che il grosso di noi ne avesse consapevolezza. E invece quel legame c'è eccome e ci ha spinto a parlarci con una naturalezza e direi proprio una confidenza davvero piacevole.

Non pubblico le foto del pranzo, non lo farei mai. Però vorrei citare qualche passo del biglietto che la vulcanica zia giovane di mio padre (appena cinque anni di più: non chiedetemi come sia possibile, è troppo complicato da spiegare) ha dato a noi invitati, accludendolo a un sacchetto profumatissimo di lavanda che ho subito messo tra la mia biancheria.

Parla della vecchiaia ed è tratto da un libro (Edizioni Paoline, Il vecchio e la vita, di Edoardo Borra).
Tra le frasi più significative, vi riporto queste:

Benedetti coloro che capiscono le mie mani che tremano e il mio cammino stanco.

Benedetti coloro che mi ascoltano con pazienza quando io ripeto le stesse cose o i ricordi della giovinezza.

Benedetti coloro che mi stanno accanto e mi ricordano che sono sempre vivo e interessante, anche se non lo sono.

Benedetto chi mi offre un sorriso, una parola amabile o un po' del suo tempo.

Ho trovato molto appropriata la scelta della zia di lasciarci questo messaggio a futura memoria.
Lei, dal suo canto, teme di non essere più la stessa che era da giovane (anche se posso assicurarvi che difficilmente io ho incontrato giovani donne, per non parlare di giovani uomini, dotate-i della sua energia).

Per quel che mi riguarda, invece, riflettendo sulla vecchiaia in fondo da sempre (ben prima degli ultimi sette anni, voglio dire), mi colpiscono assai le parole dette o riferite da persone che hanno molti più anni di me.
E anche se a volte non ho pazienza con mio padre (quando devo ripetergli le frasi, non sempre lo faccio con buona grazia) e anche se persino con mia madre, nei momenti peggiori, non sempre sono stata capace di gestire i suoi momenti di sconforto con la dovuta pazienza, cerco di non dimenticare mai che un giorno (salvo smentite divine) sarò vecchia pure io e chissà in quale stato.

Essere di supporto e di consolazione per un parente anziano, insomma, è un dovere dal quale nessuno è esente. O comunque nessuno dovrebbe esserlo.

Per questo motivo, tra l'altro, non sopporto le liti tra parenti, soprattutto quando tutti, figli, genitori, zii, si sia raggiunta una ragguardevole età.
Che senso ha, mi chiedo, avvelenarsi ulteriormente la vita? Chi di noi non ha un rimpianto o peggio un rimorso? A che serve rinfacciarselo quando la polvere ha sepolto quasi pure noi?

Abbracciamoci finché siamo in tempo, piuttosto.
O lasciamoci perdere, se proprio non si riesce a stare vicini.

So, lo riconosco, di avere una grande famiglia unita. Però niente viene dal niente.
E se gli altri hanno colpe (e sicuramente ne hanno), noi per caso non ne abbiamo?

Ma, al di là delle colpe e dei doveri, credo fortemente nell'amore: è l'unico sentimento che conta, per me. L'amore spazza via tutti i rancori, l'amore ci fa resistere al dolore. L'amore guarisce.

Forse ha davvero ragione Zia Zita.
La mamma ci sta proteggendo.
Io, almeno, ci credo.

lunedì 30 marzo 2015

I sorrisi sghembi di chi brama la rinascita: buona Pasqua a tutti


Nella fotografia che vedete sopra non mi piaccio affatto. Ma il motivo per cui l'ho pubblicata non è affatto narcisistico. Almeno, non in modo conscio.
Più o meno nello stesso punto, la bellezza di boh... trentacinque anni fa, fummo fotografati la sottoscritta con questa faccia da patata e il resto della mia famiglia di origine.
Ne ho parlato diffusamente nel periodo natalizio. Qui vi basti giusto sapere che lo scatto di questa volta è di ieri mattina: il luogo è Verona.

Sono stata nella bella, a tratti respingente, città veneta il fine settimana appena passato.
Ho rivisto l'autore del commovente ritratto degli anni che furono e l'ho ricambiato con la stessa moneta, fotografando lui e la sua nuova famiglia esattamente nel medesimo punto in cui eravamo stati immortalati noi quattro. Loro, ovviamente, non potevo pubblicarli. Perciò eccovi la foto che mi ha fatto il Bipede, giusto una mezz'oretta prima di quella di cui vi ho appena parlato.

Sono stata felice di rivedere un luogo nel quale, in verità, ero tornata nove anni fa, in occasione dell'indimenticabile concerto di Mark Knopfler ed Emmylou Harris all'arena. Anche quella, tra l'altro, era stata occasione di incontri molteplici: mi avevano raggiunta le mie ex compagne di casa di Milano, una delle quali è originaria proprio della città di Romeo e Giulietta.

Stavolta, invece, oltre a Rosina, Pino, Tonino, Silvia, Sofia e Gabriele, ho rivisto anche i nostri carissimi amici valdostani Lalla e Maurizio, e approfondito appena un po' di più la conoscenza con i loro amici Antonella e Mirco. Questi ultimi verranno giù nelle Marche la prossima estate, per cui la gita in cima alla torre dei Lamberti (bellissima Verona dall'alto!), la passeggiata e la cena sono stati giusto un anticipo dei giorni marini che spero passeremo insieme.

Mi piace far incontrare gli amici, anche se so bene quanto sia rischioso o semplicemente complicato. Temo in particolare di aver messo in imbarazzo due di loro (non dico chi), ma spero che possano perdonarmi: ci tenevo proprio a rivederli, anche solo per pochi minuti.

Mia madre ne sarebbe stata contenta. Da lei ho ereditato la socialità e anche una certa confusionarietà ansiosa. Mio padre, al telefono, pareva a sua volta contento per me.
Devo avergli fatto venire in mente le nostre vacanze, "quando erano piccole le bambine e giovani noi", ha scritto mia mamma in un bigliettino che accompagnava il vhs ricavato dalle bobine della vecchia cinepresa Super 8, da mio padre ripescata in fondo a uno degli armadi che abbiamo svuotato.

Stanotte l'ho sognata: stava bene, forse non al massimo, forse più o meno come l'ho vista il penultimo Natale, quando il male pareva avesse allentato la stretta.
Non voleva, per l'appunto, farsi stringere dal mio abbraccio, come se temesse che il senso di benessere ritrovato potesse smarrirsi al contatto con me.
Indossava la sua vestaglia rosso scuro, quella che le abbiamo visto più spesso nell'ultimo, troppo rapido, periodo.

Il prossimo 4 aprile sarebbe stato il suo compleanno. Ricordo troppo bene quello dell'anno scorso, ma non sono ancora in grado di dire come mi comporterò questo sabato né a Pasqua.

Sono giorni pieni di presente: mi vergogno quasi di ammettere di aver passato momenti belli durante questo mese. Dopo tanta stasi, preceduta da troppo dolore e angoscia pura, non riesco ancora a credere di essere riuscita a provare un po' di leggerezza.

La protagonista di Bones (uno dei miei attuali miti televisivi) direbbe che è colpa dell'educazione cattolica ricevuta, ma al di là di questo, quando soffri per davvero, guardi tutto con occhi totalmente differenti.

Vorrei ridere di cuore, lo confesso. Vorrei saltare da una stanza all'altra come facevo un po' prima della foto veronese di cui vi parlavo prima. Ogni tanto, certo, mi succede eccome di zampettare come la gatta Bice. La mia tendenza all'ironia (al sarcasmo, anzi) non mi abbandona mai.

E tuttavia non basta.
E' arrivata pure la primavera, persino qui a Fermo fa meno freddo (non in casa nostra: ieri al ritorno c'erano 15 gradi). Il cambiamento è necessario.
Alcuni arrivano del tutto inaspettati; altri bisogna impegnarsi continuamente a cercarli.

Che fatica, insomma. Sarà per questo che poi si ride a mezza bocca.
Per le risate con le lacrime ci vuole qualcosa di più.
Aspetto di vederle affiorare, accanto a quelle di commozione e di nostalgia, che ogni tanto, negli ultimi miei due viaggi verso nord, sono scese senza che potessi farci nulla.

Grazie, mamma, per tutto quello che mi hai dato.
Mi pare (lo dico piano) che stia germinando sempre di più.
Continuerò a non smarrirmi. Continuerò a rinascere, come tu hai saputo fare tutta la vita.

Buona Pasqua a tutti.

martedì 20 gennaio 2015

Le radici e il clan allenato alla pazienza


Spero proprio che mio zio Gigi non se ne abbia a male (mio padre, ormai, è diventato una star di questo blog), ma oggi desideravo proprio questo ennesimo amarcord.
La fotografia che pubblico stavolta era tra le centinaia conservate da mia mamma nel suo armadio stracolmo di oggetti disparati, come quasi tutti i mobili della casa parentale.

In questo momento vi stanno rovistando dentro mio padre e la sua zia-sorella, una persona dotata di una simpatia straordinaria, che negli ultimi anni si era molto affezionata alla sua nipote-sorella acquisita. Con la sua meravigliosa r moscia, ci stritola (non solo metaforicamente) e ci dice di amarci tutti. E' così bello sentirsi dire "ti amo" da lei, ti viene naturale ridirglielo ridendo, sì, ma con sincera convinzione.

E insomma. Eravamo a Francavilla Beach, se non vado errata qui avevo 29 anni: se ho ragione, ero giusto a metà della scuola di giornalismo. E doveva essere già fine estate. Perché durante l'estate facevo gli stage, quindi è improbabile che potessi essere in vacanza che so, a metà luglio.

Mio padre, che oggi ha detto di non aver mai amato il mare, esibisce una bella abbronzatura. Idem mia sorella. Credo (ma non ne ho la certezza) che la foto sia stata scattata dalla mamma, ed è in ogni caso evidente che siamo tutti molto rilassati.

Amo (come direbbe la zia-sorella-prozia-zia) il senso di pace che più o meno ha sempre regnato nella nostra famiglia. Nel tempo ho imparato ad affrontare atmosfere diciamo così più concitate e a discutere pure piuttosto aspramente, quando necessario.
Però i dialoghi difficili, i fraintendimenti e gli accapigliamenti mi affaticano assai.

E' così piacevole, invece, essere compresi al volo, fare battute intellegibili per chi ascolta e pure servirsi naturalmente di un linguaggio non verbale consolidato.
Del resto, siamo abbastanza clanici, se posso usare questa specie di neologismo, e infatti chi prova a entrare nella nostra famiglia allargata non sempre si sente subito a suo agio. Anche perché l'ospitalità meridionale può creare ancora più imbarazzo. "Mangia, mangia, prendine ancora, hai mangiato? perché non ne prendi ancora?", etc etc. E l'ospite di turno non sempre se la sa cavare.

Il tipo nero con cappellino si chiama Rai, Ibrahim per la precisione. Ai tempi era un giunco, oggi ha messo su una bella pancia di benessere; anno dopo anno abbiamo continuato a incontrarci sulla stessa spiaggia.
Gli ho mandato una copia della foto qualche mese fa direttamente in Senegal. Non ho idea se l'abbia ricevuta, ma ci tenevo tanto che la avesse anche lui.
Rai è rimasto molto colpito dal nostro lutto: "e la mamma?", ci ha chiesto pure la scorsa estate come fa sempre ogni anno.
Non riusciva a crederci. Aveva capito che tipo era, che tipi siamo.
Da buon commerciante già da tempo aveva rinunciato a venderci le sue borse taroccate, ma quando ha potuto ci ha portato collane e vestiti. E noi l'abbiamo accolto nel clan. Ufficialmente. E' pure venuto a vedere i piccini quando erano neonati.

Adesso i nipoti lo salutano e ci scherzano, il piccolo lo chiama Rai Uno.
Ricordo benissimo la prima volta che l'abbiamo incontrato: mia mamma amava fare acquisti sotto l'ombrellone. La nostra casa di Francavilla è ancora zeppa di animali di legno: li prendeva da un altro venditore, anche lui non poteva crederci che quella cliente tanto brava non ci fosse più.

Mi è capitato di rivedere questa fotografia e svariate altre perché ne stavo cercando una della sottoscritta per un lavoro che forse dovrò fare.
Non riesco ancora, in certi momenti, a capacitarmi che la mia mamma sia da un'altra parte.
In certi istanti la sento qui con me, in altri, semplicemente, mi sembra di non avere più passato.

Quella ragazza sorridente con il costume rosa mi sembra così diversa dalla donna di quasi 44 anni di oggi (a proposito: oggi è il mio mezzo compleanno. Ne ho parlato un paio di anni fa del significato di questo giorno per la matta che sono).

Dovevo appena aver bevuto una granita. Allora era assai caldo, perché non mi sembra di aver mai amato in modo particolare le granite. Mi piacevano i gelati confezionati (mi piacciono pure ora, veramente), e se potevo, ne mangiavo uno dopo il bagno del pomeriggio, come fanno adesso i nipoti.

A loro lo prendeva sempre la nonna: era anzi il loro appuntamento del pomeriggio. Sono stati proprio i bambini a farmi conoscere il cornetto sbagliato, una vera sciccheria.

Manca troppo mia mamma, manca a tutti noi, per poterne ancora parlare come di qualcuno che non c'è più.
Oggi ho messo i suoi pantaloni e i suoi orecchini. E l'ho cercata nello specchio guardandomi fisso negli occhi.
Un giorno, non adesso, la riascolterò mentre recita una poesia di Leopardi in una registrazione che ho fatto partire dal mio pc quando eravamo su skype quasi presagendo quel che sarebbe successo di lì a poco.
Leopardi è intriso di questa terra in cui vivo ormai da più di dieci anni. Una terra affascinante e segreta, con me, ahimè, non troppo clanica, mai abbastanza familiare, comunque.

Vorrei imparare a conoscerla davvero, spero di averne ancora la possibilità.
Sono grata ai miei per avermi insegnato a non arrendermi. A mia mamma in particolare per aver creduto sempre in me.
Se resisto, se sogno ancora, è per via delle salde radici di quel clan allenato alla pazienza che vedete sopra.

Posso solo dire, di nuovo, grazie.
E correre in palestra!

martedì 30 dicembre 2014

Vivere e amare, il resto non conta: buon 2015 a tutti


L'emozione di rivedermi cosi' meravigliosamente ragazzina e' stata grande.
Mi colpisce poi moltissimo l'espressione di papa', fiera - probabilmente - e rilassata.
Sembra quasi che sia lui solo a essere completamente a suo agio davanti all'obiettivo.
Del resto, chi sta scattando e' un giovane uomo che lui ha visto crescere, se non proprio nascere.

L'autore di questa dolcissima foto-ricordo e' infatti il figlio di una persona che tanto ha voluto bene ai miei genitori.
Di Amelia mio padre ha sempre parlato con aperta ammirazione. E' stata lei - ci ha raccontato molte volte negli anni - a partire per prima lasciando laggiu' nel Sud Italia marito e figli per tentare di risollevare le sorti dell'intera famiglia.
Un tentativo coronato da successo, determinato dalla tenacia di questa signora oggi purtroppo un po' malandata ma dal carattere ancora d'acciaio.

Vorrei avere solo un'oncia della sua tempra per uscire dal pantano in cui sento di essermi ficcata. Ma questa e' un'altra storia.
Torniamo alla foto.

Ci e' arrivata alla Vigilia di Natale, intorno all'ora di pranzo. Quando hanno citofonato, io ero sul balcone a godermi il sole caldo che da sempre mi ha reso la casa dei miei tanto gradita. Con il passare degli anni, anzi, mi sembra sempre piu' accogliente, considerate le varie stamberghe nelle quali sono andata a vivere (compresa la dimora fermana, un palazzo gentilizio, si', che pero' d'inverno sembra la residenza siberiana degli zar).

Assorta com'ero nei miei pensieri da felino indolente, sono andata ad assistere all'apertura del voluminoso pacco con neutra curiosita'.
Nemmeno davanti alla lettera appiccicata sul coperchio ho sentito mutamenti interiori. Solo quando ho visto la fotografia racchiusa in una molto appropriata cornice di legno e accuratamente incellofanata ho realizzato.

Mi sono subito uscite delle lacrime e anche mio padre, poco incline ai piantarelli, era visibilmente commosso. I bambini, pero', non capivano che ci fosse tanto da piangere, com'era logico che fosse, per cui tutti  e due siamo subito ritornati in noi, anche se da quel momento in poi mio padre si e' messo alla spasmodica ricerca del numero dell'affettuoso mittente e finche'  non e' riuscito a trovarlo, non si e' dato pace.

"Mi hai fatto tornare in mente il periodo piu' bello della mia vita", gli ha detto quando e' riuscito a parlarci.
Con mia sorella ci siamo fatte un po' di conti.
Ai tempi della fotografia  i nostri genitori erano piu' giovani di come siamo noi adesso. Forse la mamma aveva intorno ai quarant'anni, ma pure di meno, probabilmente.

E' impressionante come abbia conservato l'espressione di allora praticamente fino a quasi gli ultimi giorni della sua vita. La mano si muove nell'aria: sicuramente stava parlando, di certo voleva organizzare qualcosa o puntualizzare un qualche aspetto.

Allora, ma non ne sono certa, non doveva darle ancora fastidio essere ritratta. Negli scatti della sua maturita', invece, finiva sempre per mettersi una mano davanti al viso. Pero' spesso ci giocava pure con malcelata vanita'.

Nonostante le rughe e qualche segno sul corpo, nostra madre ci ha sempre tenuto al suo aspetto, con sobrieta', certo, ma mai con rassegnazione.
Se sia Linda sia io abbiamo potuto prenderci diversi dei suoi vestiti (e io personalmente anche varie borse e pure qualche orecchino e collana) e' proprio perche' aveva stile.

Venendo poi a Linda, pure lei e' straordinaria: che classe i suoi pantaloni con la riga e la posa plastica delle sue braccia magre, identiche (giuro) a quelle che ha oggi.

Sembriamo tutti e quattro quello che effettivamente eravamo: turisti perfetti, con tutti gli accessori giusti per quegli anni. La fotocamera, la cartina, la borsa a tracolla, la sigaretta del papa' al centro, come il suo sorriso, insieme con quello della mamma e al mio appena appena accennato.

Insomma, se mai avessimo avuto bisogno di qualche altra prova, adesso ce l'abbiamo: siamo stati una bella famiglia, come tante altre, ovvio, ma dotate di quella straordinaria normalita' che prima o poi, da adulti, finisce per mancarci come l'aria.

Fino agli anni dell'universita', per dire, io personalmente non avevo idea che potessero esserci famiglie infelici e, pensando ai problemi della nostra, ho realizzato solo molto tardi quanto fossero veramente risibili.

E non sto parlando solo dell'aspetto economico che pure, certo, ha contato assai.
Due genitori che lavorano permettono ai figli una sicurezza davvero miracolosa pure di tipo interiore.

Piu' importante ancora e' stata la sicurezza psicologica e morale nella quale siamo vissute fino a pochissimo tempo fa. Fino alla malattia della mamma, voglio dire.

Solo due anni fa e poco piu', voglio dire, non sono stata del tutto consapevole (parlo solo per me, non so se mia sorella la vede esattamente allo stesso modo) di quanto io abbia ricevuto, praticamente tutta la vita.

Adesso, invece, so che sto ancora ricevendo; ho potuto verificarlo in questi giorni di vacanza, proprio quelli che dovevano essere i piu' tristi, che invece sono diventati i piu' maledettamente belli mai vissuti finora.

Al miracolo ha contribuito anche l'autore di questa fotografia che ringrazio di nuovo dal piu' profondo del mio cuore.
Al resto hanno pensato i miei zii e i miei cugini, che ci hanno letteralmente rimpinzato di cibo e di calore.

Sentirsi vivi e amati e' un privilegio.
Ma per arrivare ad averlo non bisogna avere paura di vivere e di amare noi per primi.
Cerchero' il piu' possibile di non dimenticarlo mai.

Se potete, fatelo anche voi.
Buon Anno a tutti.


giovedì 23 ottobre 2014

Affidarsi alla vita, oltre il dolore: parola di Simona Atzori




A un certo punto bisogna lasciarsi andare alla vita, che racchiude anche la morte, inevitabilmente.
Sono certa che mia mamma sarebbe stata d'accordo.
Spero un giorno di riuscire ad andare oltre la rabbia che ancora, a tratti, mi fa vibrare.

Conoscere, seppur solo virtualmente, Simona Atzori è stato in ogni caso un bel dono.
Prima di parlarci era un po' sospettosa: come si fa a condividere una perdita così, mi domandavo.
E invece, parlandoci e vedendola negli incontri pubblici caricati in Rete (oltre che guardandola ballare), mi sono resa conto che la sua è un'energia autentica.

Ognuno ha la sua, come Simona sa perfettamente, ed è proprio il rispetto in se stessi che la ballerina-coreografa orfana della mamma che ha contribuito a renderla ancora più in gamba di quanto, forse, non sarebbe stata comunque, riesce a suscitare in chi la ascolta.

Non sapevo che cosa fosse il coaching motivazionale: quello che pratica lei, ad ogni modo, mi piace.

Il mio grazie è insomma sincero, più di quanto possa sembrare dall'intervista, per forza di cose dal tono un po' più istituzionale di quello che adopero qui.

Finché abbiamo sangue pulsante non rinunciamo a vivere. Chi se n'è già andato non ce lo perdonerebbe mai.
Supererò la rabbia.
O comunque la incanalerò in qualcosa di positivo.

Buoni giorni, amici.