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lunedì 24 novembre 2014

Le attese (e i telefilm) del cuore


Ispirata dal doodle di google di oggi, rubo questo magnifico ritratto di Henri de Tolouse Lautrec, alto 131 centimetri (vicino a lui mi sarei sentita una gigantessa... lasciamo perdere). Non lo conoscevo, lo trovo veramente bellissimo.

Sono in attesa di avere notizie da mio padre, secondo i miei calcoli ancora in ballo tra i reparti.
Sembra, ma lo dico pianissimo, che stavolta abbiamo incontrato personale medico di altra pasta, compresa, tra l'altro, la giovane dottoressa albanese, a mio personale avviso incrociata sul nostro cammino come risarcimento per la precedente non proprio positiva conoscenza.

E comunque sia, ci riflettevo giusto in questi giorni.
Il mio cuore è cambiato. Ho sempre abbastanza terrore di ospedali, malattie e disgrazie varie, ma mi sono ritrovata a percorrere i corridoi del grand hotel della salute teatina (si fa per dire, ovviamente) con molta maggiore leggerezza di quella che mi sarei aspettata.
Che dire? Speriamo bene.

Quando avrò un po' più di tempo, scriverò dell'altro, non di specifico su questa faccenda.
Vorrei raccontarvi, per esempio, del telefilm, vecchio naturalmente, che sto seguendo in questo periodo su Giallo.
Parlo del Giudice Amy, Judging Amy in English, nel quale, tolti i buoni sentimenti tipicamente americani, ho trovato un molto verosimile rapporto madre-figlia che mi ha allargato quel muscolo di cui sopra.

Mi piacciono moltissimo gli scambi tra le due attrici, Tyne Daly (la madre) e Amy Brenneman (la figlia). Leggiucchiando qua e là in rete, ho scoperto che la figura del giudice incarnata dalla riccia Amy si ispira alla sua madre vera. E la cosa, immaginerete, me l'ha resa ancora più simpatica.

Insomma: ci tornerò su.
Sotto vi linko un breve frammento del trailer iniziale, ovviamente in English (quanto mi piace fingere di saperlo):




See you later, friends.

sabato 7 giugno 2014

Oltre la rabbia, a testa alta



E' bastata una brevissima ricerca su google per scoprire nome e cognome della zoccola che ha risposto in modo indegno non solo a me, persona nervosa e incazzosa, ma anche a mia sorella, persona posata e razionale. Persino lei ha finito per esclamare: "Ma è etico comportarsi così per un medico?"; con faccia livida di costernazione.

Poi però, in compenso, ci sono le giovani allieve infermiere che ti dicono "mi dispiace, che discesa rapida, hai gli occhi come tua mamma" e soprattutto l'angelo di Marina, una giovane degente sempre più sconfortata per l'assenza di risposte e di terapie certe, che ha dormito accanto alla nostra luce tutti questi giorni, vegliando su di lei con una naturalezza incredibile, nonostante fosse via via sermpre più stufa di starsene buttata in quell'anonima corsia.

Non ho fatto neanche in tempo a chiederle il cognome, vorrei tanto sapere quando la dimettono. Spero lunedì, come le hanno promesso.
Marina, grazie di cuore, davvero. A te e ai tuoi fantastici genitori. Era destino che incontrassimo proprio voi, con la vostra discrezione, la vostra evidente onestà. Grazie davvero.

Domani ci aspetta una giornata dura. A chi ci vuole bene, abbiate pazienza se qualche volta non sapremo assolvere bene il nostro compito di familiari affranti.
Vorrei però arrivare a testa alta lunedì mattina, terrò duro durante la messa (almeno spero), mettendo da parte tutto il mio tetro agnosticismo.

Lo faccio per una ragione importante. Ci riuscirò.

Non è il tempo delle vendette né della rabbia.
Giustamente una zia medico stamattina mi ha detto: "La vita è breve e chiede a tutti. prima o  poi, i conti". Chi ha fatto male, chi fa del male, sparirà come tutti, ma a futura memoria resteranno solo le gesta negative, la memoria della sofferenza causata agli altri.

Mentre chi ha fatto del bene resterà per sempre nei ricordi più belli. Più grandi.
Non riesco a dire altro. Non voglio dire altro.
Non ti tradirò mai. E' una certezza.

giovedì 5 giugno 2014

La mia battaglia anti-ipocrisia e gli scherzi (belli) della stanchezza



Ve l'ho detto: è cominciata la mia personale guerra di liberazione dalle ipocrisie.
Per una volta, però, racconto un episodio semi-divertente. Almeno ci provo.
Torno davanti alla porta del reparto e, trovandola chiusa, mi intrattengo a scambiare due chiacchiere con uno dei miei zii, in paziente attesa di entrare. Oggi non era giornata: c'erano talmente tante barelle lungo il corridoio che era assolutamente escluso che potessimo andare in massa da mia mamma fuori dall'orario delle visite. Che poi, tra l'altro, neanche in assoluto ci si può assiepare in una stanza in cui è ricoverata anche una povera ragazza sull'orlo di un esaurimento nervoso. Ed è obiettivamente giusto così.

Mio zio, che è un vero signore d'altri tempi, mi chiede se mi voglio sedere. "No, grazie, sono stata seduta fino ad ora". Mi accorgo delle persone accanto a lui e di lato, verso destra, rispetto a me. Prima del mio arrivo, evidentemente, stavano chiacchierando del più e del meno (in prevalenza di malattie, immagino, visto il "milieu". Che di sicuro non significa ciò che penso io). Fatto sta che un vecchietto in ciabatte, un po' grosso, mi fa: "Così se resti in piedi cresci". E giù risatine, non tanto sue quanto delle due signore tra mio zio e lui medesimo. Io mi giro verso di loro e dico: "Eh, ormai". E quelle, non contente, rincarano la dose, ridacchiando e borbottando qualcosa che adesso non ricordo, comunque devo aver percepito in loro un vago scherno che mi ha infastidito assai (da brava cancerina permalosa).
Rivolgendomi direttamente a loro ho infatti detto con un sorriso, non so quanto serafico, sul volto: "Ognuno ha il suo fisico - pausa teatrale, assolutamente non studiata - e il suo peso".

Una piccoletta come me sullo sfondo annuisce soddisfatta. Subito dopo però osservo meglio le "signore" e mi accorgo della loro ragguardevole massa corporea. Non ridevano affatto. Anzi, mi guardavano serie serie.
Che dire?
La stanchezza gioca anche begli scherzi.
Avanti il prossimo, forza.
Come in C'è posta per te, il remake del mio film preferito, Scrivimi fermo posta, "sono andata ai materassi".

Hop hop.

giovedì 29 maggio 2014

Badanti straniere, stop al pietismo


A quest'ora dovevo essere dalla mia parrucchiera a farmi un trattamento probabilmente inutile ai capelli. E invece, per via di uno sciopero dei treni di cui non avevo la più pallida idea, sono a pochi chilometri dall'orrido posto. Che, detto tra parentesi, è meno brutto di altri ospedali, ma resta pur sempre un luogo di grande, grandissima sofferenza, tranne che per pochi casi (le nascite: ho incontrato diverse giovani mamme con i loro frugoletti. Mai provata una tenerezza così partecipata, dev'essere un'altra strategia psicologica di resistenza).

Volevo prendermi due giorni di pausa. Non di più. Giusto due giorni per tornare alla mia vita, precaria assai, sì, ma comunque cadenzata da impegni e pure qualche piacevolezza.
Tutto rimandato a domani, ma scrivere da questa casa innaturalmente silenziosa non mi dà molto conforto.
Scrivo per sfogarmi, come altri pregano, cantano, piangono.

Volevo raccontare della dottoressa di mia madre e della sua visione dell'immigrazione dal generico Est, ma mi accingo a scrivere lo stretto indispensabile: sono troppo stanca.
Accenno solo alla reazione di mia madre, che ascoltava e nonostante la debolezza evidente, annuiva.
Basta con il pietismo nei confronti di queste stronze che si insediano nelle nostre case e poi ce la mettono in quel posto, sosteneva con parole un tantino meno dirette (ma solo per il luogo in cui ci trovavamo, altrimenti, secondo me, ne avrebbe dette di ben peggiori).
Anche noi abbiamo fatto un sacco di sacrifici, ma chi ce li riconosce? Aggiungeva.

Ricordiamoci della nostra storia, proseguiva, pure noi non avevamo niente.
I miei genitori erano poveri come loro, ma mi hanno fatto studiare e se io oggi ho qualcosa è solo grazie a loro. Sono medico, ma a me nessuno mi ha dato niente. Me lo sono sudato fino all'ultimo.
Poi arriva la stronza di turno che si fa assumere per ottenere il permesso di soggiorno, dopodiché, una volta avutolo, si licenzia e a distanza di qualche mese mi fa una causa di lavoro sostenendo che l'ho tenuta un mese in nero. Ma ti rendi conto? 

La simpatica badante, precisava il medico di mia madre, si è fatta assistere da una battagliera sindacalista della Cisl, contro la quale non c'è stato nient'altro da fare che patteggiare. Perché, sì, il mese di nero c'era stato, ma l'aveva voluto lei proprio per via del permesso di soggiorno scaduto. Quest'ultimo, peraltro, rinnovato indicando come residenza la casa dell'anziana madre (cieca) della medesima dottoressa.
La povera vecchia è passata, insomma, per una sfruttatrice del povero lavoro migrante.

Com'è finita questa storia? Vivendo sua madre a cento chilometri da lei, in un piccolo paese dell'entroterra abruzzese, non c'era altra scelta che portarla alla casa di riposo.
Almeno lì, mi ha spiegato la dottoressa, ci lavorano tutte persone del posto ed è trattata bene.
Certo, la mettono a letto alle otto e mezzo, mentre lei era abituata a restarsene in piedi fino a mezzanotte davanti alla tv. Anche se poi le ho detto: ma mamma, quando mai l'hai guardata fino a così tardi? Dopo poco ti addormentavi!

Anche la mia mamma guarda (guarda) la tv fino a tardi, ma a un certo punto, se ti affacci in cucina, la trovi con la testa reclinata sul petto.

Non so dare un giudizio così tranchant sul fenomeno del badantato straniero, però devo ammettere che un po' d'accordo con lei lo ero.
Quanti sacrifici sto facendo e ho fatto anche io finora?
A saperlo prima andavo a lavorare a diciotto anni (ma pure prima) anziché studiare.

Non è mia intenzione lamentarmi, però, se non ho votato e non voterò, penso, per un bel po' di anni a venire, è perché di me e di quelli come me non si occupa nessuno.
Ho la grandissima fortuna di essere stata cresciuta da due persone che dirvi eccezionali è poco, ma posso garantirvi che non mi sono mai risparmiata, mai mi sono tirata indietro, mai ho preteso chissà quale trattamento privilegiato.

Ho sbagliato. Conveniva tentare il colpaccio di sposare un milionario. Ma ormai è tardi.
A questo punto mi restano poche strade. Una delle più praticabili è proprio quella di andare a fare la badante nell'est alle signore (signore? non tutte) che adesso stanno guadagnando abbastanza per tornarsene indietro ricche.
Sarei un'ottima dama di compagnia capace sia di svolgere mansioni pratiche sia di intrecciare conversazioni su svariati argomenti.

Pensateci, future anziane dell'est.
Nel frattempo, incrocio le dita. E, a mio modo (ateo, ebbene sì) prego.
Ci deve essere ancora un po' di giustizia, da qualche parte.

mercoledì 21 maggio 2014

Sanità pubblica e manchevolezze: le mie, innanzitutto



Probabilmente l'ho già scritto: io non so dialogare con i medici.
E' un mio limite, bello grosso, lo so, ma nel momento stesso in cui percepisco da parte loro uno dei seguenti atteggiamenti: indifferenza, sarcasmo, ansia strabordante e/o qualcosa del tipo non so che pesci prendere, quindi non mi rompere le balle, io chiudo la comunicazione più o meno immediatamente.

Purtroppo, a meno di non essere medici noi stessi, in presenza di malattie serie bisogna vincere l'istinto di mandarli a cagare. Perdonate il turpiloquio, ma è esattamente quello che ho pensato in più di una circostanza in quest'ultimo anno e passa.

Poco dopo l'inizio della terribile vicenda familiare che stiamo vivendo, per dire, sono uscita sbattendo la porta dallo studio di una dottoressa. Avevo torto, non nella sostanza, ma nella forma.
Sia come sia, da allora ho cercato di interagire il meno possibile con la suddetta e con la capa della medesima, che ahimè ho rivisto non molto tempo fa.

Non mi ha neanche guardato in faccia, né, soprattutto (perché pazienza per la sottoscritta: spero di non aver mai bisogno di lei o comunque farò di tutto per non farmi curare da lei), mi ha chiesto notizie della sua paziente.

Non ci posso fare niente, ma se non lo scrivo almeno qui, evitando di fare nomi (almeno per il momento), impazzisco.

In tutti i modi, mi toccherà tornare in ospedale, uno dei prossimi giorni.

Del resto, uno dei pochi vantaggi dati dalla modernità è la tecnica e l'unico modo per capire in che condizioni stia davvero una persona seriamente malata è sottoporla a tutti gli esami necessari.
Noi poveri mortali senza amici che ti procurano ricoveri di lusso abbiamo a disposizione la sola sanità pubblica.

Giustamente, una mia amica carissima che vive negli States mi ha più volte fatto presente che lì se non paghi sei fottuto.
Io però ho qualche dubbio che, se la medesima tornasse ad abitare in Italia, andrebbe a farsi curare in uno dei troppi ospedali pubblici italiani assiepati di malati nei corridoi per carenze di posti letto, dotati di arredi vetusti (se penso al letto che non si poteva abbassare dell'ospedale ternano mi torna la rabbia a mille), pareti scrostate e personale non sempre educato, forse anche per via dei troppi carichi di lavoro.

Potendolo fare, pagherei pure io, insomma. E andrei in qualche clinica svizzera silenziosa e accogliente.
L'indifferenza e l'assenza di buone maniere, probabilmente, albergano anche nelle corsie più asettiche, ma qualcosa mi dice che si tratterebbe di eccezioni che non avrebbero peraltro vita lunga.

Non sarò in grado, non lo sono di sicuro anzi, di interagire con chi percepisco respingente, in altri termini, ma è piuttosto probabile che, pagando, otterrei un servizio migliore, esattamente come se scegliessi un hotel a cinque stelle anziché una stamberga.

Alla sanità privata, detto ancora in altro modo, ci siamo già arrivati. E lo stesso sta succedendo per gli altri servizi pubblici (basta prendere qualunque inter city per rendersene conto).
Non raccontiamoci fole, in definitiva.

Faccio anche un esempio concreto: in Germania, chi comincia a usare l'insulina, viene seguito per un'intera settimana in un centro apposito, in maniera che possa imparare per bene come iniettarla e in quale quantità, se è il caso di variare le dosi.
Pur essendo bravissime, le infermiere e la dottoressa dell'ospedale di Chieti non possono permettersi di dedicare più di qualche quarto d'ora (che è comunque già un successo) ai pazienti alle prime armi perché piene fin sopra ai capelli di richieste e/o problemi.

Peraltro, per come la vedo io, proprio perché sono brave e disponibili, finiscono per diventare anche una sorta di telefono amico per malati e parenti in ansia.
Restando l'ambulatorio aperto fino alle 14, è chiaro tuttavia che non possono farcela a esaudire tutti i loro bisogni che continuano anche nel resto della giornata e nei fine settimana.

E pensare che fino a qualche anno fa si diceva che chi frequentava la scuola infermieri sicuramente non sarebbe rimasto senza lavoro.
Anche senza leggere le statistiche, usando invece il solo spirito di osservazione empirica, si intuisce che oggi non sia più così ed è tutto lì il problema.

La disumanità di alcuni va tollerata perché non c'è alternativa.
La disorganizzazione, peggio ancora, è alimentata dalla carenza di personale, oltre che da quelle personali dei singoli addetti alla sanità pubblica.

I parenti sono manchevoli spesso per definizione, per via del carico psicologico che non sempre riescono a gestire.
A farne le spese, sono solo i malati, che devono spiritualmente accendere ceri a qualche santo, o fare mentali riti vudù per sperare di uscirne oltre che vivi, anche non troppo piagati interiormente.

Questo è.
Ma tocca farsi forza e largo nei gironi danteschi redistribuiti in livelli e sperare di cogliere qualche barlume di solidarietà nei compagni di stanza e nei parenti dei compagni di stanza.
Come ci è successo a Terni, dove il figlio della signora ricoverata affianco a mia mamma ci ha regalato dei cioccolatini quando ci siamo salutati.
O dove un paziente che avrà avuto più o meno l'età di mia sorella ci guardava con occhi sgranati di dignità disperata, mentre chiacchieravamo del forum di raiuno. Anche lui, ai tempi dell'università, aveva partecipato con i suoi amici, giusto per tirar su qualche soldo. I casi sono tutti finti, ci ricordava, oggi come allora. Abbiamo riso insieme, dimentichi per un attimo del motivo per cui eravamo in quella fredda sala d'attesa.

Non so come si chiamassero queste persone e le altre che abbiamo incontrato in analoghe circostanze. A loro auguro davvero ogni bene.

E adesso torno al silenzio dell'attesa. Di quest'attesa a distanza che mi fa sentire colpevole.
Persino di ciò che sto scrivendo, perché ho paura che potrebbe risultare falso. La scrittura aiuta, certo, purché non si voglia dare spettacolo.
Perciò non vado oltre.