Vado particolarmente fiera della pagina che vedete sopra. Mi colpiscono innanzitutto i colori, il rosso su tutti, del cappello e della maglia dell'intervistata, e l'arcobaleno sottostante, diventato il simbolo di questo periodo così assurdo, non solo in Italia.
E' difficile non cedere alla tentazione della retorica, quando si cerca di tenersi a galla in qualche modo. Stavolta, l'impegno è gravoso per un numero di persone maggiore, anche qui, nel primo mondo.
Non so, infatti, se andrà proprio tutto bene, nessuno può dirlo, ma mi piace pensare che l'impegno che noi umani ci mettiamo per risollevarci, prima o poi, sarà premiato.
La storia di Francesca, ricercatrice universitaria incrociata per un colpo magico del destino, al corso di tedesco, è un magnifico esempio di quanto vado farfugliando.
In comune abbiamo la fierezza per le nostre origini, il sorriso vero e l'amore per lo studio. In più, lei ha l'estrema competenza di chi va a fondo delle cose e anche una leggerezza giovane che io temo di avere perso.
L'intervista sarebbe dovuta uscire l'8 marzo, in occasione della Festa della donna. Quel giorno l'Italia si è fermata. Bloccate quassù in Austria, ci siamo trovate pochi giorni dopo a sperimentare il doppio isolamento di expat e di quarantenate. E l'articolo, naturalmente, è saltato.
Ma io, coccia tosta su statura schiacciata, non l'ho lasciato sfumare. Francesca meritava di ritrovarsi stampata in questo trionfo di colori (il merito del look in perfetto pendant con l'arcobaleno pare sia di suo marito, che così l'ha voluta immortalare).
Il testo, naturalmente, andava aggiornato, la foto con la mascherina ci stava tutta e io ho molto apprezzato il fatto che lei si sia prestata.
Insomma: sono contenta di non aver mollato e di averla potuta vedere su Lu Centre, il quotidiano abruzzese con cui ho concluso il mio praticantato giornalistico, molti anni fa.
Sono affezionata a quel giornale, che mio padre continua a comprare tutte le mattine. Ai tempi si ritagliava tutti gli articoli che scrivevo: alla fine me li ha rilegati in un quaderno con le copertine trasparenti che forse ho ancora. Oggi però, per potermi leggere, ha dovuto comprare l'edizione di Pescara: sacrilegio per un chietino. A pensarci adesso, probabilmente è stato costretto a fare lo stesso anche allora, visto che il mio stage si svolgeva sempre nel capoluogo rivierasco e non nella nostra città camomilla.
Ecco: anche questa è una cosa in comune che abbiamo, l'intervistata ed io, ossia l'attaccamento fortissimo per le nostre famiglie d'origine. Legami così ti proteggono a lungo, e ti spingono a rialzarti tutte le volte.
Personalmente nemmeno io so dove sarò di qui a dieci anni. A dirla tutta, non so nemmeno dove sarò di qui a sei mesi un anno.
Visualizzo però anch'io, come lei, il mare, e quei lunghi pomeriggi in spiaggia con mia sorella, i miei nipoti, e prima ancora nostra madre, che amava restarsene seduta sulla sdraio a godersi le ultime luci.
Più passano gli anni, più mi vedo simile a lei, soprattutto in certe espressioni.
Legami così vincono il tempo e ti sorreggono anche quando scricchioli.
Ma ora basta parlare di me. Godetevi l'intervista e la forza quieta di questa giovane mamma.
E imparate a galleggiare con me, verso una ubertosa (ma sì, scriviamolo) e coloratissima nuova riva.
Ho ascoltato questa canzone forse quattro o cinque volte quasi un anno fa, intorno alle undici e quaranta o poco più. Come faccio a ricordarlo così precisamente (e pedantemente)?
Impossibile dimenticarlo. Era domenica 7 aprile, stavo per concludere la mia prima mezza maratona, qui a Vienna. Prima e unica, al momento, a dirla meglio.
Quel giorno felice oggi mi pare lontanissimo, eppure la consapevolezza di aver vissuto un'esperienza davvero esaltante mi accompagna ancora, nonostante tutto.
Con me c'erano anche il Bipede e Michela, una mia amica di Fermo amante della corsa molto più di me. Nei giorni in cui è stata qui ha corso con lui almeno un paio di volte: con me, invece, solo una passeggiata alla vigilia della gara. Niente invidia da parte mia, giuro. Semmai molta contentezza per il sodalizio che si era creato tra loro, un po' come ci capitava da bambini quando ci si metteva a giocare con un amichetto nuovo.
Mi faceva piacere che si fossero trovati così bene anche perché avevamo cominciato a sgambettare nello stesso periodo: giusto ieri ho rivisto una bella foto di gruppo, in cui c'eravamo noi tre con altri amici, al termine di una dieci chilometri di fine primavera, tra oleandri in fiore e profumo di mare.
Insomma, voglio ribadirlo: chi ama la corsa, ma direi lo sport in generale, lo sa. Tra chi pratica insieme un'attività fisica si crea una complicità inesprimibile a parole. Contano di più gli sguardi che ci si lancia mentre ci si sforza di dissimulare la fatica, le lingue di fuori quando si sta per cedere e i sorrisi, i larghi sorrisi, che affiorano sui volti una volta concluso l'allenamento.
Tutto questo succede, poi, anche se si corre da soli e ci si ritrova solo alla fine, a confrontare tempi e sensazioni.
Inutile nasconderselo: c'è anche un po' di competizione e si vorrebbe sempre strappare quel metro in più tra noi e chi ci precede.
Ma l'anno scorso, alla mia finora unica mezza maratona della vita, ho dovuto competere innanzitutto con me stessa e con la paura, eh sì, autentica paura, di non farcela.
Per vincerla, mi ero portata anche denaro, chiavi di casa e soprattutto un prezioso biglietto della metropolitana, nel caso malaugurato in cui non me la fossi proprio sentita di andare avanti.
Pochi metri dopo la partenza, tra l'altro, mi sono ritrovata da sola, senza il supporto del Bipede che ha preso la volata, saltando sull'altro lato della strada a quattro corsie facendomi ciao ciao con la mano.
Michela era più avanti, pensando che ci fosse una gabbia per quelli che facevano la competitiva. Invece no: c'era talmente tanta gente, che gli organizzatori hanno semplicemente fatto partire prima i maratoneti e poi noi, esercito di mezzi maratoneti di ogni età e taglia. Ricordo il freddo prima dello start, i balletti organizzati per farci scaldare, i look diversi, e i sorrisi, molti sorrisi.
Non so come ci sono riuscita, ma per un bel tratto ricordo di non aver voluto ascoltare la musica: desideravo concentrarmi sul mio respiro e volevo anche guardarmi intorno, cercando, forse, la solidarietà di qualche sconosciuto o sconosciuta.
Ho percorso lunghi tratti di città che non avevo mai visto, fino a ritrovarmi all'improvviso davanti al palazzo di Karlsplatz in cui c'è l'ambasciata indiana, dove ho passato svariati brandelli di pomeriggio a fare yoga con una donna, che è un'autentica bellezza, esteriore e interiore.
A lei avevo chiesto consigli su come prepararmi alla gara nelle settimane precedenti: sono sicura che mi abbia davvero aiutato, in molti modi. Solo tempo dopo ho scoperto che in quello stesso palazzo c'è la "Julius Meinl Bank", dedicata al piccolo folletto portafortuna che appare sulla facciata di un palazzo del Graben.
La mia felicità ha raggiunto però il picco poco dopo, quando mi sono ritrovata davanti al palazzo della Secessione, meta dei nostri giri di allenamento delle settimane precedenti.
Lì mi sono fermata a scattarmi una foto, convinta, anche di essere ormai a buon punto. Credo fosse il quindicesimo chilometro.
Appena ripartita ho capito che la musica mi sarebbe stata davvero indispensabile.
Fiato ne avevo ancora abbastanza, erano le gambe che cominciavano un po' a scricchiolare. In più dovevo fare pipì già da un pezzo, per cui, pur continuando ad andare, cercavo di adocchiare bagni a portata di percorso.
Eccone uno, mi dico. Mi fermo dietro a una donna, e insieme faccio stretching. Un minuto, due minuti: niente, non esce nessuno. Che faccio? Aspetto ancora, non aspetto?
L'istinto mi dice di andare. E così vado e vado, gli auricolari ben piantati nelle orecchie, con la musica di Frank Stallone (il fratello di Sylvester, ebbene sì) che va. Da un banco afferro una mezza banana, ma mi limito solo a succhiarla leggermente, temendo effetti nefasti per l'intestino nel caso avessi ceduto alla tentazione di mangiarla.
Ormai siamo intorno al diciottesimo chilometro: dai, manca poco, mi dico. Ahiaia, il disco è finito. Se mi fermo per sceglierne un altro, non riparto. Armeggio con il tastino dell'auricolare e tac, riparte l'ultimo brano. Sì, proprio quello che potete ascoltare sopra.
Tonight, tonight, you feel so right, canticchio. Dirà così? E chi lo sa? Mentre si ripete, mi trovo in cima a una discesa, credo sia la Mariahilfer Strasse, ma sì, è lei. In fondo, che cosa c'è? Una enorme freccia luminosa che separa il percorso dei maratoneti da quelli a metà. Imbocco la strada giusta e procedo.
Ormai è fatta, dai, quanto potrà mancare? E intanto Stallone va.
No! C'è una curva! Guarda là quanto manca ancora! Non ce la posso fare, non ce la posso fare. Sulla corsia alla mia destra vedo sfrecciare i maratoneti: sì, ho detto proprio sfrecciare. A grandi falcate, eccoli là, belli freschi a guadagnarsi un buon piazzamento.
No, no, non esiste. Cedo. Eh sì: mi fermo e cammino, tenendomi bene a destra per non bloccare gli altri. Con la banana in mano, cammino e scuoto la testa. Ma dentro di me scatta qualcosa, non so bene cosa.
Fatto sta che alzo lo sguardo e vedo che all'arrivo mancano davvero cinquecento metri. Mi rimetto a correre. La musica non serve più.
Alzo lo sguardo sull'orologio: segna qualcosa come le 11 e 39. DEVO riuscire ad arrivare entro i 40. DEVO riuscire a farlo. Vai, vai, vai... vai!
Ce l'ho fatta!
Nei minuti successivi praticamente non riuscivo a muovermi, ma la banana me la sono magnata eccome.
Chiamo il Bipede facendolo anche sentire in colpa per avermi abbandonata subito al mio destino, litighiamo un po' per questo, ma dopo, solo dopo, quando ho recuperato le forze e ci siamo ritrovati con Michela, beh.
La foto che riporto sotto dice tutto.
Dedico questo post a tutti noi, amici cari, perché possiamo presto tornare a solcare le strade, di corsa, a piedi, da soli, in compagnia, con la testa per aria, le mani in tasca, le cuffie in testa, fischiettando, sbadigliando, ridendo, ma pure smadonnando contro la macchina che ci rovescia addosso la pozzanghera.
Comunque liberi di muoverci, felici di andare da qualche parte, per ritrovarci e ricominciare daccapo.
La foto che vedete sopra è tratta dal "Wiener Zeitung", il giornale di Vienna. Dovrebbe essere per la precisione un quotidiano, almeno nella sua versione digitale di sicuro lo è.
L'ho scoperto già dai primi giorni che ero qui, estraendone una copia da uno dei contenitori in plastica trasparente che vengono attaccati ai pali in vari punti della città.
Ora che ci penso, non so come funzioni con i pali, visto che ogni volta che l'ho preso, l'ho scovato in strade differenti del quartiere.
Fatto sta che oggi il contenitore fresco fresco di copie di questo bel giornale mi si è parato davanti al chiosco dei kebab, dove in effetti c'è stato spesso.
La scritta che vedete sopra significa: "Per favore, restate a casa".
Mi ha subito fatto venire in mente il favoloso monologo di Gioele Dix dedicato alla scritta del treno: "Per favore, non gettate oggetti dalla finestra". Se non lo conoscete, guardatelo: è davvero istruttivo.
Come dice quel genio lombardo con gli occhi più belli del mondo, se tu a un italiano gli dici "per piacere, non fare questo", è sicuro che ignorerà il monito gentile, chiunque glielo stia dicendo.
Qui, evidentemente, funziona. O funzionerà. E io me lo auguro di cuore, per la mia salute e per quella dello sventurato Bipede che ho trascinato quassù.
L'invito a starsene "alacase", alla chietina maniera, scatterà infatti da lunedì, giorno in cui saranno chiuse tutte le scuole di ogni ordine e grado e tutti i negozi non necessari, con l'eccezione di supermercati, farmacie, banche, poste e "drogherie", che credo coincidano con i nostri tabaccai, non con i pizzicagnoli (rari, ma ce n'è uno pure a due passi da me: se resta aperto, tornerò qui a dirvelo).
Ieri e oggi, però, tutti in giro, a fare scorte, tutti belli ammassati alla cassa esattamente come in Italia, con le cassiere spaventate dalla ressa, anche perché prive di guanti e mascherine.
Sono davvero curiosa di vedere come diventerà la città, il mio quartiere popolare (e chi lo lascia più?...) da lunedì.
Se ha ragione il mitico Gioele, staranno tutti a casa. Chi? Innanzitutto gli anziani sopra i 65 anni, ai quali era rivolto l'editoriale del Wiener Zeitung. Sulla pagina a destra c'era una grande foto che raffigurava quattro anziani impegnati a giocare a carte. Sopra la foto il titolo, piuttosto stridente con i loro sorrisi, più o meno diceva: "Da lunedì questa roba qui non si può più fare".
E insomma, ci siamo.
La settimana che si sta chiudendo è stata davvero tosta, mai, certo, come quelle che state vivendo voi, miei cari amici, nella mia terra amata.
Non vi nascondo di essere abbastanza angosciata e di confidare, sì, sul rispetto delle regole connaturato a questa gente. Però il panico, ma anche la semplice e sana paura, fa fare cose strane a tutti, quindi vediamo se reggeranno la prova, con me e per me.
Questa settimana, però, è stata dura perché ho sentito di nuovo la distanza da chi qui è nato e da chi ha scelto di viverci già da tempo.
A fine febbraio mi ero scandalizzata perché la mia proprietaria, con una voce da oltretomba intasata di raffreddore, mi aveva chiesto se stavamo bene il Bipede ed io, visto che qualche settimana prima eravamo stati in Italia. Tutto ok, mortaccen, ho pensato.
Con il procedere dei giorni, pensavo che anche qui si fossero accorti del casino che stava succedendo non solo da noi, ma anche in Corea del Sud e Iran, e poi, via via, in Spagna, Francia e... Tirolo. Invece, ciccia, niente: noi essere lontanen, kosa folere ke succeda. I soliti Italiener melodrammatiken (e untoren).
Il top del senso di distanza l'ho toccato solo mercoledì scorso, quando a scuola ci hanno distribuito un foglio sulle norme di comportamento da seguire in caso di contagio, per noi studenti pagati dall'Agenzia per il lavoro austriaca.
Era il classico volantino con le Faq: la voce che mi ha fatto dare di matto anche con i malcapitati compagni di corso diceva: "Ho paura del coronavirus: posso restare e casa e non andare ai colloqui con la mia tutor?". Risposta: "Nein". Scritto, così, in grassetto e poi la spiegazione del perché tu, poveraccen und disgraziaten non afere diritten.
Mi sono proprio ritrovata a dire, con un tono di voce da pescivendola dell'Adriatico, "Italien ist besser!".
Non mi soffermo (non troppo) sulle reazioni compassate delle mie conoscenze locali, quando ho comunicato che avrei saltato due appuntamenti perché leggermente raffreddata.
In teoria l'ho fatto anche per loro, ma vabbè, comunque per lo meno mi hanno augurato buona guarigione e detto belle parole sull'Italia.
E poi, soprattutto, giovedì scorso è arrivata una nuova comunicazione in base alla quale, evviva, anche noi "studenti speciali" possiamo stare a casa. Per noi dovrebbero anche predisporre lezioni a distanza. Semmai, adesso a rischiare sono proprio i prof, come il mio, un ragazzo rumeno bravissimo, visto che dovranno comunque andare al lavoro.
Spero che alla fine li lascino a casa: in fondo quanto sarà complesso organizzare cose del genere anche in remoto?
Mi avvio alla conclusione di questo lungo post (sono diventata barbosa e prolissa, sarà lo studio della lingua tedesca, che ama così tanto le subordinate, un po' come me che amo le parentesi).
Che dio ce la mandi buona, amici cari, in Italia, Austria, nel mondo.
Cerchiamo di restare uniti, almeno tra noi che ci vogliamo bene, anche a distanza.
Parliamo, diciamo cose vere, non ci schermiamo. Io lo faccio spesso, è anche un fatto di educazione. Non amo litigare (ma solo ribollire come una moka da una tazza, come mi ha detto una volta il Bipede), ma se serve bisogna farlo.
Ma vanno bene anche le frasi gentili, le tenerezze, quando sono sincere.
FORZA.
Andrà tutto bene.
Alles wird gut (l'avevo tradotto malissimo... si dice così invece!).