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martedì 17 settembre 2013

Amazzone in tempo reale, una lezione di dignità in forma di libro

Foto di Loretta Emiri, autrice di Amazzone in tempo reale, Livi 2013

Non è facile recensire Amazzone in tempo reale di Loretta Emiri. Pur essendoci conosciute meno di due anni fa, Loretta è infatti diventata una delle mie amiche più importanti: l’ansia da prestazione è così divenuta davvero consistente, soprattutto perché i temi che affronta nel suo libro mi graffiano la pelle più delle unghie dei miei gatti. Per tentare di vincerla, comincio intanto col dire che è solo merito di Loretta se, capitolo dopo capitolo, ho imparato a distinguere i nomi e le abitudini di quel che resta delle popolazioni autoctone del Brasile (e non solo di quest’ultimo), cogliendo in più di un passaggio quanta nostalgia si sia sedimentata nell’anima, negli occhi e nella stessa postura della mia amica dal bell’accento umbro. Dopo circa vent’anni di condivisione sempre più intensa della cosiddetta causa indigenista, Loretta è tornata in Italia, che deve esserle davvero sembrata una prigione, umida (anzi fredda, non solo meteorologicamente) e angusta.
Non si tratta di farsi passare per amici degli ultimi della terra, per un frainteso senso di solidarietà con “chi sta peggio di noi”. Loretta non è tipo da sentimentalismi a buon mercato. La sua apparente durezza (anche nella lingua che adotta) è frutto di una sofferta crescita interiore, di una lucida (fin troppo impietosa) autoanalisi, tipica delle menti più vivaci. La mia amica stana l’ipocrisia come saprebbe fare solo un animale con la sua preda. Una volta che l’ha scovata, si può star certi che ce lo farà sapere. Ci lavorerà su per giorni, per anni, forse, ma prima o poi la sua riflessione si trasformerà in testo scritto, in un “brano”, come definisce lei stessa i capitoli che compongono il libro. Illuminante è, per esempio, la descrizione degli appunti-patchwork dai quali ha tratto l’ultimo brano, il più duro, probabilmente, comunque il più adatto a chiudere la sua originalissima rielaborazione dell’esperienza brasiliana, ricca di aneddoti tratti dalla sua vita di formatrice di insegnanti indios, un incarico che l’ha messa in contatto diretto con diverse realtà: innanzitutto con gli indios, ai quali Loretta dedica le parole più dolci, per via delle molte occasioni in cui le hanno mostrato amicizia, accoglienza semplice e profonda condivisione; poi con i missionari (e le suore), che non sempre descrive con parole accomodanti (tutt’altro, in certi passaggi), per via delle troppe occasioni di mancato incontro non tanto con lei, quanto con gli esponenti delle popolazioni native; infine con i politici brasiliani e in generale i discendenti dei conquistadores, non sempre in grado (per essere diplomatici) di offrire vero supporto alla causa indigenista.
Non sto mettendo le mani avanti, ve l’assicuro, è solo che, man mano che scrivo, capisco ancora di più perché mi fosse difficile stendere una recensione accurata e onesta del libro di Loretta, un’opera essenzialmente autobiografica, cui però si mescola, per forza di cose, la storia con la S maiuscola, riconosciuta tale solo in anni molto recenti, anche grazie all’azione di persone come lei e degli indios dall’autrice medesima resi immortali proprio con i suoi racconti.
Sì, era davvero arduo realizzare una sorta di diario ragionato degli anni presumo più belli della vita vissuti dall’autrice finora (ma essendole amica, ovviamente le auguro di passarne di mille altri di periodi così) e al contempo confrontarsi con la complessità della questione amazzonica, resa ancora più intricata dalla presenza di altri “povirazzi” (alla Montalbano) espulsi da una globalizzazione sempre più aggressiva, la stessa che anche in Europa sta facendo vittime di ogni genere.
Che dire, poi, delle delusioni che sento inevitabilmente anche mie, provocate in Loretta da un mercato editoriale pressoché asfittico, ostile, quasi, alle voci fuori dal coro, coriacee all’editing contemporaneo, capace di promuovere troppo spesso solo storie in serie?
E pensare che, all’apparenza, il libro di Loretta potrebbe attrarre un certo tipo di editoria impegnata, amica dei popoli, sinistrorsa, diciamo così. Come già accennato, però, l’autrice non è capace di fingere, non apparterrà mai ad alcuna parrocchia, né santa né laica. Lo si capisce bene già dal passaggio che riporta nella quarta di copertina, laddove sgombra il campo sul più macroscopico degli equivoci in cui noi occidentali cadiamo quando parliamo di Amazzonia (e anche di Africa, aggiungerei). Tutelarne la sussistenza non coincide affatto con la salvaguardia del “polmone verde del mondo”, una definizione che mai verrebbe in mente agli Indios. Se questi ultimi vogliono difendere l'Amazzonia, infatti, non lo fanno di certo per ragioni ecologiste. Semmai per ragioni ecologiche, nel senso primigenio del termine: se sparisce la foresta, ci dicono gli indios da anni, spariamo noi. Il che significa la fine di un modo diverso, non alternativo nel senso che l’aggettivo ha assunto durante l’era hippy, di vivere. Se cancellate l’Amazzonia, gridano come possono, cesserà per sempre un modo differente di stare al mondo, al quale stiamo già rinunciando, pezzo dopo pezzo, per via dell’ormai non più cancellabile contatto con voi bianchi.
Tra gli esempi di contaminazione già in atto, in particolare, Loretta si sofferma sul rimpicciolimento di alcuni oggetti di artigianato cosiddetto etnico per dare agli occidentali che li acquistano la possibilità di trasportarli più agevolmente.
Di per sé, a mio avviso, i contatti tra i popoli sono sempre arricchenti, ma diventano di altra natura quando non c’è equilibrio tra le parti.
I piccoli fanno sempre grande fatica a cavarsela. Posso ben dirlo io, dall’alto dei miei 152 centimetri.
Allo stesso tempo, i piccoli possono comunque creare qualche ostacolo, con il cervello, il cuore e le parole. Questo, certo, finché non si passa sul piano della forza fisica.
Fino a quel giorno, però, non si potrà fare a meno di lottare, mostrando con il proprio stesso stare al mondo una dignità da giganti.
E Loretta è un vero e proprio Golem di dignità, in ogni cosa che fa.
A lei, il mio più sentito grazie.
A voi, che di certo adesso acquisterete il suo libro, buona lettura.

giovedì 20 settembre 2012

Natsume Soseki, una scoperta preziosa


Detto fatto: ho cercato qualche informazione in più su Natsume Soseki, nella foto sopra, tratta dalla pagina Web della casa editrice Neri Pozza che ha tradotto immagino una parte della produzione letteraria del grande scrittore giapponese.
Oltre a Io sono un gatto credo che varrebbe la pena leggere Guanciale d'erba, il libro preferito di Glenn Gould (noto misantropo afflitto da strane manie igienistiche, quindi proprio il genere che piace a me, che sono un po' masochista) e E poi, incentrato sull'amore di un rampollo di buona famiglia per una giovane dallo sguardo malinconico e gli occhi grandi (masochista e pure romantica, che brutto carattere).
Direi che il tipo dalla raffinatissima scrittura se lo meriti, considerato come ne ho fatto la conoscenza, ossia per via dell'errore di una cassiera che me l'ha infilato nella busta degli acquisti senza farmelo pagare.
Certo, ho ancora diversi tomi (e tomini, che non sanno di formaggio. Uh, che battuta) da affrontare, ma tanto lo so che non ce la farò mai e che continuerò ad accumularne di nuovi.
In ogni caso, Soseki è stata davvero una bella scoperta. Ed è sempre piacevole accorgersi che c'è sempre spazio per imparare ancora.

martedì 15 maggio 2012

Giulio Brillarelli, uno scrittore di gran classe... nonostante la coppola


Non mi capita molto spesso di chiudere un libro e di restarci male perché è già finito.
Mi è successo invece proprio così con i diciassette racconti di Jack Birindelli, lo sciocco ma tenero pseudonimo dietro il quale si nasconde Giulio Brillarelli.
Conosco Giulio dal 2005, giorno più giorno meno, ossia dagli anni mitici e mitizzati della Voce delle Marche, il settimanale diocesano di cui io ero redattrice e lui collaboratore esterno.
Che fosse bravo, anzi bravissimo, mi era chiaro già allora, quando mi stava accanto a scribacchiare le sue brevi in ciabatte di gomma e camicia hawaiana. Non parlava molto, il nostro validissimo giornalista in erba, ma quando lo faceva profferiva sempre una miscela di stronzate e di genialità che ci lasciavano secchi.
Al contempo, avevo già intuito l'idea che Giulio fosse molto di più di un aspirante collega, ma uno scrittore fatto e finito, giusto un po' naif (lo prendevamo regolarmente in giro per il suo abbigliamento non proprio elegante, infatti. Negli anni è decisamente migliorato: adesso porta la coppola anche a giugno, come lascia trasparire dalla descrizione di un suo personaggio).
Mai mi sarei potuta immaginare, però, all'epoca avesse già scritto la quasi totalità dei racconti che si è di recente autoprodotto con Ilmiolibro.it, intitolandolo Bionde, fantasmi, pasticceri e brutti figli di puffana.
Che risalissero a un periodo della vita ormai lontano per tutti e due (anche se Jack ha esattamente dieci anni meno di me: classe 1981, gli anni di piombo agli sgoccioli), l'ho scoperto solo qualche sera fa, quando Giulio è venuto a casa mia con il nostro ex mentore, il grandissimo e da noi molto rimpianto Giuliano Traini, il direttore di quel piccolo gioiello di stampa locale ahimè mai più ripetibile.
Pure quella sera Giulio se n'è stato zitto per quasi tutto il tempo, ma con gli occhi seguiva i miei sguardi di simpatica presa per i fondelli indirizzati all'ignaro diretùr, dandomi ulteriore conferma della sua sagacia.
La prova più tranciante di quest'ultima, però sono proprio i suoi racconti, in cui l'autore ha alternato stili e lunghezze diverse.
Il tema dominante è, se posso permettermi, tipico di un giovane scrittore, ossia l'amore, inteso come struggimento per la sua mancanza, come innamoramento zuccheroso per la sua presenza (davvero frizzanti Albricorilla e Bionda naturale) oppure incazzato per la fine inattesa.
Interessante la parentesi musicologa dedicata ai nove Greatest hits della sua adolescenza, tra cui (purtroppo!) anche Laura non c'è, ma accidenti se è scritto bene pur trattandosi di una canzone di merda!
E, a proposito di quest'ultima parola, Giulio è capace di scriverne di ben peggiori trasformandole in vera letteratura. Strizzerà anche l'occhio ad altri autori che del turpiloquio hanno fatto una vera e propria poetica trash, ma a me il suo sembra molto efficace e divertente.
Meno (non me ne voglia) mi piacciono le sperimentazioni più ardite, quelle in cui rimescola le frasi, alla maniera di Alessandro Bergonzoni. Ma se davvero è intenzionato ad addentrarsi ancora di più sul sentiero della letteratura dadaista, di certo non sarà questa mia recensione improvvisata a fargli cambiare idea.
In tutti i modi, concludo con quel che gli ho spifferato anche dal vivo: Giulio è uno di quegli autori capace di incollarti alle sue parole facendoti dimenticare che intanto il tempo se ne va e tu non sei più bambina (mi pare di aver letto anche il nome di Celentano tra le sue pagine: e se non c'era, beccatelo un po', tu che ascoltavi - ascolta-VI, vero? - Nek).
Beh, bambina (a parte i 152 centimetri di bassezza) non lo sono più da un pezzo, ma non dovrei essermi ancora rimbecillita (tra poco viene a prendermi l'infermiere, devo fare presto) ed è proprio per questo che voglio concludere la presente nota con una preghiera, accoratissima, rivolta all'autore: vai avanti così, Giulio, tu sei fatto per scrivere e per i lettori che non aspettano altro che di leggerti.
Ci conto, ci contiamo. E beccati anche questa: grazie.

Alessandra Cicalini