Sono stata una grande attrice.
Veramente. Fatevelo dire dalla maestra Filomena (sempre che rammenti bene il suo nome): sul palcoscenico mi sentivo a mio agio e mi divertivo moltissimo nei panni della figliola che racconta la sua giornata ai genitori, davanti a un piatto fumante di qualche cosa ("abbiamo mangiato veramente", ho scritto nell'album dedicato a me e alla mia famiglia che la maestra mi fece realizzare credo in quinta elementare).
La magia è durata però fino verso ai cinque anni, quando mi sono fatta improvvisamente timida. Ho ancora negli occhi l'immagine di me impalata davanti al pubblico dei genitori, non più in grado di assecondare l'emissione della mia vocetta, via via sempre più flebile, con i movimenti del corpo.
Mi ci sono voluti anni (e anni) per liberarmi dalla goffaggine. Sempre ammesso di esserci riuscita davvero.
Ricordo ancora la canzone "zingarella" eseguita pateticamente in terza elementare e le tournée con il coro parrocchiale, chiamato "minicol" (chissà perché con la elle, e non con la erre), in cui, mi diceva mia madre, cantavo a squarciagola. Mescolata nel gruppo, mi scateno. Ancora oggi è così. Da sola tendo alla tragedia, in compagnia faccio il giullare.
A quest'ultimo proposito, mi è tornato in mente un episodio della mia adolescenza giusto qualche giorno fa, dopo aver intervistato l'immensa Franca Valeri. Proprio in fondo, la signora del teatro consiglia, a chi abbia davvero voglia di confrontarsi con i grandi, di leggere Ovidio, Dante e Shakespeare. Beh, qui posso dirlo con orgoglio: il drammaturgo britannico era pane per i miei denti quando avevo quattordici-quindici anni. Mi rivedo in particolare sprofondata nel librone rilegato come una bibbia dal Club degli editori a leggere le avventure di Riccardo Terzo, Re Lear e Amleto.
Soprattutto, mi è tornata in mente quella volta in cui, davanti allo specchio del mio armadio, accovacciata per terra, mi sono messa a declamare il monologo disperato di Ofelia, ripetendolo più volte per cercare di mandarlo a memoria. Almeno, penso si trattasse di questo importante personaggio, perché sono certa di essere stata fissata anche con "il mio regno per un cavallo" e per il celebre elogio di Antonio per l'appena defunto Giulio Cesare, nonché, naturalmente, per "essere o non essere, questo è il problema".
Perché declamare Shakespeare in quella maniera? Perché avevo partecipato, per la prima volta nella mia vita, a un reading tenuto da veri attori professionisti, rimanendone fulminata.
Negli anni, mi è capitato più volte di risperimentare l'emozione del palcoscenico e di saggiarne la scomodità (il pavimento è eccezionalmente inclinato in alcuni teatri), ma mai più, credo, ho avuto modo di ritrovare la passione così immediata e così segreta di quel pomeriggio solitario trascorso a fissarmi nello specchio, tentando di modulare la voce come avevo visto fare dall'attrice poco prima.
Ovviamente, dimenticavo di specificare, quel giorno ero sola in casa: mi sarei vergognata troppo di farmi vedere dai genitori. Mia sorella, penso, era già via per l'università. Se fosse stata presente, infatti, sarebbe finita sicuramente in farsa. Ci siamo sempre bonariamente derise l'una con l'altra, allenandoci alla sottile arte del non prendersi troppo sul serio, da una parte; coltivando, dall'altra, forse un po' troppo fortemente il dubbio sui nostri talenti. E pazienza.
Diventare adulti significa ritrovarsi in altri specchi e guardarsi per quello che si è, senza eccessi nella critica e nelle lodi.
Sono sicura, per dire, che quella passione adolescenziale non sia sparita del tutto. Si è solo trasformata, diventando un pezzo della mia identità, chiunque io sia diventata oggi.
Oltre a Shakespeare, amavo moltissimo anche Pirandello, in particolare nel primo anno di liceo. Di lui non potrò mai dimenticare "Uno, nessuno e centomila", una lettura che la prof del ginnasio mi consigliò di rimandare ad anni più maturi, temendo che affrontarla allora avrebbe potuto ulteriormente minare la mia personalità-puzzle. Com'è andata a finire? Che io, una volta adulta, non sono più riuscita a leggerlo: non appena lo cominciavo, mi prendeva un'angoscia mista a noia davvero strana. In generale, non ho più aperto un libro dello scrittore siciliano, perché tutte le volte che ci ho provato, l'ho trovato fastidiosamente contorto.
Forse aveva ragione la mia prof, o forse il rigetto è stato causato proprio dal mio desiderio neanche troppo inconscio di fare fuori i paranoici dal parco-autori-di riferimento, onde evitare di alimentare la confusione ancora troppo presente, nonostante gli anni accumulati sulla faccia.
Giusto ieri osservavo le mie rughette un po' meno leggere sulla fronte: la prossima volta, mentre lo faccio (naturalmente in assenza di occhi indiscreti: i gatti non fiateranno), provo a declamare qualcosa.
Così è la volta buona che chiamo la neuro.
O più semplicemente sorrido, mi trucco un po' e vado a godermi il sole.
L'inverno del nostro scontento può attendere. Ancora un po'.
A quest'ultimo proposito, mi è tornato in mente un episodio della mia adolescenza giusto qualche giorno fa, dopo aver intervistato l'immensa Franca Valeri. Proprio in fondo, la signora del teatro consiglia, a chi abbia davvero voglia di confrontarsi con i grandi, di leggere Ovidio, Dante e Shakespeare. Beh, qui posso dirlo con orgoglio: il drammaturgo britannico era pane per i miei denti quando avevo quattordici-quindici anni. Mi rivedo in particolare sprofondata nel librone rilegato come una bibbia dal Club degli editori a leggere le avventure di Riccardo Terzo, Re Lear e Amleto.
Soprattutto, mi è tornata in mente quella volta in cui, davanti allo specchio del mio armadio, accovacciata per terra, mi sono messa a declamare il monologo disperato di Ofelia, ripetendolo più volte per cercare di mandarlo a memoria. Almeno, penso si trattasse di questo importante personaggio, perché sono certa di essere stata fissata anche con "il mio regno per un cavallo" e per il celebre elogio di Antonio per l'appena defunto Giulio Cesare, nonché, naturalmente, per "essere o non essere, questo è il problema".
Perché declamare Shakespeare in quella maniera? Perché avevo partecipato, per la prima volta nella mia vita, a un reading tenuto da veri attori professionisti, rimanendone fulminata.
Negli anni, mi è capitato più volte di risperimentare l'emozione del palcoscenico e di saggiarne la scomodità (il pavimento è eccezionalmente inclinato in alcuni teatri), ma mai più, credo, ho avuto modo di ritrovare la passione così immediata e così segreta di quel pomeriggio solitario trascorso a fissarmi nello specchio, tentando di modulare la voce come avevo visto fare dall'attrice poco prima.
Ovviamente, dimenticavo di specificare, quel giorno ero sola in casa: mi sarei vergognata troppo di farmi vedere dai genitori. Mia sorella, penso, era già via per l'università. Se fosse stata presente, infatti, sarebbe finita sicuramente in farsa. Ci siamo sempre bonariamente derise l'una con l'altra, allenandoci alla sottile arte del non prendersi troppo sul serio, da una parte; coltivando, dall'altra, forse un po' troppo fortemente il dubbio sui nostri talenti. E pazienza.
Diventare adulti significa ritrovarsi in altri specchi e guardarsi per quello che si è, senza eccessi nella critica e nelle lodi.
Sono sicura, per dire, che quella passione adolescenziale non sia sparita del tutto. Si è solo trasformata, diventando un pezzo della mia identità, chiunque io sia diventata oggi.
Oltre a Shakespeare, amavo moltissimo anche Pirandello, in particolare nel primo anno di liceo. Di lui non potrò mai dimenticare "Uno, nessuno e centomila", una lettura che la prof del ginnasio mi consigliò di rimandare ad anni più maturi, temendo che affrontarla allora avrebbe potuto ulteriormente minare la mia personalità-puzzle. Com'è andata a finire? Che io, una volta adulta, non sono più riuscita a leggerlo: non appena lo cominciavo, mi prendeva un'angoscia mista a noia davvero strana. In generale, non ho più aperto un libro dello scrittore siciliano, perché tutte le volte che ci ho provato, l'ho trovato fastidiosamente contorto.
Forse aveva ragione la mia prof, o forse il rigetto è stato causato proprio dal mio desiderio neanche troppo inconscio di fare fuori i paranoici dal parco-autori-di riferimento, onde evitare di alimentare la confusione ancora troppo presente, nonostante gli anni accumulati sulla faccia.
Giusto ieri osservavo le mie rughette un po' meno leggere sulla fronte: la prossima volta, mentre lo faccio (naturalmente in assenza di occhi indiscreti: i gatti non fiateranno), provo a declamare qualcosa.
Così è la volta buona che chiamo la neuro.
O più semplicemente sorrido, mi trucco un po' e vado a godermi il sole.
L'inverno del nostro scontento può attendere. Ancora un po'.