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venerdì 27 giugno 2014

Foto e parole per raccontare come si può. E andare avanti


Ho pubblicato questa fotografia sulla mia pagina Facebook, riscuotendo un certo gradimento. Non faccio caso, in genere, ai "mi piace" raccolti, ma in questo caso ne sono stata contenta per il significato che ha per me l'immagine.
Il cactus che vedete è sul balcone dei miei genitori da sempre. Credo di averlo fotografato (anzi, sicuramente l'ho fatto) un sacco di volte, soprattutto nel periodo in cui ho cominciato a usare la reflex, l'ultimo anno di liceo. Non ho ancora avuto il coraggio di sfogliare le centinaia di fotografie che giacciono in alcune scatole di latta, di quelle belle rigide, dei biscotti e dei panettoni, ma sono certa che tra loro ce ne sarà almeno una che ritrae la stessa pianta quando era molto più piccola di come è adesso.

Un amico di origine chietina che ho conosciuto (per ora) solo sul social network (che, a proposito di questo, ogni tanto regala anche piacevoli incontri, nel mare scivoloso delle chiacchiere poco importanti nelle quali spesso indulgo anche io), mi ha giustamente detto che la fioritura ritrovata per puro caso nei giorni appena trascorsi nel luogo in cui sono cresciuta è un segnale positivo.
Non so se sia vero, ma comunque mi ha rincuorato leggerlo. Quindi lo è davvero, un segnale positivo. Non mi ricordo chi lo diceva, ma è proprio vero che una cosa esiste quando le si dà un nome. Le parole non rispecchiano mai completamente i nostri stati d'animo, attraversati da contrastanti e insondabili accavallamenti del cuore, ma a qualcosa pure servono.

Le parole fissano ciò che non si può mai fermare, come i minuti irripetibili che stanno scorrendo anche adesso che scrivo.
Chi fotografa per hobby come me, poi, sa anche quanto la fotografia faccia lo stesso in un tempo ancora più rapido. Anche la fotografia come le parole, però, non racconta mai del tutto ciò che siamo, ciò che pensiamo. Però ci tranquillizza pensare il contrario.

Mi attacco alle parole e alle immagini più che mai in questi giorni.
La fotografia che ho scattato a mia madre non più di tre mesi fa sullo stesso balcone tuttora pieno delle sue piante oggetto spesse volte dei miei scatti mi sembra che cambi aspetto ogni volta che guardo lo schermo del mio cellulare.
Sorride, mia mamma, ma a volte sembra malinconica, altre ironica, come è stata davvero.

Non abbiamo scelto quella foto per la tomba, perché ci sembrava inadatta: più passano i giorni e più non vedo quell'ombra di sofferenza che vi abbiamo colto all'inizio.
Sono in ogni caso contenta, orgogliosa direi, che ne abbiamo scelto un'altra sempre mia, scattata in giorni d'estate, così crudelmente lievi.
Lo stesso è successo per l'altra foto che regaleremo a chi le ha voluto bene. Lo scatto, stavolta, è invernale, ma l'occasione era altrettanto felice.

Sì, abbiamo fatto bene a tenere per noi quell'ultimo scatto, che poi ultimo non è. L'ho fotografata anche in ospedale, mentre dormiva. Non ho il coraggio di cancellarla, ma non posso nemmeno guardarla. Non avrei potuto fare il fotoreporter di guerra, di questo sono sicura.

Anche a lei piaceva molto fotografare. Nel dvd che le abbiamo regalato per i suoi settant'anni c'è un intero "capitolo" in cui l'ho ritratta nell'atto di scattare. Sul suo computer ci sono le foto che ha fatto lei, molte vivaci e dinamiche, come il suo temperamento.
Un giorno potrei raccoglierle e ricavarci un altro video. Sì, credo proprio che lo farò.

Di sicuro le sarebbe piaciuto guardarlo. E' stata sempre molto felice di partecipare alle attività di tutti noi, di incoraggiarci quando era il caso. Nei tempi andati della mia adolescenza e prima giovinezza, per dire, mi ha pure aiutato un sacco di volte a sgombrare la testa dalla confusione che, tuttavia, ahimè, non mi hai mai abbandonato. Ma questa è un'altra storia.
Non dimenticherò mai quella volta tra le tante, per dire, in cui mi ha sbattuto in faccia la verità che non volevo sentire, e cioè che il ragazzo che tanto mi piaceva non mi avrebbe mai considerato.

Come aveva ragione, ma come mi fece male sentirmelo dire allora.
E' stata, voglio dire, anche duramente chiara e nel tempo mi sono accorta di aver imparato a fare lo stesso. Almeno con le persone che amo di più. E lei di sicuro mi ha amato molto.

Grazie, mamma. Tutto quell'amore è ancora qui.
Passo dopo passo sto riprendendo in mano la mia vita. Spero di sentirti sempre vicina. Spero di non dimenticarmi mai di te.
Queste parole non raccontano del tutto la verità di ciò che provo, ma, appunto, fissano il presente. Un presente di lucido vuoto che non so dipingere meglio di così.
Mi manca la tecnica. L'acquisirò come posso. Un giorno dopo l'altro, come nella canzone di Luigi Tenco usata in una delle serie di Maigret di Gino Cervi. Sono un po' pesante, sì. E pazienza.
Vero, mamma?

sabato 1 dicembre 2012

Fuori dal limbo, a tutti i costi

"In questo momento devo proprio dirlo: meno male che non ho figli, così posso stare qualche giorno in più per monitorare la situazione".
"Al di là dei figli, il mio problema è il lavoro: devo capire se posso prendermi dei giorni in maniera da poter partire più agevolmente".
La conversazione sopra riportata si è svolta stamattina: la prima a parlare ero io. La seconda mia sorella, dipendente con contratto a tempo indeterminato. Una delle poche privilegiate in questo Paese, anche se lei si è semplicemente limitata a brillare negli studi e a vincere un concorso. Oggi non è più così e lo sappiamo tutti. Il mio caso è atipico in tutti i sensi, ma resta pur sempre il fatto che, allo stato attuale, tra me e un neolaureato senza futuro non c'è alcuna differenza.
Le mie parole sopra riportate, del resto, sono illuminanti di come la pensa un disoccupato/semi occupato come me: nel considerare la facilità (relativa) con la quale posso restarmene al capezzale (metaforicamente parlando) dei miei genitori, non ho proprio citato i problemi di lavoro. Perché, di fatto, ora come ora e chissà per quanto tempo, non ne ho. Perciò ho parlato direttamente dell'assenza dei figli, il vero impegno per qualsiasi famiglia che debba occuparsi anche di parenti malati.
Ai gatti pensa mio marito, a sua volta, sfaccendatissimamente impegnato dietro alla mamma che si è rotta il polso destro proprio in questo periodo così faticoso.
E così passa le sue giornate a fare da badante alla madre, impedita in quasi tutte le attività quotidiane. Anche nel suo caso, se avesse avuto un lavoro (ai figli, in genere, pensa innanzitutto la mamma, soprattutto quando sono molto piccoli), di certo non avrebbe potuto essere così presente. Anch'io, come lui, peraltro, mi sono vista allungare un po' di denaro per far fronte alle spese impreviste. Alla fine lo stipendio ce lo vediamo passare proprio da chi ci ha dato alla luce. E' davvero paradossale. So benissimo che le nostre genitrici l'avrebbero fatto anche se fossimo stati due manager in carriera, però è tutto il contesto che ti fa sentire veramente senz'arte e né parte, a cominciare dai medici che ci chiedono che lavoro facciamo e se possiamo fruire della legge 104.
Nel mio caso, ho lasciato che parlasse mia sorella: lei, per fortuna, poteva mostrare di essere qualcuno per la società. Per un tipo di società in disarmo, destinata - salvo svolte impresse dai figli dei migranti, gli unici che potranno un domani far ripartire l'Italia - alla decadenza.
La burocrazia, però, è l'ultima ad accorgersi dei cambiamenti, seconda solo alla politica e alla classe dirigente tutta, che continua a ragionare in termini di lavoro dipendente, salariato e sicuro, benché di triadi così se ne vedano sempre meno.
E in ogni caso, lunedì dovrò ripartire e sistemare un po' di cosette lasciate in sospeso, una anche di tipo simil-lavorativo.
Sperando con tutto il cuore che si possa un giorno vedere la luce in fondo al tunnel (la metafora è consunta, ma pazienza, non mi viene niente di meglio a quest'ora e con la stanchezza che mi fa chiudere gli occhi), so che l'anno prossimo sarà tutto dedicato a sbloccarci da questo faticoso limbo.
Non c'è altra scelta, ma sono disposta a ogni svolta, anche la più amara, pur di non avvertire più questo senso, veramente mortificante, di inutilità.
Lo devo a me stessa e alle persone che mi hanno cresciuto.
Alla mia mamma l'abbraccio più forte. Dormi bene, ci vediamo domani. 

domenica 22 luglio 2012

Che bananastici nipoti, sulla mia country road




"Cartonito non ci piace". Lo ha detto spesso mio padre nei giorni che abbiamo trascorso insieme (almeno durante le ore meridiane) con i nipoti. Parole pronunciate al vento, naturalmente: un nonno, per natura, non può fare altro che soccombere alla dolce tirannia di creature ben al di sotto della maggiore età, peraltro anche per via del saggio proverbio "chi è causa del suo mal pianga se stesso".
Sì, perché è stato proprio il suddetto nonno a introdurre nella casa di Francavilla al Mare la tv dallo schermo ultrapiatto dotata di digitale terrestre. E quelle piccole, tenere e innocenti faccine non ne avevano praticamente mai avuta una, cresciuti come sono stati (fino a questo momento. Sul futuro ho qualche dubbio, a questo punto) a dvd, frammenti di Youtube, libri e musiche stralunate.
Perciò, caro nonno, beccati Cartonito (che poi non si scrive così, lo so) e le avventure di B1 e B2 e di quell'imbroglione di Rat, che in ogni episodio se ne inventa una nuova per complicare, giusto un pochino, la trama.
Sapete che vi dico? Alla fine le ho trovate veramente "bananastiche", come continuavano a ripetermi quei due citandomi la pubblicità del cartone animato. L'episodio che linko sopra, però, non l'ho ancora visto, quindi non posso giurare sulla sua rappresentatività come puntata-tipo.
In ogni caso, mentre andavano in onda le avventure delle Banane in pigiama, bisognava stare attenti a non passare davanti all'apparecchio e a usare un tono della voce appropriato. Diversamente, dal divano composto di due poltroncine letto (una delle quali è stato mio giaciglio sabbioso della notte), arrivavano mugugni ben più accesi della debole protesta del nonno per l'impossibilità di vedersi un tg in santa pace. E d'altra parte, l'attualità è talmente deprimente che tutto sommato non è stata una grande perdita (neanche per il nonno, ci posso giurare) restare leggermente indietro. 
Risolte alcune difficoltà tecniche, peraltro, è stato possibile piazzarli anche davanti al computer per i più tradizionali dvd con il panda Po e il cattivo Shen e la famiglia di Barbapapà fino a un paio d'anni fa vera e unica passione dei due fratellini. Il cartone che ho portato io, invece, stavolta non è stato troppo apprezzato e oggi che l'ho rivisto con calma ne ho capito meglio il perché. Qualcosa mi dice, però, che già l'anno prossimo il maggiore potrebbe rivalutarlo. Sto parlando de I sospiri del mio cuore, che parla di una storia d'amore pre-adolescente mescolata alla passione per la musica e la scrittura, dei due giovanissimi protagonisti. Roba poco interessante alla loro età.
Comunque sia, tolte le ore serali e notturne, in cui, però, dormono anche gli adulti - se va tutto bene - l'oretta e poco più passata davanti ai cartoni è l'unica pausa di relax per tutti i presenti in quel momento tra le pareti domestiche. Bisogna perciò assolutamente approfittarne per: 1) andare alla toilette; 2) leggere una paginetta di giornale o di libro; 3) lavare i piatti/scrollare la tovaglia; 4) bere il caffè; 5) scambiare quattro chiacchiere con la nonna o la sorella su un qualunque argomento che non riguardi - almeno non necessariamente - i piccoli, adoratissimi occhioni rapiti. Se si prende il ritmo, devo dire, ci si riesce e poi la seconda parte della giornata scorre rapidamente verso la cena, altro momento critico nell'organizzazione velleitariamente militaresca delle baby-vacanze. Se però capita qualche avvenimento inconsueto - tipo l'arrivo di Cicchitti, il tuttofare della famiglia Santurbano-Cicalini, e il suo compare falegname, piombati in casa intorno alle due e mezzo, per fortuna non durante le bananastiche banane, per rimontare la serranda schiantatasi esattamente all'inizio delle ferie della famiglia di mia sorella - allora le cose si complicano un po'. Tra le risa dei genitori, con mio grande sollievo. 
Non so come, sono riuscita a intrattenere il maggiore con la costruzione di un treno e l'osservazione della vista dall'altro balcone, non quello sulla soglia del quale lavorava il falegname. Il minore, invece, si distrae più facilmente, ma al contempo è più capace di starsene per i fatti suoi a dialogare con pupazzi e altri personaggi immaginari.
Fatto sta che alla fine ha pure chiesto al falegname chi era la capa di casa sua, scatenando risate generali, e di sottrarre (prima che glielo ristrappassi dalle mani) il compenso destinato al suddetto sottoposto della propria moglie, com'è giusto che sia (si scherza, ovviamente).
Alla fine riesco a trascinarli fuori e li porto al mare. 
Sono stanca e accaldata. Ed è lì, nel piazzale antistante lo stabilmento del Paraculo, che ho un piccolo mancamento. 
Stavolta la scena è mia. In men che non si dica, mi ritrovo seduta su un lettino con le gambe verso lo schienale, mentre un tipo mi dice con gentilezza di chiudere gli occhi e di respirare. A quel punto sto già meglio, ma mi rendo conto che ormai ci sono e devo fare la mia parte fino in fondo. Così bevo anche acqua e zucchero, mormorando un "che figura" mentre guardo i nipoti con un mezzo sorriso per accertarmi che non siano rimasti sconvolti dalla scenetta della zia. Quei due, a dire il vero, stanno chiacchierando animatamente con un amichetto per cui quasi quasi ci resto male.
Dopodiché ringrazio tutti, mi alzo e vado a raccontare al cellulare allo Sfaccendato lontano quel che mi è appena successo. I piccoli sono stati accompagnati dal nonno dell'amichetto a giocare a biliardino.
Il mio soccorritore mi si avvicina e mi offre un ghiacciolo.
Non avendo riscosso granché successo con il coniuge lontano che minimizza, tento di impietosire mia madre, che arriva, in effetti, quando ormai sono già con la palla in mano sulla riva, tra i nipoti che s'inseguono buttandosi in acqua. 
Anche in quel caso nessuna pietà per la malcapitata zia che dentro di sé riflette su quanto sia cambiata dalla sceneggiata di molti anni prima, quella che, parzialmente, ha determinato varie scelte, non tutte opportune, del proprio avvenire.
E' tutto passato. Tutto sepolto. Quella lei non c'è più.
Ed è così bananastico rendersene conto che vorrei urlarlo al mondo.
Di questo devo ringraziare anche quei due meravigliosi piccini, così paurosamente facili da amare. 
Il giorno dopo ho compiuto 41 anni e benché fossi distrutta dallo scarso sonno e dall'avvicinarsi della scadenza del mio mandato di zia-baby sitter, ho partecipato con una gioia lucidamente infantile alla caccia al tesoro che hanno organizzato con la complicità di mio cognato, annientato anch'egli da una stanchezza di certo maggiore della mia, non foss'altro per la più lunga frequentazione con il sangue del suo sangue, un impegno a vita ben più oneroso di un incarico alla Banca mondiale.
Dopo la partenza dei nipoti, mi sono goduta ancora un po' la compagnia dei genitori finché non è arrivato anche il mio turno di prendere la via di casa. 
Sono - lo ammetto - ancora un po' stanca per le giornate francavillesi, ma so di aver vissuto intensamente ed è quello che mi preme di più. E benché anch'io, come nella traduzione di Country Roads, la canzone di John Denver che fa da colonna sonora al film d'animazione sopra citato di Yoshifumi Kondo su sceneggiatura di Hayao Miyazaki (il grande autore de "La città incantata" e il Castello errante di Howl, per citarne solo due), molto probabilmente non tornerò mai più nella mia terra se non per sporadiche visite come quella appena trascorsa, so che porterò sempre con me il ricordo di quel che sono stata, anni e anni fa: una bambina molto amata che ha imparato ad amare anche grazie al molto (forse troppo, chissà) amore ricevuto. 
Arrivederci a presto, mia country road. E grazie di tutto.