Gli anticorpi non collaborano, ma cerco di non pensarci concentrandomi piuttosto su ciò che di bello mi è successo non meno di ventiquattr'ore fa.
Sotto il piatto rovesciato della cena ho trovato
Snob, l'ultimo album del
Maestro Paolo Conte.
A regalarmelo, naturalmente, il suo omonimo fumatore di pipa, che ha così facendo anticipato l'acquisto che già aveva in mente di fare per me. E' riuscito a sorprendermi: anzi, sono riusciti a sorprendermi entrambi.
Perché se è vero che
nel nuovo disco dell'avvocato astigiano si trova, inevitabilmente, l'eco di sue canzoni e pezzi del passato (le parentesi mi contraddistinguono: non potrei smettere di usarle neanche volendo, come Conte con il kazoo e le sue note sgangherate alla Duke Ellington), in
Snob ho trovato anche
una freschezza tutta nuova, che per esempio non c'era in
Nelson, uscito a troppa pochissima distanza dalla scomparsa di Renzo Fantini, grande amico e mentore del Nostro.
Molto originale è per dire
l'impostazione del brano che dà il titolo all'intero album, che vola via in soli 49 minuti e una manciata di secondi: la melodia è malinconica, francese come solo un italiano savoiardo (all'incirca!) può essere, ma le parole sono sottilmente, sfacciatamente, ironiche.
Quanto si deve essere divertito a giocare con i suoi stilemi più conosciuti: l'amore che muore, il tinello marron e l'italiano che non parla il tedesco, tornano potenti in questa canzone così apparentemente semplice, poche note cucite con una classe e una sapienza da capo indiano che mi hanno
davvero scaldato il cuore.
Seduta sul divano rattoppato che tanti momenti ha visto del mio più antico e recente passato, mi sono lasciata andare all'ascolto in cuffia dei quindici pezzi che compongono il nuovo lavoro contiano, alternando brividi, sorrisi interni, sorrisi aperti, battere di piedi e qualche lieto aggrottare di sopracciglia, come solo con lui mi succede.
Avevo quasi scordato che effetto mi fa ascoltarlo.
Sono successe troppe cose negli ultimi mesi, troppo dolore, troppa rabbia, troppa poca buona vita.
Ieri sera, dopo tanto tempo,
mi sono re-innamorata di lui e della sua musica, come nel brano (tra quelli che mi ha richiesto un ascolto più attento) che ha chiamato
Gente, che ha per sottotitolo un acronimo che per l'appunto significa "che si innamora di noi".
Mi sono immaginata, leggendone le parole, che sia stato scritto per parlare dei fan, di noi fan, stregati e avvinti come bambini davanti ai cartoon.
Non mi ha richiesto nessuno sforzo, invece,
innamorarmi di
Fandango, nella sua commovente perfezione. Sono anzi sicura che sarà successo lo stesso a chi segue il Maestro praticamente da sempre.
Mio cognato
Massimo Del Papa ha giustamente ricordato che sono ormai
quarant'anni che l'avvocato con i baffi da gatto si è trasformato in un cantautore: mi sto sempre più convincendo che la mia nascita giusto agli esordi del decennio più difficile della storia italiana recente (tolto il momento presente, che però non riesco, ovviamente, a comprendere appieno) abbia segnato per sempre anche i miei futuri gusti non solo musicali.
Dovevo incontrare, un giorno, il Maestro astigiano: era scritto nel mio Dna, nelle nebbie abruzzesi così diverse da quelle della pianura padana, ma così simili per il romanticismo sottotraccia che mi si è appiccicato addosso.
Come Conte,
sono una provinciale anch'io, abituata a cibi "sostanziosi", come scrive sempre in
Snob, a canti "che van bene per soldati e muli", alla presa in giro di chi, di più nobile lignaggio vero o presunto, se la tira, l'unica arma di difesa possibile contro chi sarà sempre più educato e colto di noi.
E chissà se
quella nostalgia per anni che non abbiamo mai vissuto non sia stata provocata dall'essere cresciuti in
luoghi appartati, eternamente vintage nonostante la globalizzazione, in mezzo a quegli odori di campagna che ogni tanto si fanno largo pure nella piazza principale della città, protetti da quei maglioni blu dei papà ragionieri e le gonne a metà ginocchio delle mamme maestre, coccolati dagli zuccheri saturi dei diplomatici della domenica e delle patatine consumate lungo la strada del ritorno dalla messa con l'amichetta del cuore.
A differenza sua, però,
a casa mia non circolava musica jazz, ma molta (non sempre buona) musica italiana. L'omonimo con la pipa mi ha preso in giro per anni per una musicassetta (un nastro, come diceva sempre mio zio Gigi) di Fausto Papetti. Ovviamente, non era mia, ma ne rammento vagamente la copertina, così simile a una delle peggiori, anche per lo stesso Conte, della sua produzione anni Settanta.
Volente o non nolente, insomma,
anche sul Maestro sono rimasti attaccati quegli anni là, quelli del suo esordio: ai colori acidi delle Polaroid delle ricorrenze di famiglia, mi riportano
diversi brani del nuovo disco, in particolare
Glamour, con quel tedesco veramente improbabile e perciò simpatico, poi, almeno in parte,
Incontro e soprattutto
L'uomo specchio, con quella costruzione del testo presa pari pari dalla
Settimana enigmistica.
Non sono in grado di cogliere la maggior parte dei giochi linguistici del Nostro, vista la mia totale imperizia con sciarade e rebus (mentre sono praticamente un asso con i crittografici), ma ho la certezza assoluta che
i suoi momenti di relax siano spesso impiegati nella costruzione di calembour e boutade di varia natura.
Me lo figuro mentre ride da solo per qualche invenzione un po' demenziale, mentre si arrotola i baffi ghignando contento.
Immagino che abbia una
fantasia immensa e meravigliosa, direi, finalmente,
cinematografica.
Ve lo confesso: finora non avevo
mai completamente capito perché più di qualcuno abbia attribuito questo aggettivo alla musica di Conte.
Posso dirlo di averlo compreso pienamente solo adesso, con
Snob, ascoltando in particolare, tra i pezzi di sapore sudamericano,
Argentina e
Manuale di conversazione, più che
Tropical, la canzone che ha anticipato l'uscita dell'album, e
Maracas.
Perché mi sembrano cinematografici? Semplice: perché ho proprio visto, chiaramente, davanti a me,
l'autista peruviano di camion che carica l'autostoppista italiana e che alla fine è contento che scenda, non essendo in grado di imbastire neanche la più banale delle conversazioni, e
gli italiani emigrati che frustano le scarpe dei ricchi fazenderos, sotto un cielo bianco che fa star male per la nostalgia.
Ha giocato più volte, Paolo Conte, con i ritmi e le suggestioni dell'altro capo dell'Oceano Atlantico, ma soprattutto nella produzione più matura, penso in maniera particolare all'album
Elegia, la freschezza di brani come
Messico e Nuvole e
Sudamerica avevano lasciato il posto alla fatica del
vecchio proprietario del Mokambo, che non si rassegna al tempo che non torna più.
Cinematografici anche quei brani, sì, ma in modo triste, quasi tragico, direi.
In
Snob, invece,
la leggerezza è tornata a spruzzare di amore per la musica tutti e quindici i pezzi, alcuni dei quali, c'è da scommetterci, appartengono a
epoche passate, come il ritratto di copertina del Nostro, che pare arrivare direttamente dagli eterni Seventies.
Se non li aveva ancora tirati dal cassetto, evidentemente,
non erano ancora maturi: potrà sembrare strano, ma sono assolutamente certa di ciò che sto per scrivere.
A settantasette anni suonati,
Paolo Conte è cresciuto ancora, passato com'è da un lutto così serio come la morte del suo sodale Renzo e dalle morti, presumo altrettanto dolorose, di un sacco di persone fondamentali nella sua spero ancora lunghissima esistenza.
Sto parlando anche di me, è evidente, ma
la grandezza di Paolo Conte è talmente universale da lasciare davvero disorientati tutti quelli che vorrebbero mettersi lì a cercare di capirlo, fingendo una gravità che il Nostro assolutamente non possiede.
Più invecchia, anzi, più prende in giro. Sé, innanzitutto, e gli altri.
Perché l'unica cosa da prendere sul serio è la musica.
Quella per cui è nato.
Basta solo assistere a un suo concerto, senza paraocchi e abiti sbagliati, per comprenderlo pienamente.
Non vedo l'ora di rivivere quella
magia.
Grazie ai Paoli della mia vita.
E buon ascolto a tutti noi.