Lavorare stanca, diceva Cesare Pavese. Eppure, al lavoro dei campi e alla bellezza dello stare a contatto con l'aria, il vento, la pioggia e il fuoco aveva dedicato uno dei suoi libri più belli.
Oggi, probabilmente, sarebbe costretto a rivedere il suo pensiero. Non lavorare stanca molto di più.
Per questo, poi, si finisce per inventarsi dei simil-lavori o per buttarsi anima e corpo nel sostegno ai familiari anziani o malati.
Niente di male, intendiamoci. L'una e l'altra strada seguite dai senza paga sono forme di resistenza alla fine del lavoro salariato e dipendente.
L'estate scorsa ho letto ben due libri in proposito, ma qui non mi va di fare sfoggio di finta erudizione.
Piuttosto, volevo parlare delle ferie che ha preso la mia edicolante scontrosa, quella che quando mi vede comprarle un giornale, vorrebbe che sparissi in una frazione di secondo.
No, non ce l'ho fatta a cambiare edicola, come mi ero ripromessa qualche post fa. Semplicemente, ho lasciato passare qualche giorno prima di ritornare da lei che, incredibilmente, mi ha accolto con un sorriso.
Forse, non vedermi troppe volte di seguito le fa bene: magari capisce che sono una delle poche persone che legge (stupidamente) ancora i quotidiani e che, tutto sommato, guadagnare qualche spicciolo non è così malaccio.
Fatto sta che dopo quel sorriso è tornata al suo standard rugnoso. Fino all'altro ieri, quando l'ho incrociata mentre attraversava la piazza.
Questa volta, non solo mi ha sorriso, ma addirittura mi ha chiamato per nome!
Io, invece, andavo di fretta, infreddolita e incupita da un fastidioso contrattempo. La sua cordialità ritrovata mi ha disorientato. Com'era possibile? Qualche ora più tardi s'è svelato l'arcano.
L'edicolante è andata in ferie. Ebbene sì: ha chiuso i battenti fino all'1 gennaio dell'anno incipiente e chi s'è visto s'è visto.
Evidentemente, a lei, di stare ore e ore in quel bugigattolo freddo, con i pochi clienti che ancora si ostinano ad acquistare carta scritta, proprio non gliene va. Peggio ancora adesso, sotto le feste, con le "orde" di turisti e cittadini a spasso, tutti lì a costringerla a darle incalcolabili resti di monetine. Per carità, troppa fatica.
Idem ha fatto la gelateria (e del resto, chi è che compra il gelato d'inverno?) che ha preferito sprangare le serrande.
Poco fa ha citofonato una giovane rilevatrice del censimento per farci la ramanzina. Ebbene sì, non abbiamo ancora compilato il modulo: i disoccupati et similia hanno un sacco di impegni, mica possono perdere tempo con la burocrazia?
Tra i due episodi c'è un nesso. Eccome se c'è.
Se ci fosse un mercato del lavoro serio e una politica (nel senso proprio del termine) altrettanto accorta, non sarebbe possibile chiudere i battenti in tempo di ferie o, viceversa, non si potrebbero costringere malcapitati ragazzini a lavorare giusto alla vigilia di Natale. Perché, ne sono sicura, nei giorni scorsi non ci ha cercato proprio nessuno.
Edicolante carissima, se qualcuno ti avesse tenuto aperta la rivendita in questo periodo, ti avrebbe fatto schifo? E tu, gelateria, che ne dici?
Ugualmente, Comune e simili, perché assumere, a ridosso della festa più importante dell'anno, dei poveri cristi in cerca di reddito, spedendoli all'uscio di gente impegnata a fare cappelletti e pacchetti?
Intanto, lo spread sale e i risparmi vacillano, mettendo a rischio anche le speranze di quelli che non vogliono arrendersi. Lavorare stanca, non lavorare stressa e abbatte, ma ancora di più logora sentirsi senza prospettive.
In questa condizione oggi quanti saremo? Molti di più di quanto potessi immaginare, almeno dal piccolo sondaggio che ho potuto fare in questi giorni di numerosi scambi e incontri.
Al contempo, però, c'è ancora molta ricchezza e, diciamolo, diversi privilegi. Perciò, le voci di chi vorrebbe fare, con competenza, serietà e umiltà, restano flebili.
Ho appena dato l'ok a un mio amico che ha intenzione di documentare come vivono i professionisti sciolti da contratto. Leggendo la sua richiesta, ho sentito come una scossa: diavolo, sono proprio come mi descrive lui, appartengo anch'io al gruppo di quelli "in perenne stato di precarietà e con scarse tutele sociali", una categoria che annovera "i lavoratori autonomi che operano nel campo della conoscenza come fotografi, architetti, grafici, sceneggiatori, programmatori, traduttori, copywriter, blogger, videomaker, musicisti", come scrive nella sua mail.
Quando ci sei dentro, finisci per dimenticartelo, fingendo, con te stesso, prima ancora che con gli altri, che tutto vada bene, che tutto sia sotto controllo.
Del resto, i dolori più forti, persino il travaglio, li dimentichiamo. Se non fosse così, cadremmo in un'angoscia, questa sì perenne, altro che reddito precario.
Perciò, ok, ci sto a fare la professionista senza (o quasi) tutele, ci sto a fare lavori non troppo qualificati; potendolo fare (ma sono troppo vecchia: dubito che mi avrebbero selezionata), sarei andata anch'io a bussare alle porte degli italiani alle prese con il capitone, però sogno un giorno in cui saremo chiamati a dare il nostro contributo con la dignità che meritiamo. E con la competenza che abbiamo accumulato anno per anno, giorno per giorno, con amore e dedizione per ogni passo in più realizzato. E non mi riferisco solo ai freelance come me, ma parlo anche a nome del tecnico delle bombole, della rilevatrice del censimento, dell'operaio tuttofare, e, sì, anche dell'edicolante a corto di motivazione.
Dignità vuol dire anche equo compenso, giuste condizioni di lavoro e adeguati ammortizzatori nei momenti di crisi.
Dignità vuol dire rispetto vero per la vita di ciascuno.
Da quest'ultima non si dovrebbe mai andare in ferie.
Buon Natale, amici.