RACCONTI DAL PASSATO

ANNI 2005-2007

CIOE’

Cioè, allucinante. Ero lì steso sul sedile, coll’mp3 e i chemical sparati nelle
orecchie (cioè, la mattina sono in uno stato, cioè, praticamente un vegetale
ammuffito) quand’ecco che mi si piazza di fronte uno che una cloaca sarebbe stata
più odorosa.
Cioè, praticamente ho dovuto aprire il finestrino, anche se fuori faceva un freddo
maiale. Giuro, non si respirava, avevo ancora il sapore del caffè e della siga, le
uniche cose che mi rimettono al mondo quando rotolo giù dal letto, che adesso lì,
con quello davanti, mi veniva da vomitare.
Sto’ tizio, invece, che fa? Blatera tra i denti qualcosa, anche se non capisco cosa
perché avevo ancora su la cuffietta, una sola però perché per aprire il finestrino
l’altra m’era caduta giù.
Poi l’ho guardato meglio: giuro, cioè, aveva una faccia da film dell’orrore, di
quelli che se lo vedi in un angolo buio ti prendono e ti corcano di mazzate così, a
mani nude.
Sulla capoccia, calcava un cappellino con la visiera. Dalla tesa alle sopracciglia,
non scherzo, oh, non si vedeva la differenza, erano troppo folte, cioè. E forse, mi
sa tanto, anche la fronte non doveva essere proprio spaziosa. Praticamente un
ominide di Cromagnon era più figo. Gli occhi, neri neri, rimandavano un guizzo
pazzoide che proseguiva nel ghigno satanico delle labbra. Intravedevo pure i denti
stranamente bianchi nonostante il fetore irraggiante da tutta la persona.
Aveva su un giaccone scuro macchiettato dai pallini bianchi della forfora, che
schifo.
Mi sono guardato intorno per vedere se per caso c’era qualche altro posto libero,
ma nada de nada, gli altri sedili erano tutti occupati. Non potendo spostarmi,
allora, mi sono tirato fin sul naso la sciarpa, attento a respirare solo il profumo del
mio dopobarba (eh sì, mi sentivo un po’ femminiello, ma oggi mi vedo con
Pamela: almeno la barba corta, su, per non sembrare un talebano...ho pulito
persino le orecchie con il cotton fioc, minchia che signorino sono diventato).
Cioè, insomma, figa, io non sono uno che ha fatto proprio pace con il sapone,
però, really, pure il mio cane sarebbe stato più profumato di sto’ tizio qui.
Ho pompato il volume cercando di distrarmi, ma col motore del pullman e il vento
pure i Subsonica sembravano la Pausini. Avevo da poco chiuso gli occhi, quando
sento un urlo disumano.
“CHIUDI IL FINESTRINO, FA FREDDO, PORCA M...!”.
Cioè, il tizio puzzolente aveva dato di matto: stava in piedi di fronte a me e mi
incendiava con i suoi occhiacci da pazzo.
Cioè, mì, io non sono un cacasotto, ma il tipo m’ha fatto venire proprio quella
voglia di fare quella cosa lì che esce dal posteriore. Una fifa verde, santo dio. Ok,
ok, stai calmo, chiudo, non ti agitare. Poi mi giro e vedo che c’è una vecchina che
mi fa, quasi a giustificarsi: “Sono stata io a dire di chiudere: mi arriva troppo
vento...”. Cioè, penso io, d’accordo, signora mia, hai pure le tue ragioni, cioè sei
anziana, a un passo dal cimitero, però non potevi dirlo a me anziché farmi
rischiare di seguirti subito dopo, con sto’ pazzo qui che mi alita mefiticamente
urlando come se mi volesse squartare?
Cioè, ho chiuso il finestrino e mi sono rincalcato sul sedile a braccia conserte e
metà faccia nella sciarpa. Tanto, mi sono detto, mancavano poche fermate.
Per riprendermi dallo choc, vado in fissa con il paesaggio, cioè ci provo. Anche
perché sto’ piattume campagnolo mi ha un po’ consumato i due gemelli.
Oh, da non crederci. Fuori qualcosa era cambiato. Cioè, era praticamente
tutt’un’altra cosa.
E lì il sangue mi s’è ghiacciato: al posto delle risaie erano spuntate dal nulla
colline ricoperte di ulivi e campi pezzati di marrone e verdino. Vedevo pure dei
tizi in lontananza che stavano falciando delle lunghe piante gialle, le donne
portavano dei fazzoletti in testa e legati sotto il mento, le donne, gli uomini dei
cappellacci di paglia, larghi larghi. Qualcuno, m’è parso, ci ha pure salutato come
facevo io da poppante con il treno.
Cioè, giuro, era tutto vero, mica stavo sbroccando.
Poi mi sono girato per osservare le reazioni degli altri passeggeri. E mica
facevano nulla. La vecchina aveva allentato il bavero del cappotto e s’era portata
un fazzoletto sotto al naso; naturale, ora con il finestrino chiuso, le arrivava tutto il
puzzo del mio dirimpettaio.
Più avanti, adesso me ne accorgevo, c’era la signora bionda, con la pinza nei
capelli tirati su a mezza nuca, che c’ha sempre l’orecchio incollato al cellulare.
Sarebbe pure abbastanza bona se non fosse che a me le russe (perché mi sa che è
russa) non m’attizzano. Pamela sì, la mia moracciona, mi fa pensare a una pantera.
Ma è meglio se non ci penso ora sennò m’accusano d’essere un maniaco peggio
del puzzolente qui.
Ci fermiamo. Qui di solito salgono sempre dei vecchi bacucchi e nonnette male in
arnese: deve esserci una clinica geriatrica, mica lo so, però sarà così sennò sto’
concentrato di muffa non si giustificherebbe.
Eccolo, di nuovo lui! Zaino sulle spalle, sale un vecchiaccio antipatico che c’ha
sempre qualcosa da dire, e prodi e berlusconi, e i politici tutti uguali, e la vecchia
che timbra il biglietto alla rovescia e la macchinetta glielo risputa e lui che le dà
consigli su come fare, manco fosse un professorone. Una volta mi ha talmente
fatto girare le balle che ho preso e mi sono spostato piuttosto che stare vicino a lui.
Cioè, figa, m’ero seduto sul sedile riservato ai portatori di handicap, ho capito,
cioè, però non mi puoi smaronare se di disabili non ce n’è e io sono stanco, ho
studiato, mi sono massacrato di ripetute agli allenamenti, e minchia, ora quel
posto me lo cucco io.
Con i suoi occhiali a goccia, spessi e veramente orridi, dispensa pure stavolta le
sue perle di saggezza. Meno male che sta più avanti, però il puzzolente qui, prima
impegnato a leggere un libro alla rovescia (giuro, cioè, non scherzo!) si gira verso
di lui e ride, ride. Evidentemente tra i due c’è feeling.
Uh, ci mancava pure Enzuccio. Ma sì, Enzuccio, quel povero scemotto che dice
sempre “ciao” a tutte le donne (possibilmente fighe, ma Enzuccio è generoso,
saluta pure le nonne). Era già su, solo che dormiva, perciò non l’avevo notato
prima. Come vede il professore, Enzuccio si rianima, fa “ciao” pure a lui, e quello
platealmente ricambia. Poi nota una bella signora con un culotto tondo alla
Jennifer Lopez che sta per scendere e gli fa: “Enzuccio, ce la teniamo la signora e
facciamo scendere qualcun altro?”. Cioè, è un complimento, solo che culo tondo
si impettisce e si vede che se potesse non gliela manderebbe a dire. Poi le porte si
aprono e addio Jennifer.
Mancava però la vera perla dei pendolari della bassa: “Scusi, va in centro? Ah,
vabè grazie”. La voce è chioccia e squillante, la corporatura robusta e l’età
indefinita. Sale sempre a ridosso dal centro con una signora piccina piccina,
probabilmente la madre, tutta arruffata. Cioè tutte le sante volte che lo vedo,
giuro, chiede sempre la stessa cosa: e dove vuoi che vada il pullman, penso
sempre io? Il percorso è sempre quello.
E però ora non c’ho il coraggio di guardare fuori dal finestrino. Cioè, ormai siamo
arrivati in città, tra poco toccherà a me scendere, due ora in biblioteca, du’ palle, e
poi la mia Pamela... speriamo che il tempo regga, sennò al parco ci congeliamo,
cioè, non c’abbiamo una casa, io c’ho solo il motorino. Insomma, bisogna
aspettare che la sua coinquilina smammi per ... stare un po’ con la panterina mia.
Forse tra noi la storia va avanti perché per vedergliela ogni volta passano mesi. E
chissà.
Comunque, dicevo, non ho il coraggio di guardare fuori. E se l’allucinazione
campestre non fosse sparita? Cioè, figa, come nel film di troisi e benigni, quello
che si ritrovano in un’altra epoca di botto...
Guardo.
Figa.
E’ uguale.
Anzi, peggio.
Vedo che adesso accanto a noi passano dei carretti trainati da cavalli. Due donne
in corpetto e gonna lunga si sventagliano mentre chiacchierano sulla via, poi si
fanno indietro per paura di essere sporcate dalla polvere alzata dalle ruote delle
carrozze. Poco più avanti, un contadino si trascina sulle spalle un sacco a forma di
cono pieno di quelle piante gialle che poco prima aveva tagliato.
Sulla corsia opposta al nostro pullman passano due militari a cavallo, con il
copricapo appuntito e la forma triangolare, come quelli che vedevo sul libro di
storia al liceo.
Mì, sto sbroccando. Sento salirmi un’ansia pazzesca. M’accorgo che sto sudando,
ma il sudore mi si fredda addosso, come quando corro d’inverno e poi mi fermo
per allacciarmi una scarpa.
Chiudo gli occhi un attimo e li riapro lentamente. Magari adesso è tornata la mia
bella (ma quando mai l’avevo pensato?) città piatta e nebbiosa.
Niente da fare. Fuori dal vetro splende un sole di primavera, il cielo è solcato dalle
rondini e i ruscelletti sgorgano dalle colline sullo sfondo, come nei disegnini delle
elementari.
Eppure, mi dico, che figata. Sembra di essere entrati in film in costume, troppo
tosto.
Cioè, pure senza calarsi niente, farsi un cylum, figa, si possono provare sensazioni
da sballo.
Minchia, grande.
Sento che pure il sedile sotto il mio sedere sta cambiando consistenza. Cioè, non è
più di plastica, ma di legno, wow. E pure i miei compagni di autobus, la vecchina,
per dire, non ha più quel cappottaccio marrone, di lana infeltrita, ma una gonna a
fiori, uno scialle ricamato e un bel fazzoletto sul capo. Pure il professore c’ha
degli strani calzoni fermati sul polpaccio da stringhe rosse e sul testone unticcio è
comparso un cappellaccio di paglia che tiene fermo con una mano per non farlo
volare via.
Non siamo più sul pullman neanche noi, adesso, ma su un carretto come gli altri.
La bionda adesso ha un’acconciatura elaborata, alta e intrecciata, il seno è
strizzato in alto e sotto la gonna a pallone calza un paio di stivaletti con un tacco a
rocchetto veramente hard. Cioè, devo dire a Pamela se si veste così, mi sa che
m’incastra per sempre, cioè.
E il puzzone? Il puzzone è sparito! Cioè, cos’è sta’ storia? Non sarà che ci ha
trasformati tutti e se n’è andato?
Sì, ok, il gioco mi piace un casino, però adesso vorrei tornare nel ventunesimo
secolo, anche perché Pam mica c’è anche lei, e poi non so se le piacerebbe
mettersi il corpetto, tirarsi su i capelli a banana e sventolarsi come le beghine.
Puzzone, andiamo, dai, fammi tornare alla modernità.
Eddai, avanti...
Non dondoliamo più, pure i red hot mi hanno abbandonato.
“Uela, giovanotto, finito il riposino? Mica possiamo stare qui a ninnarti perché la
notte stai col culo al fresco fino all’alba?”.
Cioè, figa, m’ero addormentato. Cioè, stavo sognando. Cioè, lo vedi che può
succedere se manca l’ossigeno?
Mi scuoto, vagamente mortificato e balzo giù dal pullman.

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ARIA VIZIATA

Chissà perché, i locali uso ufficio hanno sempre quell’aria un po’ stantìa, da
vecchio film anni Settanta. Di più, in città come in provincia, al nord o nel
centro Italia, appena varcata la soglia delimitata dal pesante portone blindato o da
una più modesta in legno plasticato, si viene avvolti da un calore malsano di
radiatori misto agli aliti non proprio freschissimi degli occupanti.
Prima ambientazione: una città del nord, anzi, la città del nord per eccellenza,
Milano.
Il titolare è un commercialista. Come in genere capita, è maschio,
ultrasessantenne, la salute ormai compromessa ben mascherata da una postura
volitiva, di chi non ci pensa proprio di mettersi a riposo. Men che meno manda via
la sua segretaria, femmina, poco più giovane di lui, che un giorno gli aveva fatto
girare la testa con le sue gonne appena sotto il ginocchio e le prime calze di nylon
15 denari color carne, tenute salde intorno ai fianchi dai calzoncini melange
proteggi-reni. Oggi il taglio delle gonne è rimasto lo stesso, solo due (fai pure
quattro) taglie in più, sui polpacci gonfi di ritenzione idrica contenuti da calze più
spesse, di quelle che si comprano in farmacia. Ma il commercialista non
assumerebbe mai una segretaria più giovane: una volta ha provato ad
affiancargliene una, con uno di quei contratti moderni, co.co. qualcosa, ma questa
non voleva neanche preparargli il caffè, e poi dicono che vogliono lavorare, questi
giovani.
In piedi, al di qua del grosso scrittoio di legno marrò, non si sa se sedersi, visto
che il capo non invita neanche con un cenno a prendere posto sulle sedie da
ufficio con lo schienale imbottito e le ruote girevoli. Alla fine, facciamo da noi:
restarsene impalati e ritti come nella coda alle poste è troppo patetico.
Che garanzie possiamo dare? Mah, vediamo: io collaboro saltuariamente
nell’editoria, il mio “ragazzo” sta cercando lavoro… però abbiamo papà con la
pensione sicura che fa da garante. La casa? Beh, è un po’ fuori mano, però, di
questi tempi, 700 euro per 65 metri quadrati sono proprio un affare. La testa del
capo tremola mentre cerca di fissare lo sguardo sull’agenda, per prendere appunti
su di noi: traduco dal disprezzo con cui traccia “collabora” che sta pensando in
realtà “si arrangia, ma non c’ha una lira”, “cerca lavoro? Sì vabbè, è nullatenente”.
Il cranio dondolante lascia pensare che il vecchio abbia un principio di Parkinson.
Sì, c’è un figlio che fa il suo stesso lavoro, ma niente, non è capace, perciò lui “è
costretto” a restare al comando; lo studio l’ha creato lui, del resto, con fatica e
sudore, giorno e notte lì dentro senza il babbo che l’aiutava.
Insomma, sfigati, senza soldi e pure smidollati. Ci stringiamo le mani con poca
convinzione e siamo fuori. L’aria è satura di smog, ma sembra incredibilmente
pura rispetto a quella che abbiamo respirato fino a un attimo prima.
Altra città, più piccola, al confine tra centro e sud, stesso copione: stavolta
l’ambientazione è un’agenzia immobiliare, al primo piano di un palazzo senza
identità, costruito su una strada in un tempo neanche poi così lontano in cui di
sicuro era attraversata solo da carretti. Gli arredi sono meno pretenziosi, ma l’aria
viziata è la stessa. Ci accoglie un vecchio se possibile ancora più matusa del
lombardo commercialista, bassetto e tarchiato, occhi da rana.
Ci fa strada in una stanza dal soffitto incredibilmente basso, con un'ampia finestra
che domina sulla via. Nell'attesa che il figlio si liberi dalla telefonata, il vecchietto
ci squadra da capo a piedi, mentre i miei occhi sono attratti dalla macchina per scrivere che sta dietro di lui. Una poltroncina in simil pelle amaranto, consumata
sui braccioli che disegnano due angoli poco meno che acuti m'invita a saggiarla: il
sedile è sufficientemente morbido, si sgonfia con un sibilo sotto il mio sedere, ma
mi domando, mentre appoggio le braccia atteggiandole in un'angolazione
altrettanto bizzarra quanto i braccioli e stringendomi leggermente nelle spalle,
quante persone di dimensioni un po' meno ridotte delle mie (che già non sono un
gigante) ci si potrebbero accomodare senza restarne incastrati. Un'altra macchina
per scrivere nera spicca sul mobiletto di legno lucido; l'affianca un vecchio
apparecchio per i telex. Evidentemente il vecchio immobiliarista è un nostalgico.
Passa qualche altro minuto, finché si palesa il figlio. Se possibile, è più
malinconico del padre. Capelli neri diradati sul cranio squadrato, come sarebbe
evidente se se ne facesse una sezione aerea, a occhio ha più o meno la nostra età,
tra i trenta e i quaranta, per usare una categoria statistica al posto dell'osservazione
empirica. Perché il figlio immobiliarista è di quel tipo difficilmente catalogabile
all'anagrafe: forse era già così a dieci anni. L'occhio tondo da triglia lascia
trasparire un non eccelso QI. E però il ragazzone si sforza di darci una speranza,
mentre non ci fa neanche segno di accomodarci (aridagli) sulle sedie dello
studiolo di poco più moderno dell'anticamera, affollato di agende bancarie in pelle
(macché pelle) nera e da registri lisi sui quali annota, come in un archivio degli
anni Cinquanta, le caratteristiche dell'appartamento che vogliamo. Quello dei
sogni, certo, ammobiliato o meno è uguale, purché non al di sopra dei 400-450
euro, magari pure in centro e se possibile con contratto regolare. Poi magari
vogliamo pure un caffè e la pastarella, tutto compreso nella trattativa. Facile come
bere un bicchiere d'acqua, sì sì.
Ma la proprietaria non vuole single, sapete, è di quelle donne di chiesa... e beh,
certo. Noi ci sposiamo prima di entrare nel suo economicissimo e senz'altro
confortevolissimo appartamento sulla statale. Me l'immagino già la trafila: 740,
garanzie di babbo.
Andiamo, su. Meglio uscire all'aria.
Il ritratto della bigotta che mai sarà la nostra nuova proprietaria è il dejavu di
quella che purtroppo padrona di casa lo è stata davvero.
Il cappellino di lana, tondo, da nonnina, nascondeva una chioma stopposa,
neanche troppo imbiancata. Perché la megera, chiamiamola disneyanamente
Crudelia Demon, non era poi così anziana, solo che se ne stava rannicchiata sulla
sedia di velluto rosso del tremolante commercialista adducendo una grave
influenza a ragione del suo portamento monacale e dimesso.
E invece le frullava ben altro nella testa. Cose tipo “questa qui mi sembra una
buona polla da spennare”, con quella faccia da Madonnina infilzata (è un
simpatico complimento che mi è stato rivolto per davvero). Anche il mio ragazzo,
del resto, non aveva certo l’aria di un avanzo di galera, il che, in certi casi, può
essere un difetto. Due tipi che non fanno paura neanche a un cane traumatizzato
dalle bastonate (giuro, è successo davvero) non possono dare grane: sicuro come
la morte che pagano tutto fino all’ultimo centesimo e pure di più.
Entrati in possesso dell’abitazione, un bilocale al quarto piano senza ascensore
sulla sommità di un palazzo un tempo di un certo pregio, caduto in disgrazia come
un nobile durante la rivoluzione d’ottobre, capiamo abbastanza in fretta di aver
commesso, mi si passi l’eufemismo, un’imprudenza.
I segnali del clamoroso errore di valutazione non si manifestano tutti insieme, no,
però alcuni sono lampanti già dal primo giorno di permanenza.
Punto uno. La porta è vecchia, solcata da inquietanti crepe verticali che lasciano
intuire che basterebbe una spallata per buttarla giù.
Punto due. I materassi ricondotti malauguratamente in casa dalla cantina nel piano
interrato emanano un inquietante odore di muffa. Per il momento pensiamo di
avvolgerli in doppio, triplo lenzuolo, ma capiamo dopo pochi minuti che dormirvi
senza rischiare di essere assaliti da qualche pantegana insinuatasi tra un grumo di
lana e l’altro (ma erano di lana? Chi può saperlo, tanto erano consunti) non era
opportuno per la nostra salute.
Quindi decidiamo di aprire il divano letto, quello che Crudelia Demon diceva che
avrebbe potuto fungere da giaciglio per eventuali ospiti. E qui arriva il doloroso,
quanto prevedibile punto tre: il nuovissimo divano a due piazze nascondeva al
proprio interno una resistente, questo sì, rete matrimoniale, tuttavia priva di
materasso, neanche di quelli bassi bassi, di gommapiuma. Un moto di rabbia s’impossessa di me: capisco come in un’illuminazione buddista di essere stata gabbata.
Ma le sorprese non erano finite.
Nel giro di pochi giorni si manifesta il punto quattro, sotto forma di orrendi insetti
schiacciati, neri e traslucidi. Il trasloco nell’avita dimora, del resto, era avvenuto
in aprile, con l’esplodere della bella stagione, nel trionfo della vita che rinasce.
Perché mai dovevano essere esclusi dal moto creativo solo i simpatici animaletti?
E infatti, loro, sentono il calore di una casa di nuovo abitata, si inebriano delle
briciole lasciate nella spazzatura, dell’umido della vasca, delle cacche di piccione
attaccate sulle balaustre delle porte-finestra. Ridurli al silenzio, con un’operazione
chirurgica di quelle che piacciono tanto agli americani, ci è costata una certa fatica
e una discreta intossicazione da insetticida. Però alla fine, ce l’abbiamo fatta.
Crudelia, nel frattempo, ci aveva avvisato che quando avessimo lasciato la sua
impeccabile proprietà avremmo dovuto restituirle i materassi. Sicuro, pensavamo,
mentre li facevamo rotolare giù dalle scale fino all’ingresso della cantina, dando
loro calci non proprio eleganti, dopo averli avvolti in doppi strati di cellofan, per
assicurarci di non toccarli oltre, non certo per proteggerli meglio dalla polvere.
E arrivò anche il giorno che tornando a casa, infilando la chiave nella saldissima
serratura, mi sono accorta che qualcuno aveva provato a forzarla. Per fortuna, il
tentativo d’effrazione, in gergo poliziesco, non era andato a buon fine, ma lo
spavento mi spinse ad avvisare Crudelia. Lei, naturalmente, non poteva farci
nulla. E figuriamoci, tanto se buttavano giù la porta le uniche cose di valore erano
le mie. A no, dimentico i ninnoli che la prima settimana avevo provveduto a
riporre negli angoli meno accessibili: una fruttiera di ceramica dalla foggia
settecentesca (solo la foggia, s’intende) con tanto di frutta di plastica coordinata.
Un porta-foto con cornice d’argento spessa, di quelle che si regalano alle
comunioni, e all’interno il ritratto di una giovane donna in abiti ordinari tendenti
al triste, chissà, forse la precedente occupante o magari una tizia morta
prematuramente vent’anni prima e ricordata malinconicamente con quell’orribile
scatto, pure un po’ sfocato. Una roba inquietante comunque, che faceva il paio
con gli arredi di legno plasticato, contornati da guide dorate, massicce, un comò-scrittoio
con le gambe convesse e ghirigori finto Luigi XIV e un comodino (uno
solo) alto e stretto con il piano di marmo, molto casa della nonna anni Quaranta.
Ogni volta che passava un camion i vetri di tutta la casa tremavano da paura. E poi
le sirene del vicino ospedale che squarciavano la notte lacerando i sogni.
Un piccolo excursus per dire che dopo diversi mesi, al momento del tentativo di
furto, la casa di Crudelia aveva già rivelato in pieno tutte le proprie potenzialità
mefitiche. Di pagare a metà con i proprietari una porta blindata che poi sarebbe
rimasta a loro proprio non se ne parlava. Crudelia sembrava delusa quando al
telefono sciogliemmo la riserva: la porta blindata te la paghi tu, ora però fateci una
qualche dannata riparazione, altrimenti un pochino ci arrabbiamo.
Una mattina arrivano i “Demon”. Quanto s’era atteggiata a fine e angelica
nonnina, lei, tanto sembrava uscito da Bianco, rosso e verdone, lui. Per la
precisione, era l’incarnazione del clichè del meridionale cafone, arrogante e
malmesso. Panza prominente e manone grosse, mister Demon fortifica la già
provata porta d’ingresso con una doppia serratura da soffitta, di quelle che
basterebbe un buon cacciavite per smontarla in cinque minuti. Non osiamo dire
nulla, anche perché, se non vado errata, una parte della riparazione (tipo cinque
euro) l’abbiamo pagata noi.
Ma tant’è Milan l’era Milan: per “laurar” va bene pure un tugurio, né più né meno
degli immigrati stranieri, esattamente (o quasi) come i nostri nonni solo
cinquant’anni fa.
Ma siccome la sociologia non m’è molto simpatica (fondamentalmente mi
sembrano tutte chiacchiere, mi perdonino i seri professionisti che la praticano) e
dal momento che, del resto, anch’io vendo fumo come un sociologo, cioè esercito
un altrettanto inutile lavoro intellettuale, un po’ mi giravano le balle di vivere
come un prossimo candidato alla mensa della Caritas.
Arrivò infatti l’inverno che la caldaia tirò le cuoia: la colpa, poveretta, non era
tutta sua ma, per transustanziazione (?), di Crudelia sì. Mi aveva detto di fare
riferimento al suo idraulico quando avessi dovuto metterle il nuovo bollino per i
fumi. Dovevo immaginare che se era un suo amico non poteva essere a posto. Il
tipo era un ometto sui cinquanta, chiaramente un altro meridionale milanese di
recente acquisizione, tarchiato e visibilmente arrapato. Il suo intervento è
risolutore, nel senso che sfascia la caldaia del tutto, poi alla meno peggio la fa
ripartire ma la cosa non dura. Io so solo che ho tirato fuori forse 50 euro e che
dopo poco ho realizzato che la cosa migliore era chiamare (ad averlo fatto subito,
maledizione) il call center della ditta produttrice della caldaia. Dopo quindici
giorni di freddo e gelo arriva un ragazzetto con una ventiquattrore ricolma di
strumenti iper-professionali che in un’oretta ripara tutto e mi spiega perché a un
certo punto la caldaia avesse preso a perdere acqua in quantità orrorifica.
L’idraulico dall’occhio caprino non sapeva tararla, in pratica non ci capiva una
cippa, per usare un francesismo. Grazie idraulico, grazie Crudelia.
La rottura del riscaldamento avviene per fortuna a solo un mese dall’abbandono
definitivo della elegante dimora nonché dell’addio alla metropoli. Un addio
sofferto, certo, ma forse meno doloroso di quello potevo aspettarmi.
“Chi volta il cul a Milan volta il cul al pan”, ebbe a dirmi un parente del mio
fidanzato, mettendomi a parte di un detto lumbard che non ha bisogno di ulteriori
commenti.
Sarà stato vero, lo sarà ancora per molta gente. Però quando mi sono ritrovata di
nuovo davanti al commercialista a restituirgli le chiavi immergendomi ancora una
volta nell’aria stantìa quasi tutta respirata, davanti alle sue pratiche nelle cartelline
di cartone e la sua testa tremolante non ho sentito altro che una strana leggerezza.
Mai più Crudelia, mi sono detta, che possa spendere i suoi fottuti soldi solo per
medicine, ho aggiunto.
Dietro al commercialista mi pareva che una folata di vento avesse fatto aprire
leggermente la finestra: prima ancora di uscire in strada, le mie guance erano
stranamente fresche. Era come se l’aria viziata fosse sparita nel momento stesso in
cui il commercialista aveva poggiato le chiavi di Crudelia facendole tintinnare
sulla sua scrivania di mogano, tra le agende di pelle e le scartoffie polverose.

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E DOPO

Camminavamo fianco a fianco, nel cortile a larghe mattonelle. Erano già
trascorsi i primi mesi del mio contratto a termine, l’indomani avrebbero
dovuto dirmi se la mia esperienza di lavoro sarebbe proseguita o no. “E dopo?”.
Istintivamente avrei voluto rispondere: “E come faccio a saperlo?”, ma pensavo
già che avrei rischiato di risultare acida e aggressiva. La persona che mi poneva la
domanda non lo meritava: la sua era una preoccupazione autentica, la stessa che
probabilmente avrebbero avuto i miei genitori.
Dopo che cosa avrei fatto? In quel momento speravo che il dopo fosse rimandato
al “dopo-dopo”, come in effetti poi accadde. Il contratto mi venne prolungato per
ben tre volte, il che mi permise di accumulare undici mesi di lavoro ben retribuiti.
Poi il dopo arrivò.
Nei giorni precedenti dormii pochissimo. Con l’avvicinarsi della scadenza che
sapevo sarebbe stata definitiva, mi sentivo ogni giorno più smembrata, come se il
corpo e la testa navigassero in direzioni contrarie. Eppure, non attribuivo la
tensione direttamente alla causa: anzi, pensavo piuttosto di avere qualche male
fisico, che so, la pressione alta o una forma di nevrosi incurabile. Anni prima la
mia emotività aveva raggiunto livelli pericolosi, come una diga per mesi
ingrossata dalla pioggia. Da allora avevo vissuto nell’attesa che l’inondazione
potesse verificarsi per davvero e anche se non era mai successo, finivo per
mettermi sul chi vive molto prima di arrivare al travaso.
Il primo giorno pulii freneticamente tutta casa. Ricordo di aver ricevuto un sms
dalla persona che mi aveva chiesto premurosamente che cosa avrei fatto dopo,
quel giorno in cui il dopo era ancora lontano. “Com’è andato il primo giorno fuori
di qui?”. Ebbe la cortesia di non scrivere “da disoccupata”, un gesto che apprezzai
molto. Probabilmente il mio amico voleva chiedermi come mi sentissi
psicologicamente, ma io per natura tendo a prendere le parole in senso letterale,
attaccandomi a loro come se le stessi traducendo da una lingua straniera. Risposi
all’sms elencando tutte le attività domestiche che avevo svolto fino a quel
momento. E niente altro, anche se nello scrivere e inviare quel resoconto dalla
cambusa mi accorsi che forse avrei dovuto parlare d’altro. Di come mi ero sentita
senza il vincolo della sveglia, del tragitto faticoso fino al lavoro e delle
incombenze che quel lavoro mi richiedeva, comprese le relazioni con i colleghi
che durante quell’anno non sempre erano filate tranquille.
Ero nel dopo, ma facevo finta di non esserci.
Del resto, bisognava che mi ci abituassi. Pian piano presi coscienza del mio nuovo
status. Decisi persino di sottopormi a un check-up per verificare se l’insonnia
prolungata non avesse cause fisiche. Accantonati i dubbi, passai un mese fiorito e
profumato nella mia città natale. Un pomeriggio mi ritrovai a battere il piede
ritmicamente in una piazza del centro: un gruppo di musicisti di canti tradizionali
recuperati dal passato contadino mi fece dimenticare per due ore che solo trenta
giorni prima ero da tutt’altra parte, probabilmente con la testa china sulle bozze
che dovevo correggere con molta attenzione.
Stavo bene. L’insonnia era sparita, il viso cominciava a distendersi. I rimpianti
sarebbero venuti più avanti, quando la temperatura divenne più calda e i conflitti
con i miei dai quali mi ero rifugiata per qualche tempo, mi fecero capire con
chiarezza che dovevo trovare un nuovo inizio.
Un nuovo lavoro, sì, ma più che altro una collocazione nel mondo. Una qualsiasi,
almeno per cominciare. E le due cose, il lavoro e la collocazione nel mondo,
purtroppo coincidono per quelli che non hanno pedigree nobiliari.
Solo che non sempre gli inizi arrivano. Più spesso ci si aggrappa a quello che c’è,
ripartendo, nel mio caso, dalla formula “Pap”, cioè pagata a pezzo, che nel gergo
del giornalismo vuol dire articolo. Dall’elemosina, insomma.
Ricordo il novembre freddissimo nella mia vecchia casa del nord, con la vestaglia
sopra il maglione e la coperta sulle gambe. Si era rotta la caldaia, ma nonostante i
termosifoni gelati io dovevo starmene al computer perché avevo un lavoro da
consegnare. Probabilmente si trattava dell’intervista a un riccone svizzero
produttore di orologi. Per fortuna mi aveva chiamato lui direttamente sul telefono
fisso, poggiato sulla tristemente pretenziosa tavola da pranzo di legno beige
plasticato con i bordi dorati che usavo come scrivania. Più avanti fui anche capace
di ironizzarci su, perché in effetti la situazione era davvero paradossale. Io
ghiacciavo, mentre dall’altro capo del filo una voce bassa e suadente mi
intratteneva sul concetto di moto perenne e sincronico. Se non altro almeno una
parte del corpo mi s’era scaldata, anzi due: l’orecchio e la spalla con cui reggevo
la cornetta, mentre prendevo appunti direttamente al computer.
Per ironizzare occorre tempo, però. Quando sei nel mezzo del “dopo”, non sempre
hai l’energia necessaria per giocare con gli scherzi della sorte.
E’ proprio quello che mi sta capitando adesso. Oggi mi sento alla vigilia di un
nuovo “dopo”. Rispetto all’altra volta, certo, ci sono delle differenze. Intanto,
spartisco questa condizione con altre persone. Mi specchio nei loro occhi e vi
intuisco lo stesso senso di smarrimento che sicuramente loro leggono nei miei.
Spesso, poi, ci confrontiamo, o forse sarebbe più esatto dire che sfoghiamo
ciascuno, secondo binari paralleli, il senso di frustrazione che ci provoca non
sapere come sarà il dopo. A volte le nostre ansie convergono: quando capita ci
sembrano più sopportabili e crediamo anche di essere in grado di dominarle. Poi
però ci separiamo, passiamo lunghi fine settimana nell’inattività forzata,
sacrosanto diritto di qualsiasi lavoratore che si trasforma in un incubo per chi il
lavoro non l’ha più. E anche per chi teme di perderlo da un momento all’altro,
secondo un copione vecchio e banale.
Eppure, ribadisco, non tutto è uguale. L’altra volta, per dire, non riuscivo a
dormire mentre ora sono più le mattine che spengo la sveglia e mi riaddormento
che quelle in cui cedo al latrare molesto dei cani dei vicini. L’insonnia è la bestia
peggiore del “dopo”. Le giornate sono già lunghe, almeno la notte si vorrebbero
riposare i nervi logorati dall’ossessione del tirare a sera, per lo sforzo di aver
tenuto la schiena dritta pur di non cedere all’angoscia di non sapere come
riuscirci.
Si dice che i depressi dormano a lungo. Chissà se è il mio caso. A me, a dirla tutta,
non pare di essere depressa. Forse sono anch’io “platonica”, come raccontava una
conoscente incontrata in spiaggia l’altro giorno, anche se forse sarebbe stato più
esatto dire epicurea: ripeto, per me che prendo le parole alla lettera un termine
sbagliato è fastidioso quanto un gessetto nuovo strisciato sulla lavagna.
Forse sono semplicemente preparata all’idea del dopo.
Il dopo non è cosa che passa in un giorno, né si può evitarlo finché abbiamo vita.
E’ il vuoto che arriva dopo il pieno, in attesa che la natura o la storia lo riempia di
nuovo.
Quante volte l’ho cercato io stessa come atto di sfida contro la mia pigrizia?
La pagina bianca è il vuoto, ma lo è anche quella piena. Dopo che cosa aggiungo?
Come vado avanti?
La paura di non sapersi rispondere c’è, ma finora è stato sempre più forte l’istinto
di buttare qualche ipotesi, ulteriori percorsi di esistenza.
Forse sarei una buona giocatrice d’azzardo, chi lo sa.
Mi è venuto questo dubbio tutte le volte che la domanda “e dopo?” mi veniva
rivolta così, pour parlez, da persone che in fondo non si preoccupavano davvero
del mio futuro. Da quelli che il sedere sulla sedia ce l’avevano e nessuno
gliel’avrebbe sottratta. Non nascondo di essermi anche arrabbiata, ma con gli anni
ho imparato che non era colpa loro. Il vuoto spaventa, lo vedo da come ho reagito
sull’aereo, sospesa in mezzo alle nuvole, quando ne ho incontrato qualcuno.
Che poi, stavolta, non c’è quasi più nessuno che me lo chiede. Pagherei anzi per
sentirmelo dire di nuovo. Oggi sono circondata da troppa gente che vive più o
meno alla giornata, che del “dopo” ha imparato a fare una realtà ormai
incontrovertibile. Un contratto a tre mesi per farsi la stagione estiva in uno
stabilimento balneare è già una buona notizia. Tremila visite giornaliere al proprio
blog sono già un successo, un dono all’ego che è riuscito a rendersi visibile senza
bisogno di dichiararlo al fisco. Ogni tanto qualcuno dei miei nuovi conoscenti alza
la testa e prova a cercare un’alternativa, un’altra strada che possa portare a un
nuovo “dopo”. C’è chi al termine di una dura giornata in fabbrica si butta in un
corso di formazione per diventare vigile urbano (ma una volta non era uno dei
mestieri nominati più di frequente nelle barzellette, poco sotto quello del
carabiniere? I sogni si adeguano ai tempi, evidentemente). Si sa già che i posti
saranno pochissimi e contesi tra una pletora di candidati sudati e sfiniti da codici e
leggine, sempre più simili ai questuanti che in epoche antiche cercavano di
accaparrarsi i favori di qualche parruccone inginocchiandosi a baciargli l’orlo
della veste. C’è poi chi spera nel contrattino a tempo determinato, però di un anno,
che è già una gran cosa, e poi in Comune, che una volta era il sogno di ogni
genitore per il proprio figlio; e c’è anche chi sarebbe disposto a rinunciare al
tempo indeterminato, accontentandosi di un incarico a termine secondo i dettami
imposti dalla famigerata legge Biagi, pur di trovare un lavoro più simile al proprio
percorso di studi, alle proprie inclinazioni, a se stesso insomma.
Nella maggior parte dei casi, cambiare è impossibile. Ma non ci avevano detto che
dovevamo abituarci alla flessibilità? Chi è flessibile, infatti, gestisce meglio i
“dopo”. E c’è che ci si sta allenando da anni: perché non dare una chance dopo
tanto training?
Forse hanno ragione i gufi (ma in realtà fior di studiosi) che preconizzano da anni
la fine del lavoro. Se i posti diminuiscono non c’è “dopo” che tenga: o ci si
accontenta di dividere in dodici la torta che prima si mangiava in quattro,
naturalmente godendo di porzioni più piccole, o si prova a dividere un’altra torta
con qualcun altro. Magari si tratterà di un dolce secco, non con la panna come il
primo, ma ci si accontenterà perché quest’ultimo lo vogliono meno persone.
Però non si scappa.
Le nostre aspirazioni, le mie, ma anche quelle dei miei amici e di chi non conosco,
non contano: noi, piccoli insignificanti bipedi, non decidiamo proprio un bel
niente.
Se solo fossimo capaci di accettare la crudezza di questa verità probabilmente
smetteremmo di oscillare tra il pieno e il vuoto inseguendo prima l’uno e poi
l’altro.
Degli altri, però, non so dire. Sarebbe il segno di una tracotante presunzione.
Di me so che sono pronta al nuovo “micro-dopo” che potrebbe risucchiarmi come
un buco nero in una galassia sconosciuta nel giro di poche settimane.
Sarà la storia a decidere da quale parte del cosmo riemergerò.

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DUE COLPI

Sentì i suoi denti sbriciolare il pezzetto di biscotto.
Fu un attimo, ma tanto le bastò per immaginare i canini che lavoravano per ridurre
in poltiglia quella pallina marrone scuro, probabilmente di cioccolato.
Greta non aveva voluto assaggiarne dalla ciotolina poggiata sul divano tra lei e
Giacomo.
Giacomo invece sembrò aver gradito il pensiero di sua madre, venuta nella sala a
fare gli onori di casa all’ospite improvviso.
Mentre tornava dalla stazione, Greta aveva sperato di incontrarlo per caso, per
strada, ma niente, di Giacomo nessuna traccia né nell'isolato né sul pianerottolo di
casa. Eppure, sarebbe bastato che uno dei due parlasse a voce un pochino più alta
per rivelare all’altro la propria presenza, attraverso il muro che divideva gli
appartamenti dei rispettivi genitori.
Da bambini lo facevano sempre: picchiavano sulla parete e aspettavano che l’altro
reagisse. A un certo punto, anzi, avevano ideato un vero e proprio codice di
comunicazione.
Due colpi voleva dire “ci si vede giù in cortile”, tre colpi “vieni a fare merenda a
casa mia”, quattro “non posso uscire, devo fare i compiti”.
Erano andati avanti così per anni. Un giorno Greta aveva bussato tre volte, visto
che sua madre aveva fatto la crostata. Dall’altra parte del muro, però, non era
arrivata alcuna risposta. Lì per lì Greta aveva pensato che Giacomo fosse uscito,
oppure, chissà, era in bagno, stava poco bene, aveva il walkman alle orecchie.
Capì solo più tardi che cosa era successo, anche se non grazie alla sua
spiegazione.
Giacomo le disse che semplicemente si era stufato del gioco: avevano diciott’anni
ormai, non potevano andare avanti in questa maniera così infantile.
Greta ci restò malissimo: per quanto la riguardava era del tutto naturale continuare
a chiamarsi attraverso il muro, che cosa c’era d’infantile?
La verità giunse in un giorno d'inizio inverno. Stava studiando, quando un vento
improvviso fece tremare i vetri della finestra. Girò lo sguardo verso le foglie
irrequiete della magnolia. Si alzò per osservarle meglio e per capire se stava già
piovendo. No, il cielo era solcato solo da enormi mobilissime nuvole bianche, che
lasciavano scoperti ampi tratti di cielo.
Istintivamente abbassò gli occhi verso il cortile.
Giacomo stava abbracciando una ragazza. Lassù dal terzo piano Greta riusciva a
scorgere il sorriso intimidito di entrambi, mentre si staccavano continuando a
fissarsi. Si intuiva che dovevano essere già intimi dal modo in cui
Giacomo le accarezzava il braccio, appena sotto la spalla. Pareva quasi che
dicessero: qui in pubblico non possiamo lasciarci andare, troppi sguardi indiscreti,
continueremo da qualche altra parte...
Greta rimase seduta sul letto nella stessa posizione istupidita per un tempo che le
sembrò lunghissimo.
Anche ora, sul divano della sala, mentre Giacomo masticava, non riusciva a
muovere neanche un arto.
Era tornata poche ore prima per le vacanze di Natale. Per tutto il viaggio si era
chiesta se non fosse stato il caso di farlo sapere a Giacomo. In fondo, le faceva
piacere rivederlo. L’ultima volta che l’aveva incontrato stava per riprendere le
lezioni all’università e Giacomo le era sembrato molto contento di chiacchierare
con lei. Anche lui studiava, ma aveva deciso di frequentare nella loro città per
restare accanto alla sua ragazza, la stessa che Greta aveva visto dalla finestra quel
pomeriggio e che poi qualche tempo dopo Giacomo le aveva presentato. Greta le
aveva sorriso con gentilezza, ma non era stata capace di farle neanche una
domanda.
Poi era partita per l’università e le sue abitudini pian piano erano cambiate.
Adesso ballava il tango e conosceva parecchia gente. Per un periodo era anche
uscita con un ragazzo, un tipo carino che la faceva ridere. Aveva smesso di
pensare a Giacomo, soprattutto di avvertirne la mancanza. Per questo, quando era
tornata la volta precedente si era meravigliata del calore con cui lui le aveva
chiesto di farsi sentire ogni tanto. S’erano trovati sul pianerottolo rimanendo a
parlare per un po’. Più che altro era Giacomo a parlare, mentre Greta annuiva o
sorrideva un po’ distaccata.
Aveva la sensazione che Giacomo se ne fosse rimasto zitto per mesi e che lì,
accanto al portone di casa sua, volesse recuperare tutto il tempo perso. A un certo
punto le fece quasi promettere di chiamarlo quando fosse tornata di nuovo. Poi si
era interrotto e sorridendo con gli occhi le aveva detto: “Bussami dal muro”.
Greta era rimasta di stucco, poi l’aveva abbracciato con una certa legnosità,
facendo il gesto di avvicinare le guance alle sue senza sfiorarlo davvero. Poi era
entrata in casa.
Mentre Giacomo afferrava un altro biscotto, Greta si guardò le mani, prima il
dorso poi il palmo. Erano screpolate per il freddo, sapeva che avrebbe dovuto
curarsele meglio se non voleva che invecchiassero precocemente, ma in genere
non ne aveva mai voglia. In quel momento, invece, sarebbe corsa volentieri in
bagno per spalmarsele per bene di crema alla glicerina.
Non riusciva ancora a credere che Giacomo fosse lì accanto, seduto sul divano dei
suoi.
Tutte le volte che tornava a casa dall'università, amava restarsene a chiacchierare
con i genitori in cucina, appena dopo pranzo. In genere si andava avanti almeno
fino a metà pomeriggio: oltre, era impossibile protrarre ulteriormente la pulizia
della cucina, dilatata a bella posta perché il rito della riunione familiare si
compisse del tutto. Suo padre, in verità, non si tratteneva molto dopo il caffè,
sapeva che mamma e figlia avevano da scambiarsi confidenze da donne. Una
volta che andava via il papà, sua madre l’aggiornava sulle novità di zii, cugini e
vicini vari (spesso infilava nel discorso qualche lutto improvviso) e lei le
raccontava delle lezioni, degli esami ai quali si stava preparando, anche se
percepiva che in fondo non erano argomenti che la appassionavano, presa più che
altro dalla gioia di rivederla o, in alternativa, dall’osservarne l’abbigliamento, le
tracce di stanchezza o di eventuali inaspettate segrete novità (magari un
fidanzato). Difficilmente Greta aveva da dare qualche notizia straordinaria, meno
che mai stavolta. Era però piuttosto inquieta e lo fu ancora di più quando si ritirò
in camera sua, ufficialmente per riposare. La sua cameretta da adolescente era
rimasta immutata da quando era partita: sul comò c’era ancora il pupazzo di
Minnie che le aveva riportato da Disneyland la compagna del cuore. Non aveva
voglia di leggere né di dormire, non aveva voglia neanche di distendersi.
A un certo punto, come un robot allungò il braccio verso la parete e bussò una
volta: “ci sei?”
Riportò il braccio sul ginocchio sorprendendosi che il suo stomaco gorgogliasse
un po’.
Silenzio.
Ok, Giacomo non c’era, era meglio prendere un libro e mettersi a leggere. Prima
però doveva liberarsi delle scarpe. Prese a slacciarsi l'anfibio. In quel momento
sentì suonare il campanello.
Pensò che doveva essere qualche amica di sua madre, così si abbassò di nuovo per
allargare meglio i lacci. Dall’ingresso la madre la chiamò a gran voce.
Con lo stivaletto già mezzo sfilato, Greta si era precipitò all’ingresso. Le occorse
qualche istante per mettere a fuoco la sagoma di Giacomo che sorrideva a sua
madre scusandosi per l’ora: magari, disse, qualcuno stava ancora riposando.
Greta si domandò come fosse possibile che un dolcetto piccino a quella maniera
potesse produrre un suono così forte sotto i denti di un essere umano. Quindi
anche quando lo mangio io, constatò, faccio davvero un gran casino. Le affiorò un
lieve sorriso.
“Perché stai ridendo?”, le chiese Giacomo portandosi educatamente il dorso della
mano davanti alla bocca.
“Ma no, niente, una stupidaggine”.
“Eddai, dimmela”.
“Davvero, non è il caso”.
“Su, più non me la dici e più sono curioso”.
“Sicuro che la vuoi sapere?”.
“O Greta, eddai”.
Greta non si aspettava di sentirsi chiamare per nome con quella naturalezza. Una
cosa così succedeva in altri tempi, per esempio quando giocavano a briscola e lui
cercava di strapparle con l’inganno la verità sui punti che aveva in mano. Le
faceva le smorfie, fingeva di allungare il collo verso le sue carte finché Greta, a un
certo punto, finiva per distrarsi e Giacomo vinceva la partita. Greta lo insultava,
chiamandolo baro, o peggio bastardo, ma poi ci ricascava allo stesso modo la
volta seguente.
Stavolta però non lo stava guardando: aveva i gomiti poggiati sulle ginocchia e il
viso diretto davanti a sé, verso il brutto quadro naif che i suoi genitori molti anni
prima avevano appeso sulla parete opposta al divano.
“E su, perché non me lo vuoi dire? Che sarà mai?”, aggiunse Giacomo con la voce
deformata dal boccone finale.
Greta si girò leggermente per scrutarlo. Aveva un’espressione che non gli aveva
mai visto.
Almeno, non l’aveva mai rivolta a lei.
Sembrava compiaciuto e insieme speranzoso. Negli occhi si era accesa una notte
stellata, rasserenante come nelle giornate d’estate più limpide. Le labbra erano un
po’ schiuse, ancora lievemente tese per il recente movimento. Il resto del corpo
era immobile, in completo ascolto di quello che lei avrebbe detto.
Giacomo viveva in attesa di una sua frase, viveva in quell’istante solo per lei.
Con la coda dell’occhio Greta vide le punte dei suoi capelli biondi sfiorarle la
parte superiore delle spalle. Si sentiva sotto un riflettore bianco, accecante, il resto
del palcoscenico in ombra e il pubblico in ansiosa attesa. Ebbe l’impressione che
anche Giacomo stesse fissando le sue ciocche ondulate; poi Greta girò gli occhi
verso la credenza alla sua sinistra e le sembrò che lui facesse lo stesso.
“Erano i denti... i tuoi denti.... O mamma, ho ancora la scarpa sciolta!”.
Greta si abbassò per riallacciarsela, restando in quella posizione qualche secondo.
Le guance le bruciavano.
Ancora china, sentì un tonfo sul muro, poi un altro ancora. Si risollevò di scatto.
Giacomo stava sorridendo, il gomito sollevato sullo schienale del divano, la mano
a pugno ancora appoggiata alla parete.
“D’accordo, ci vediamo giù”, gli rispose illuminandosi.
Non era mai stata così felice.

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UNA DONNA


Mio caro,
ci siamo appena salutati. Ho visto il tuo sguardo accendersi, la tua voce abbassarsi mentre mi sfioravi delicatamente la spalla, e con la mano scivolavi giù, fino all’incavo dell’ascella, a toccarmi per un attimo la base del seno. Che meraviglia tornare adolescenti così, in un pomeriggio freddissimo di fine inverno, noi fermi in macchina sul ciglio di una squallida strada di periferia, tra i capannoni industriali semiabbandonati. Quante volte sarò andata a caccia di posti del genere, dove potermi appartare un po’, lasciandomi pervadere, non senza un certo senso di colpa, dai primi brividi lungo la schiena? Quello che è successo tra noi è magico. Io ai segni ci credo, carissimo, anche se fingo di essere d’accordo con te sul fatto che la vita sia tutta caso e razionalità. Agli adulti non sono concesse le smancerie. Eppure, in fondo al cuore sappiamo entrambi che non tutto è spiegabile con la logica. Meno che mai l’amore. E tra noi l’amore c’è già. Come te lo spieghi, in caso contrario, che il tuo orologio si sia fermato? Anche il tempo ci ha voluto regalare un’ora tutta per noi, evidentemente, tra i camion che sfrecciavano di lato, illuminando i nostri baci e le nostre carezze, molto più casti di quelli che mi scambiavo con il ragazzo quando adolescente lo ero davvero.
Non so come evolverà questo sentimento che ci lega. Non so neanche se mai ci sarà una storia per noi. Non m’importa. Lasciamo deciderlo al caso, se vuoi che lo chiami così, per non sentire quella predestinazione tipica che si avverte quando ci si innamora (ho letto Galimberti, Hillman, sono un’intellettuale, io, mica pizza e fichi). Però, prima che la storia si scriva da sé, ho bisogno di raccontarti alcune cose. Di raccontarmi. Perché, oggi, mentre un sole più deciso preannuncia pigramente la primavera che ravviverà presto le colline, so descriverti con parole nuove un episodio del mio passato che ha creato una cesura tra me ragazzina e me adulta. Se mai potremo amarci, ma anche se non sarà possibile, voglio che tu sappia tutto di me. Il caso (ok, il caso...) ci saprà dire se scriveremo mai un pezzo della nostra storia a quattro mani. Io però intanto butto nel calderone che vorrei mescolare con te, come preparassimo una pozione fatata che ci streghi l’uno per l’altra tutta la vita, un frammento della mia identità, per aiutarti a comprendermi, e, forse, per conquistarti ancora di più.
Grazie di esserci. Spero di non deluderti mai.


Con amore


Novella




Quando smette di battermi così forte? Ho paura, perché a me, perché doveva capitarmi una cosa così? Non riesco a stare in piedi, che vergogna, Adele ha dovuto portarmi il secchio. Ho pisciato lì dentro come i vecchi, come gli handicappati. E poi l’ho vista che si allontanava con il secchio tenuto con la punta delle dita, schifata dalla mia pipì. Quando arriva mia sorella? Che cosa succederà adesso? Non lasciatemi sola, no, vi prego. Sì, dammi Paolo Conte, sì, provo ad ascoltarlo, in genere mi calma. Bravo, grazie, meno male che ci sei tu. Scusami se ti ho rovinato il compleanno, non so che mi è successo, so solo che la testa mi girava. Ho paura. Anzi, sono terrorizzata.


Il ventisei febbraio 1997 la mia vita è cambiata. Da allora non sono più stata quella di prima e, credo, da quel giorno in avanti ho cominciato lentamente, rigirandomi spesso su me stessa, come una triste bambolina da carillon, a diventare un’adulta. Oggi posso dirlo con una certa sicurezza, sì, oggi che sono passati oltre nove anni, e tutto nella mia vita è cambiato. O quasi.
Se non altro adesso sono in grado di raccontarlo, e di farci i conti. O forse perché del passato bisogna liberarsene, a un certo punto, per favorire le novità che vogliamo. E per scacciare, come in un rito propiziatorio, tribale, quel deprimente senso di ripetitività che avverti quando ti sembra di ricadere in comportamenti logorati dal tempo. A quasi 35 anni, voglio evitare di sapere di muffa, insomma, un po’ come la sensazione che produceva in me quella mia professoressa del liceo che continuava a indossare gli abiti anni Settanta della sua giovinezza in un’epoca in cui trionfavano le spalline e le maniche a pipistrello. Ma alla fine, guarda un po’ tu, aveva ragione lei: dieci anni dopo era di nuovo tutto un fiorire di pantaloni a zampa di elefante e di scarpe di pezza.
Oggi, però, sarebbe ancora una volta fuori moda, attenzione.


Ero alla cassa, stavo per pagare l’Odissea, sì, volevo darla a Saverio quella sera, ma ho aperto il portafogli e l’ho quasi buttato lì, sul bancone, davanti alla cassiera della Feltrinelli, perché mi sono accorta che le gambe non mi reggevano. Mi sento male, ho detto, e poi mi sono accasciata su uno sgabellino di quelli che usano i commessi per tirare giù i libri che stanno in alto sugli scaffali. La titolare del negozio, una signora bionda, forse avrà avuto quarant’anni, chi lo sa, ha pensato bene di chiamare l’ambulanza. Io nel frattempo mi ero spostata sullo scalino esterno alla libreria che dava sul corso principale, tra i passanti che mi guardavano con curiosità e una certa inquietudine. Era d’altra parte difficile che non mi notassero, dal momento che l’ambulanza è arrivata a sirene spiegate facendosi largo tra i pedoni. Una commessa era rimasta lì con me, a cercare di tranquillizzarmi. “Non hai niente, hai avuto un attacco d’ansia”. Come ho visto i camici bianchi, ho detto: “No, grazie, io con voi non vengo”. Come vuole, signora, solo ci deve firmare questo foglio, magari l’accompagniamo nella farmacia qui affianco, si faccia almeno misurare la pressione. Un capannello di curiosi poco distante osservava la scena. Ricordo chiaramente che ho chiuso la mano a pugno sollevando il pollice in su, neanche fossi stata il presidente degli Stati Uniti. E forse ho proprio detto: “Non vi preoccupate, grazie, sto meglio, aspetto che venga a prendermi il mio ragazzo”. Un vecchietto a quel punto mi ha sorriso e mi detto: “Coraggio, passerà”. La piccola folla si è dispersa. Il farmacista ha provato a condurmi dentro, ma io niente, non ho voluto sentire ragioni. Poi mi sono alzata, la commessa gentile mi ha convinta a salire al piano di sopra della libreria, in maniera che potessi aspettare lì la sorella del mio ragazzo, lontana da occhi indiscreti, e forse per tenere buona la titolare. Saverio non era a casa, i cellulari non esistevano ancora: per tutta la giornata ha ignorato come stavo rovinandogli il compleanno. La proprietaria bionda era parecchio infastidita dalla mia presenza. Probabilmente, si diceva: “Se questa ci lascia le penne proprio qui, nel mio negozio? Per i miei affari sarebbe un disastro”. Mesi dopo sono riuscita a metterci di nuovo piede, lì dentro. La commessa, bruna, occhi chiari dolcissimi, mi ha guardata e con discrezione mi ha chiesto come stavo: “Meglio, grazie”. Non ho mai sentito così tanta riconoscenza per qualcuno. La bionda, probabilmente, non mi ha vista. Meglio così, magari mi avrebbe cacciata a pedate. Non ricordo più se sono tornata a comprare l’Odissea proprio lì. So che un giorno, la gola riarsa e le gambe tremolanti, sono riuscita ad acquistarla e a darla a Saverio. Ci avevo messo su una dedica, in cui, probabilmente, rievocavo le spiacevoli circostanze del primo tentativo fallito.
Non è invece scomparsa dalla mia memoria l’immagine di me seduta sullo scalino della libreria, lo sguardo fisso sui passanti alla ricerca di rassicurazioni. Ma l’ambulanza e poi il farmacista che scrutava nel fondo dei miei occhi per capire se ero una tossica in crisi d’astinenza hanno finito per scatenarmi un’agitazione che non mi ha lasciato più per giorni e giorni.
Tump tump tump tump. Una tachicardia così intensa non l’ho più provata. Neanche sull’aereo l’anno scorso.
Per costringermi a dormire un po’, Saverio mi aveva passato le sue gocce di lexotan. L’effetto su di me è stato un ottundente stordimento senza sonno, cui sono seguiti giorni e giorni di astenia.
Era come se le funzioni vitali mi si fossero congelate. Sulla pancia non avevo più reazioni muscolari, sulle gambe era scesa una pesantezza mista a un senso di dissanguamento che mi spingeva a starmene immobile e sdraiata. La sera stavo meglio, avevo la sensazione che le forze mi tornassero; così al risveglio, ma solo fino all’attimo prima di poggiare i piedi a terra. Il resto della giornata, un disastro. Ho il flash di me e mio padre che giochiamo a scacchi in sala. Lui, paziente, si sottoponeva a questa attività che probabilmente non gli piaceva un granché, pur di scuotermi dall’apatia. Una volta mi ha portato in un bosco bellissimo. Ho camminato sull’acciottolato, allontanandomi un pochino da lui. In quel momento mi sono sentita benissimo. Ho raccolto un legnetto con due braccia, come quello dei rabdomanti. Quell’oggetto ha avuto per me un significato magico per molto tempo. L’anno dopo, incredibilmente, quando stavo molto meglio, sono tornata proprio in quel bosco, e più volte anche, con un gruppo teatrale con cui facevo la comparsa. I posti fatati esistono, smettiamola con la iper-razionalità di sapore ottocentesco.


Il viaggio di ritorno a Roma con mia sorella lo ricordo come un sogno. Ero stordita, la testa mi ronzava, le sue frasi mi arrivavano ovattate. Prima di pranzo con mio padre e mia sorella, in una calda giornata di inizio marzo capitolino, avevo mandato giù un po’ di gocce calmanti, persuasa da mio padre. Il risultato era che camminavo ondeggiante come un rapper. Non sono mancati momenti comici, come quella volta che mia sorella, sul balcone di casa dei miei, dove mi rifugiavo a riposare con la musica nelle orecchie, sdraiata sulla sedia di plastica da mare, quatta quatta, da dietro, mi ha spostato la cuffia e mi ha fatto il verso del gabbiano, imitando le musiche new age che ascoltavo per cercare di rilassarmi. Io sono scoppiata a ridere, rendendomi conto già da sola che quella roba non serviva a nulla. Lucidamente, mi dicevo già da giorni, quelle musiche non mi facevano effetto alcuno, almeno non meglio di quanto facessero alcune canzoni di Conte. Non dimenticherò mai, ad esempio, che stavo ascoltando “Il nostro amico Angiolino”, sempre sulla sdraio piazzata a bella posta sul balcone, nel punto in cui si forma un piccolo slargo, proprio davanti allo studio condiviso da me e mia sorella negli anni della scuola, il giorno che mia madre mi ha telefonato per avvisarmi che mia nonna, sua madre, stava molto male. Avevo appena dato l’esame di maturità, ero sfinita da una giornata al mare, era l’inizio di un luglio caldissimo e a me sembrava che il tempo fosse eterno. Così m’ero messa sul balcone, all’ombra, il walkman e Paolo Conte con il suo Angiolino con gli occhi d’aquilotto. Sapevo che mia nonna stava male, aspettavo notizie da mia madre.
Quell’angolo di balcone sa molto di me. Sulla soglia della porta finestra ho preparato esami, letto libri e ho suonato il bongo, male e goffamente, nei lunghi mesi che hanno seguito l’incidente della libreria. Nel vetro della porta finestra mi sono specchiata mille volte, osservando il mio viso, la piega verticale sulle guance, dalla base del naso ai lati della bocca, e le mie gambe, odiate per la loro rotondità, amate per la loro forza.


Saverio non è più nella mia vita, ma lui sa quanto quell’episodio mi ha fatto soffrire. Saverio, anzi, ha creduto che una parte della mia ansia fosse dipesa proprio da lui, e dal suo stile di vita disordinato. Con Saverio convivevo in segreto, all’insaputa dei miei genitori. Certo era vero che la cosa non mi faceva stare del tutto serena. Odiavo quella casetta microscopica e soffocante nella quale ci eravamo ritrovati a vivere. Forse non ero pronta a una scelta del genere. Mi sentivo piccola, all’epoca, volevo vivere altre esperienze, benché la mia storia con Saverio fosse molto bella e intensa. Chi lo sa se aveva ragione. Non so dirlo. Io, in ogni caso, non ho mai pensato di incolparlo della mia crisi. La nostra storia si è esaurita molto tempo dopo, quando ho ripreso a cercare la mia strada che mi ha portato lontano da lui e dalla mia vecchia vita di studentessa universitaria. Quel mattino, lì, nell’atrio dell’università, se non ci fosse stato lui con la mia famiglia non so come avrei fatto. Saverio ha assistito con mia madre e mia sorella alla discussione della mia tesi. Mi ha sentita parlare con una proprietà di linguaggio che non immaginavo neanche di avere. La correlatrice si è complimentata per lo stile giornalistico della mia tesi. Strette di mano, applausi e 110 e lode, conquistati come in un incubo. Tanto che per molto tempo dopo quel giorno, ho continuato a sognare che dovevo ancora laurearmi. L’unico assente dall’aula magna, mio padre, che era più in ansia di me: anche a lui, la sera prima della mia tesi, tremavano le gambe. Ho sempre avuto il terrore di essere come lui, e come suo padre, mio omonimo, e mio zio, suo fratello, che per lungo tempo s’è fatto accompagnare alla fermata dell’autobus dai figli perché aveva paura di andarci da solo.
Odio gli ipocondriaci e gli ansiosi, odio la genetica. Ma ormai mi sono rassegnata: una parte dei difetti di famiglia ce li ho anch’io. Fortuna che però ci sono mia madre e mia sorella dotate di ironia e coraggio. Fortuna che sono una donna. Una donna adulta, ancora giovane, le prime vere rughe sulla fronte spaziosa e le zampe di gallina più decise ai lati degli occhi. Una donna che ha già vissuto un po’ e che cerca di capirci qualcosa in questo continuo rinnovarsi di albe e tramonti, inverni ed estati. O forse non c’è niente da capire, ma solo da vivere. E vivere intensamente ogni attimo. E lasciarsi andare alle giornate, così come arrivano. Perché, magari, un giorno torneranno ancora una volta di moda i pantaloni svasati in fondo, e di nuovo la mia professoressa sarà a la page.


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ANNI '90


IL SOGNO

Tornavo dal viaggio e avvertivo un forte desiderio di solitudine, benché immaginassi quanto potesse risultare difficoltoso esaudirlo in quella casa sempre piena di gente.
Mi sentivo inquieta, ma non troppo.
Entrai nella mia stanza e lasciai cadere la borsa a terra. Sollevai lo sguardo di fronte a me, verso la finestra, quand’ecco che notai il primo fastidiosissimo cambiamento. Il letto di mia sorella non era più accostato alla parete, ma era stato spostato sotto la finestra. “Che sciocche! – osservai – che scherzo stupido”. Ero convinta, infatti, che si trattasse dell’ennesima burla delle mie coinquiline, principale causa del mio malessere in quella casa.
Andai quindi in bagno perché avevo un forte bisogno di orinare e lì notai il secondo mutamento: il water era chiaramente inutilizzabile, poiché il tubo blu che lo collegava al muro, giaceva sul pavimento.
Non me ne accorsi subito, a dire il vero, dal momento che mi ero già appositamente seduta sulla tavoletta, ma quando realizzai, scattai in piedi indispettita e, tiratami su in fretta i pantaloni, mi diressi nell’altro bagno. Fu qui che mi spaventai non poco allorché, cercando di strofinarmi con la carta igienica, scoprii sulle parti intime non una, ma due insenature nelle quali la stessa si infilava, rimanendovi impigliata. Mi sembravano due grosse bocche sanguinolente, e, per la verità, anche ciò di cui mi liberavo aveva il colore del sangue.
Uscii. Rientrai nella stanza chiudendo la porta dietro di me.
Non potrei mai riprodurre fedelmente la rabbia che provai quando mi accorsi del terzo cambiamento: le mie simpatiche compagne avevano attaccato sulla parete una piccola fotografia, o meglio, un ritaglio di giornale che ritraeva una bambina, o forse una ragazza bionda, grassa, dalle sembianze di una contadina.
Le futili donne forse pensavano di offendermi paragonandomi a quella figura insulsa, così diversa da me. Fatto sta che non potei fare a meno di staccarla, con un po' di difficoltà, peraltro, perché le furbe l'avevano ben fissata con lo scotch più adesivo; ma vi riuscii e con voluttà appallottolai il pezzo di carta appiccicoso. La particolarità, anche questa volta, fu che non subito mi resi conto di quello che avevo davanti. Il ritaglio, infatti, si trovava in mezzo a tanti altri che non mi ricordavo di aver mai appeso, ma che forse mi appartenevano.
A un secondo sguardo notai la figura in bianco e nero della riccioluta contadinella. E qui, mentre mi compiacevo del mio atto di rivalsa, mi apparve lei, bella fanciulla bruna, dagli occhi vispi, che io non sopportavo e men che meno in quel momento. Tentai di sprangare la porta, ma non potei infilare la chiave nella serratura: tentando di inserirla delicatamente, avvicinai l'occhio al buco e scorsi di nuovo lei, dall'altro lato, che armeggiava con qualcosa per ostacolarmi nell'operazione.
Alla fine la ebbi vinta; chiusi a chiave, ma l'odiosa, appoggiata contro lo stipite, le braccia conserte, mi osservava da dietro il vetro. Anche in questo caso il cambiamento mi colse di sorpresa. Fu un attimo, però, perché subito afferrai l'avvolgibile e tirai giù la serranda, allontanando da me, in tal modo, quegli occhietti diabolici che mi fissavano con scherno.
Mi passai le mani tra i capelli, sperando che mi avrebbero lasciato in pace, ora che mi accingevo a dormire.
Non ricordo più quando, ma a un certo punto quella porta si riaprì e io mi affacciai sulla soglia.
Trasalii alla vista di un'altra figura di donna che non avevo mai visto prima. Quando mi si fece più vicina la riconobbi: era un amico di lei, che per una ragione inspiegabile, o forse, lampante, era vestito da donna, con una parrucca in testa, i riccioli bruni troppo schiacciati sul viso. Lo salutai cordialmente fingendo di stare allo scherzo, poi richiusi la porta: non sopportavo il suo accento.
Mi avvicinai al letto con l'intenzione di dormire, ma scorsi sotto quello di mia sorella una busta rettangolare trasparente, piena d'acqua. Guardai allora sotto il mio letto e vidi una seconda busta che mi affrettai a spostare sotto l'altro. Sollevai la coperta e, per mia fortuna, non mi sedetti subito; la tirai invece fino in fondo e fu allora che lo vidi. Uno strano marchingegno campeggiava sul materasso che peraltro era stato privato del lenzuolo e un filo, che mi sembrava elettrico, lo attraversava diagonalmente, scendendo giù dietro la spalliera. Sbottai. Non ressi più quella messinscena. Cominciai a urlare: “Mi avete rotto i coglioni! Mi rotto i coglioni!”.
L'uomo vestito da donna apparve e mi chiese, quasi premurosamente, che cosa mi fosse successo.
Anche a lui non rivolsi altro che insulti e, afferrata una giacca di mia sorella, poi di mia madre, a quadretti bianchi e grigi, corsi per il corridoio fino alla porta d'ingresso.
Appena uscita, vidi una signora bionda che incontravo spesso sull'autobus, forse ora inquilina del palazzo, che bussava, mi parve, un po' concitata, dal mio dirimpettaio.
Capii che non badava affatto a me, che pure uscivo alle 4 di notte, con un'aria non certo rassicurante. Pensai che forse potevo aver disturbato il sonno degli altri condomini e ciò m'infastidiva, perché io ero una studentessa modello che mai avrebbe fatto rumore. Mi precipitai per le scale, perché non volevo che il tipo mi fermasse e cercasse di tranquillizzarmi. Feci le scale a due a due, tanto che non mi sembrava di correre ma di volare. Sapevo che lui stava scendendo con l'ascensore. Attraversato il cancello corsi via, qui forse meno speditamente, perché notai un capannello di gente sotto il palazzo che guardava verso l'alto. Erano le quattro di notte, pensavo cosa mai ci facevano? Benché, in effetti, il cielo era già chiaro. Non so se assistetti alla scena seguente, mentre di certo era presente il mio inseguitore.
Al quinto piano, dove abitava la mia amica d'infanzia, si trovava abbarbicato su una sporgenza ornamentale, a forma di parallelepipedo, uno strano personaggio, con le mani e le braccia aderenti contro il muro.
La gente si era radunata nel cortile e si chiedeva non si sa se curiosa o spaventata, se mai si sarebbe gettato. Anche l'inseguitore si fece la stessa domanda, proprio quando questi si lanciò nel vuoto, cadendo a terra, piano, con un tonfo sordo. La gente si fece più vicina. Qualcuno, forse una ragazza, lo aiutò a sollevarsi e gli chiese il perché di questo gesto. Fu allora che l'inseguitore riconobbe di avere di fronte un nano, dalle fattezze un po' tozze, tipiche di chi è affetto da una deformazione genetica, i capelli radi con la riga al lato e i grossi occhiali dalla montatura ovoidale, metallica.
Il nano, un po' incerto ma sorridente, disse di aver ripetuto una prova in cui altri prima di lui si erano cimentati. Asserì di esserci riuscito visto che non sentiva alcun effetto particolare per la caduta, anche se non poteva assicurare che se ne sarebbero manifestate le conseguenze in seguito.
Nel frattempo io continuavo la mia fuga. Riuscii a raggiungere la Standa. Entrai e afferrai in fretta e furia alcuni vestiti, chiedendo alla commessa dove potessi provarli. Avevo infatti intenzione di camuffarmi per impedire che l'inseguitore o chi per lui potesse riconoscermi. Scelsi anche dei cosmetici. Mi vestii con gli abiti nuovi, l'etichetta non ancora staccata.
Non so se lo feci davvero o se questa era la mia intenzione. Fatto sta che il telefono squillò e io, incredula, mi svegliai.


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ANNI '80


QUEL TRENO VIAGGIAVA


Quel treno viaggiava. Portava dentro di sé mille volti sconosciuti. Mille vite diverse, l'una dall'altra. Mille esperienze, dal manager di successo al contadino ingenuo in cerca di fortuna nella città.
Le frequenti gallerie oscuravano tutto. Anche le loro anime.
In un vagone, due vite venivano a contatto: due vite legate indissolubilmente.
Il sig. X fece il suo ingresso nello scompartimento ansando e ripetendo sempre la stessa parola: fine, fine, fine...
La sig. Y lo squadrò da dietro i suoi occhiali di tartaruga, con un'espressione di distacco e allo stesso tempo di curiosità.
Oh, mi scusi”, esordì Mr X, “non pensavo ci fosse qualcuno qui...”.
Uhm”, fu la risposta.
Mr X finì per sedersi, dopo qualche esitazione dato il comportamento della signora, di fronte a questa.
Che viaggio lungo! Non pensavo che andare a *** costituisse tanto strapazzo...”.
Mr X continuò a parlare ma la signora affondò i suoi occhi miopi nel libro che aveva tra le mani.
L'uomo tacque.
Lo sferragliare del treno coprì il silenzio glaciale creatosi in quello scompartimento, l'ultimo del treno.
La sig. Y sembrava intenta nella sua lettura, ma in realtà osservava attentamente ogni mossa, ogni atteggiamento dell'uomo che aveva di fronte.
No! Non può essere – pensò – non può essere lui! Pensavo fosse morto. E invece... No! No! Devo sapere! Devo sapere!”.
Il naso appuntito della donna cominciò ad agitarsi: il cappellino che circondava graziosamente la sua testa, le scivolò sulla fronte.
Mr X, preso da un impulso, glielo raggiustò. La sig. Y scattò in piedi, con gli occhi sbarrati per l'indignazione. Le mani le tremavano, il viso era contratto.
Mr  non capiva; confuso e avvilito, si profuse in scuse di ogni genere. Non sapeva quello che aveva fatto.
Il viaggio proseguì senza altri incidenti. La sig. Y sembrava essersi tranquillizzata e ora cominciava a conversare con l'uomo che aveva di fronte.
Lei da dove viene?”, chiese graziosamente, con uno strano sorriso melenso.
Io... io sono di ***”, rispose stranamente turbato, poiché gli balenava nella mente il ricordo di qualcuno o forse qualcosa che aveva distrutto la sua vita o forse resa migliore in un tempo ormai remoto.
No! No! Tu menti! - pensava la donna – tu non vuoi, non puoi ricordare da dove vieni!”.
Mr X e Mrs Y continuarono a parlare per ore e ore; lui, sempre con quella strana sensazione, lei, con un sentimento acceso e appassionato che cresceva sempre di più.
Scese la notte. Fuori, il cielo era sempre lo stesso: sereno, lontano, pacato.
Dentro quel treno, in quell'ultimo vagone, sembrava che dormissero.
Minuto dopo minuto, attimo dopo attimo, un suono diventava sempre più forte. Un potente fischio, no, non quello del treno! Un fischio d'allarme!
Aiuto! Aiuto! Al fuoco! Al fuoco!”, si alzarono grida di paura. Un'enorme massa di persone si riversò per i corridoi.
Si spingevano, si calpestavano a vicenda. Nessuno si curava più di nessuno; l'egoismo naturale si mostrava, finalmente, sulla giornaliera ipocrisia.
Pensano a salvarsi”, commentò nell'oscurità la sig. Y, glaciale.
I suoi occhi fissavano l'uomo che aveva di fronte. “Ma... ma... mi sembra normale!”, Mr X si alzò e nervosamente cercò di aprire la porta dello scompartimento. “E', è bloccata! Non funziona neanche la luce!”.
Lo so”, gli occhi di Mrs Y si accesero.
“Come... lo sa?”, Mr X le si avventò contro, afferrandole le braccia e scotendola.
Sono stata io”, e scoppiò a ridere sadicamente.
Il sig. X rimase impietrito. Quindi cadde per terra, ancora incredulo, s'era reso conto di chi aveva davanti.
Sua moglie, morta in un incidente aereo a cui egli era miracolosamente scampato, voleva vendicarsi, perché era sempre stata una casalinga, perché non era mai riuscita a trovare un lavoro; mentre il sig. X aveva avuto molto successo in tutti i campi... anche con le altre donne!
“Ora dovrai morire! Sì, morire! Mentre tutti quanti sono già scesi dal treno!”, i suoi occhi febbrili, il suo naso mobile, le sue mani frenetiche, si agitavano davanti a Mr X: si strinse la testa fra le mani. “No! No! Non è possibile! No!”, la scoteva e piangeva come un bambino.
La sig. Y continuava a ridere, ridere...

Quel treno viaggiava. Portava dentro di sé mille volti diversi, mille vite indifferenti.
Nell'ultimo scompartimento un uomo si chinava su una donna di fronte a lui e le sussurrava: “Svegliati, cara: stiamo per arrivare”.

2 commenti:

I commenti sono moderati: vi ringrazio per la pazienza e per l'affetto. Vostra Madamatap