mercoledì 31 ottobre 2012

In biblioteca a scrivere e fotografare, la giusta pausa tutta per me

Biblioteca Mozzi Borgetti, Macerata


Comunque vada a finire, ne è valsa davvero la pena.
Parlo della mia esperienza di ieri pomeriggio, le quattro ore più piacevoli della mia vita recente, non esaltanti, giovanilisticamente parlando, però assai rasserenanti.
Sto parlando della mia partecipazione a Storie da biblioteca, un concorso o gioco (a seconda di come lo si voglia vedere) per scrittori/fotografi incentrato sulla valorizzazione dello splendido patrimonio librario delle Marche. Volendo, si poteva partecipare a tutte le dodici tappe del viaggio letterario e fotografico condotto in altrettante biblioteche regionali, anche perché il tutto si è svolto gratuitamente, senza limiti d'età né presentazione di curriculum. Prima di iscrivermi, mi sono giusto informata se fosse il caso che una tardona come me non fosse proprio fuori luogo. Rassicurata dalla gentilissima organizzatrice, mi sono detta: ma sì, perché no? Ed è andata. Anzi: è andata benissimo.
In fondo, non ho dovuto fare altro che rinverdire una mia antica frequentazione: dal liceo alla laurea, ho sempre bazzicato le sale lettura e ancora oggi, quando vedo uno scaffale ricolmo di libri, provo una grandissima fascinazione.
L'esperienza di ieri me ne ha peraltro richiamato alla memoria un'altra, risalente ai tempi della scuola di giornalismo. Qualcuno, non so più se Tabloid, il mensile dell'Ordine della Lombardia, o una testata interna all'Ifg, mi aveva spedito alla Biblioteca Ambrosiana di Milano, nel cuore del centro storico della metropoli lumbard, per ricavarne un articolo. Ricordo l'esaltazione (in quel caso sì, l'ho provata) nell'aggirarmi tra teche, incunaboli, tavoli massicci e suoni ovattati. Se non vado errata, anche in quel caso ho scattato qualche foto, con una delle prime digitali all'epoca in commercio, dotata, pensate un po', di porta per il floppy disc.
Ai tempi della Voce, poi, mi è toccato di calarmi nel ruolo di un immaginario utente colto di spalle intento a sfogliare un volume qualunque (un'altra volta ho fatto la donna vittima di violenze domestiche e un'altra la cercatrice di lavoro interinale... che si doveva fare per campare). E ogni tanto, soprattutto da quando ho ripreso a fare foto, prendo in prestito qualche volumone di fotografia nella bella biblioteca Romolo Spezioli di Fermo.
Però un concorso, no, non l'avevo fatto mai e se anche non dovessero mai prendere in considerazione il raccontino che ho buttato giù con un certo divertimento infantile e se pure le foto scelte (dovevamo selezionarne solo cinque: quella che vedete in alto è stata sacrificata, non senza fatica) non convincessero la giuria, beh, chi se ne importa. Speriamo piuttosto di avere altre occasioni per nuovi giochi di ruolo, innocenti e stimolanti per anima e, sì, gambe.
Perché accidenti se pesa portarsi appresso pc, fotocamera e cavalletto!
Sarà il caso, piuttosto, che mi attrezzi con uno zaino adeguato: ieri sono arrivata con un borsone da pendolare decisamente poco professionale. E d'altra parte, era giusto presentarsi così, un po' sprovvisti e dimentichi di se stessi. Sì, era proprio giusto così.

lunedì 29 ottobre 2012

Sentirsi come un albero d'autunno


Sono nata e cresciuta in una città di provincia. Ma questo è assodato. E digerito, direi.
Per scelta, nel lontano 2005 sono venuta a vivere in una omologa cittadina posta sulla cartina poco più a nord. La piazza che sta alle spalle di questo scatto è magnifica e conservo ancora il ricordo della prima volta in cui l'ho percorsa, ai tempi del secondo anno della scuola di giornalismo. Era inverno, anzi, autunno inoltrato, probabilmente era venerdì sera, e ci stavamo dirigendo verso quello che vari anni dopo ho scoperto chiamarsi auditorium San Martino. Quella sera Alessandro Bergonzoni dava uno spettacolo proprio per noi aspiranti pennivendoli dalla pelle ancora liscia (qualcuno un po' meno) e il curriculum ancora da riempire (almeno per quanto mi riguardava).
Quel paesaggio era così simile al mio, eppure così esotico. Un anno a Milano vale doppio: già dopo un giorno che ci trascorri, tutto il resto sembra evaporare e ti ritrovi all'improvviso in un presente eterno, senza memoria e senza futuro. Almeno, era questo l'effetto che mi faceva vivere in quella città, forse proprio perché sono cresciuta in posti in cui percepisci lo scorrere delle stagioni, nei colori delle colline, nelle rughe del cielo e nell'aria che si fa all'improvviso pungente. Ogni volta che torno a Chieti, per dire, ritrovo gli odori della mia infanzia e adolescenza e come Proust con la madeleine mi torna in mente chi sono. A Milano, invece, finisci per dimenticartelo e se può andar bene per i maniaci del lavoro o per chi ha ferite dell'anima da curare con il distacco, non può essere adatta a chi, viceversa, vuole, almeno ogni tanto, ritrovarsi. Specchiarsi e riconoscersi. Parlare a cuore aperto con qualcuno, osservare un tramonto, ascoltare il vento. Non che tutto questo non ci sia anche a Milano, è solo che passa in secondo piano, coperto dai rumori, dai volti, dai mezzi e dai continui stimoli, spesso davvero eccitanti, di una città dei balocchi arida e tentatrice.
Non che io non ami scoprire cose nuove, aggiornarmi sulle ultime tendenze (rammento ancora la lezione della mia amica Cristina sulle differenze tra kitsch e camp. Se volete ve le spiego), fare shopping, andare alle mostre e chiacchierare con le mie ex coinquiline, ma non è possibile passare la vita in questo modo: di fatto non lo fa nessuno, neanche chi ci vive contento.
Con il passare degli anni, poi, è logico aspettarsi anche altro, magari un po' meno smog, magari un po' più di calore nei rapporti, un po' più di spessore. L'ho constatato l'ultima volta che ci sono tornata: nessuna di quelle ex ragazze che passavano con me per la bella piazza di Fermo è rimasta identica a come era in quei giorni. C'è chi è diventata mamma, chi ha cambiato lavoro svariate volte, chi ha proprio smesso di fare la giornalista (una a caso?), chi ha scoperto l'India. Per fortuna, si cambia, insomma, anche in quella città così unica, nel bene e nel male.
A distanza di anni, insomma, finisci per dirti: ma perché me ne sono andata? Anche qui, alla fine, i rapporti sono ugualmente superficiali, la grettezza e la disorganizzazione dilagano, e pure il paesaggio, certi giorni, è piatto e squallido e l'aria puzza. Che cos'è che mi ha fatto dire, un giorno di tanti anni fa, mentre passeggiavo in bicicletta sul lungomare di Porto San Giorgio, sì, voglio trasferirmi qui?
Ufficialmente, mi hanno condotto qui il lavoro e l'amore. Poi, però, il primo è finito e con quello gli anni dorati della mia giovinezza. Di questo, ahimè, sono davvero convinta: smembrato il piccolo gruppo brancaleonesco con cui ho passato giornate indimenticabili, è finita anche la mia lunga, prolungatissima, adolescenza.
Il carattere, certo, resta quello, ma dentro qualcosa si è rotto. Qualche illusione di troppo, qualche idealismo da manifestazione scolastica, qualche legame che reputavo importante.
Era ora, probabilmente, ma vi assicuro che un po' fa male, perché ti guardi nello specchio (di tempo in questo periodo ne ho fin troppo per osservare la mia faccia un po' così) e ti chiedi, di nuovo: ma io chi sono e che ci faccio qui?
Così guardo la foto che ho scattato l'anno scorso, sotto Natale, in giornate intense, di quelle che piacciono tanto a una ex bambina come me, e penso di essere come un albero che sta perdendo le foglie (mi sono appena resa conto di aver copiato Giuseppe Ungaretti. Giuro che non l'ho fatto apposta). La primavera è lontana, ma tornerà: conviene risparmiare energie per allora, indurendo la corteccia quanto basta contro il gelo shakespeariano.

mercoledì 24 ottobre 2012

Strategie anti-piagnisteo per la "choosy" che è in me



Comincio a pensare che il periodo saudade durerà ancora parecchio. Del resto, sono appena emigrata in Germania ed è logico che stia qui a rimpiagere o sole e o mare.
Come? Non lo sapevate? Mi trovo a Tubinga, in questo momento, nella città delle biciclette e della giovinezza.
Porca miseria che fatica svegliarsi, questa mattina. E per fortuna che c'è il sole e la gatta Bice giusto dietro di me, sulla solita scatola del tostapane.
No, non sono affatto partita, ma devo dire di essermi sentita un genio nell'usare una scusa del genere per tenere a bada il Seccatore.
Se ne parlo con tanta scioltezza, è perché ho l'assoluta certezza (che fa pure rima) che non verrà mai su questo spazio.
Però, in effetti, c'è stato un momento ieri in cui mi ero già vista con la valigia in mano, pronta a ricominciare da zero.
Nei giorni scorsi ho letto le biografie di vari fotogiornalisti di cui non avevo mai sentito parlare, che mi hanno dato la misura della mia piccolezza. D'altra parte, so benissimo di aver fatto altro e sempre con il massimo dell'impegno.
Però, in effetti, un po' "choosy" lo sono stata e lo sono tuttora, soprattutto verso certi ambienti ricchi solo di grettitudine, un neologismo che mi suona meglio del più corretto vocabolo grettezza.
Così ascolto musica brazileiro-capoverdiana come il brano di Lura sopra linkato.
Mi piace molto il sorriso di questa musicista nata nel 1975, sotto il segno del Leone. Glielo invidio parecchio, forse perché vorrei poter esibire il mio un po' più spesso.
Invecchiando, mi capita più facilmente di parlare di invidia. E pensare che io non l'ho mai provata, verso nessuno, neanche verso le nullità di successo.
Del resto, succede ai lamentosi cancerini come me di fare bilanci impietosi. Penso proprio che dovrò imparare a convivere con questo senso fiaccante di fallimento. Prima lo faccio e prima ne uscirò.
In qualche maniera. Germania o non Germania, nell'ombra o nella gloria.
E alla peggio, andrò a guardare il mare e a sentirne il rumore.
Facendo schiattare d'invidia i tubingani, o come diavolo si chiamano gli abitanti di quella città.

venerdì 19 ottobre 2012

Via dall'Italia prima della disfatta. E Why Aye Man



"Che lavoro fa"? I medici specialisti lo chiedono spesso per appurare se ci possa essere l'usura professionale tra le cause dei disturbi lamentati dal paziente.
A giudicare dai dati presentati oggi da non mi ricordo più quale organismo (poi lo controllo: adesso non c'ho voglia. Comunque l'hanno detto al tg3 del pomeriggio), alle donne italiane farebbero meglio a chiedere: "che lavoro non fa?", considerando proprio il non-lavoro tra le possibili fonti di stress organico.
In tutti i modi, a volte capita che qualcuna che un lavoretto l'ha anche trovato, preferisca tirarsene via prima, per l'appunto, di rovinarsi la salute.
Lo raccontava ieri mattina in coda per le analisi una giovane donna dal viso pieno a un conoscente anziano, amico forse dei suoi genitori, che esibiva uno sguardo molto malinconico.
"Dal call center? Me ne sono andata. Ma per carità. Adesso lavora solo mio marito, è caporeparto alla frutta". Subito dopo ha precisato che neanche il lavoro del coniuge è sicuro, ma meglio di niente. E comunque adesso a lei sarebbe toccato un compito non meno impegnativo: diventare mamma, visto che si era appena resa conto di essere in dolce attesa. Mentalmente le ho augurato buona fortuna. Sperando, naturalmente, che prima o poi possa tornare anche lavorare, perché di certo una mamma casalinga non è un buon esempio, soprattutto se dovesse mettere al mondo una bambina, che un domani finirà per convincersi che anche se sta a casa fa niente.
Tornando alle file dai medici, comunque, tolti quelli che parlano dei propri e altrui acciacchi, in generale ci si sofferma spesso sul lavoro, sul proprio svolto in anni passati, come nel caso di un vecchietto di bassa statura (era poco più alto di me, che come si sa non sono un vatusso), occhialini su un paio d'occhi buoni buoni. "In Germania c'è tutto un altro sistema", mi svelava a un certo punto di un'attesa particolarmente lunga, "lì non vai tu a cercare il lavoro, ma succede il contrario: se ti trovano per strada, ti fermano e ti chiedono se vuoi lavorare da qualche parte. Però se non accetti e ti ritrovano in strada una seconda volta, ti rispediscono direttamente a casa tua".
Dovevano essere ricordi di gioventù, suoi o di qualche conoscente (non ho effettivamente capito se era un ex emigrante, so solo che per un lungo periodo ha adoperato un muletto con una leva assai resistente, un incarico molto delicato che richiedeva una preparazione ad hoc. Mi domando se oggi sia lo stesso, ma immagino di sì almeno nelle grandi aziende. Comunque me lo auguro).
Di fatto lui la sua pensione se l'è guadagnata, cosa che, come ha considerato a un certo punto del suo monologo durante il quale mi sono limitata ad annuire di approvazione, non accade ai giovani. Con il lavoro così spezzettato e insicuro, mi ha spiegato con linguaggio semplice, è difficile pure comprarsi da mangiare. E se non si mangia come si fa?
Già, come si fa?
Si tenta la sorte, sperando che la fortuna prima o poi arrida, cambiando Paese, come facevano non solo gli italiani, ma anche inglesi, scozzesi e irlandesi non so bene in quale periodo storico, nella canzone sopra linkata di Mark Knopfler. A citarmela, è stato ovviamente Sfaccendato, che conosce a menadito tutto lo straordinario repertorio di un musicista di rara classe come l'ex leader dei Dire Straits. Ma la canzone è molto nota anche a me, visto il grandissimo numero di volte in cui l'ho ascoltata.
Nel testo si parla per l'appunto di Germania e di un gruppo di immigrati che dopo il lavoro immerso nel rumore, nella polvere e nel sudore, passa la serata come può, se possibile in compagnia della propria "pretty fraulein".
In pochi versi, il grande Mark affresca la vita dell'immigrato per antonomasia, uguale in tutti i tempi e origini nazionali. Meglio di un reportage, meglio di un'indagine storico-sociale.
Non so se ancora oggi in Germania ti vengano a cercare sulla strada (qualcosa mi dice che non sia più così), ma gli aneddoti raccolti in questi giorni sembrano elargire l'ennesimo messaggio subliminale a intraprendere la via dell'espatrio prima che sia troppo tardi.
Non parlo tanto per noi Sfaccendati, che abbiamo già una certa età e vari impedimenti; penso piuttosto ai giovani citati dal gentile vecchietto e ai ventenni nominati da mio padre in auto giusto ieri. Chi non ha famiglie, figli (o gatti: non si adattano mica così facilmente ai cambiamenti le simpatiche creature) o vincoli d'altra natura fa bene a mollare l'Italia al suo destino.
E pazienza se sarò annoverata anch'io tra i piagnoni tricolore, però, francamente, finché non vedrò uno straccio di segnale di rivalsa morale (ma ci accorgiamo di quello che sta succedendo in Grecia?), finché avremo casi Fiorito-Maruccio-Trota-etc etc, nessuno mi toglierà dalla mente una visione più che mai fosca della terra che mi ha dato i natali.
Vi ho depresso? Ascoltate il brano di Mark e vi tornerà l'energia.
Why Aye Man, amici.

sabato 13 ottobre 2012

Dei medici e dello scetticismo esistenziale



Come tutti gli ipocondriaci, non amo molto andare dai medici, ma a volte, forse proprio per vincere la mia naturale propensione a tenermene alla larga, mi forzo e vado, in nome del principio secondo cui prevenire è meglio che curare. In questo caso specifico, poi, ho una ragione pratica che non sto qui a spiegarvi. Insomma, ieri pomeriggio, con la nostra macchinina scassata (da me), ho parcheggiato nei pressi dell'ospedale. E ho subito sbagliato ingresso. Stavo infatti per entrare nel reparto di medicina d'urgenza, cioè il pronto soccorso. No, decisamente non era il posto giusto. Faccio così la passerella in salita, studio i livelli e i percorsi arcobaleno, ed eccomi in un corridoio spoglio, da nosocomio dell'Est Europa pre-caduta Muro. Mi siedo rassegnata a una lunga attesa. Per buoni dieci minuti resto da sola, poi si unisce una famigliola composta da genitori giovani e bambine piccole molto carine. Simpatizzo con la minore che continua a fissarmi come un marziano. Non a torto, aggiungerei.
E insomma, alla fine tocca a me. Mi trovo davanti un medico sulla sessantina, tondo e un po' spelato, dai modi molto placidi. L'ideale, ma sì, per un soggetto ansioso come la sua nuova paziente.
Dà l'idea di leggersi con attenzione i risultati dei miei precedenti esami, sennonché, poi, il fatto che mi rifaccia la stessa domanda a distanza di pochi minuti, mi dà un po' da pensare.
Ma mi sta ascoltando? O il rinnovarsi degli stessi interrogativi fa parte del pacchetto-visita medica? Detto in altri termini: chiedere ossessivamente le stesse cose è forse un modo per spingere il visitando a rilassarsi in maniera che non rifletta troppo sulla tortura che sta subendo?
Mistero. In ogni caso, rivestitami e posizionatami sulla sediola dove mi aveva fatto accomodare all'inizio, attendo che finisca di scrivere il responso con un vago senso di tensione, cui segue, nel percorso a ritroso verso la macchina, uno stanco sollievo per essermela in fondo cavata con poco.
Stamattina, però, ho commesso l'errore di cercare su internet la sospetta patologia di cui soffrirei. E lì ho realizzato che il simpatico (questo sì) dottore che si è intascato settanta euro (letteralmente: si è messo i denari nella tasca del camice. E' l'ultima immagine che mi è rimasta impressa negli occhi mentre richiudevo la porta dietro di me) con incurante nonchalance ha sì una certa competenza (e vorrei anche vedere), però, come tutti i medici, non ascolta.
Naturalmente seguirò con attenzione tutte le prescrizionii suggerite (dovrò pur ammortizzare la spesa di farmaci e analisi varie), ma qualcosa mi dice che alla fine il sospetto avanzato dal placido dottore rimarrà tale. Meglio fa, a questo punto, il medico di famiglia, il "catastrofico", secondo la definizione appiopatagli dai miei parenti acquisiti, che, prescrivendomi un altro esame, ha chiosato nel seguente modo: "Gli acufeni sono la morte dell'otorino". Ovviamente sono trasecolata e gliene ho chiesto lumi: "In genere non si capisce mai come curarli, ma magari nel tuo caso è diverso", mi ha  risposto ridacchiando. Molto bene, ho pensato io, ritirando dalle sue mani da pianista azzimato l'impegnativa. Anche in questo caso, ormai sono in ballo quindi andrò a farmi analizzare le orecchie (vedi mai che faccio la fine di Beethoven, non nel senso che diventerò un compositore, ma nell'altro).
Però tutti questi episodi mi richiamano alla memoria una lontanissima visita dermatologica cui mia madre mi aveva accompagnato perché lo specialista analizzasse la natura delle macchie bianche che stazionavano sulla mia giovane schiena, residuo di un'eruzione cutanea che mi aveva provocato nei giorni precedenti parecchio prurito. Mentre il medico le osservava penso con l'ausilio di una lente d'ingrandimento, attendevo con impazienza, con mia madre di fronte, che la finisse prima possibile. Finché a un certo punto, gli ho sentito dire, dopo una pausa teatrale degna di Celentano: "E' chiaro che queste sono macchie". E io, di rimando, guardando mia madre negli occhi, ho fatto un gesto come a dire: "Ma va?" e lei per un pelo non è scoppiata a ridere.
Evidentemente, sono sempre stata un emotivo e un po' irreverente osso duro.
Mentre il dottore scriveva e scriveva le ricette e la mia scheda, non ho potuto infatti non pensare all'episodio dei medici in "Caro Diario", uno dei miei film preferiti.
Quand'è uscito, avevo poco più di vent'anni e la mia frequentazione degli studi medici (in fondo è tutt'ora così, per fortuna) piuttosto scarsa, quindi non ero in grado di apprezzarlo del tutto. Negli anni ho rivisto il film di Moretti un sacco di volte e con mio marito spesso ci siamo soffermati proprio sull'ultimo episodio, anche per scacciare la brutta sensazione di essere cavie da laboratorio, che non di rado ti resta addosso dopo qualche esame non proprio simpatico.
Tant'è. La mia natura coscienziosa mi fa comunque mettere su una maschera di coraggio bastevole almeno per sopportare quei quarti d'ora in cui ti passa addosso un macchinario o ti infilzano con un ago. Domina tuttavia in me un certo scetticismo che a questo punto chiamerei esistenziale, che mi fa diffidare, sempre.
E comunque, dai tempi di Caro diario in poi, tutte le mattine, a digiuno, mi bevo un bel bicchiere d'acqua. E meno male che non sarei suggestionabile...


giovedì 11 ottobre 2012

E se fossi un musicista? Scoprilo con il metodo BrainArm di Guido Mallardi!



Ho sempre amato il pianoforte, l'unico strumento capace di produrre, almeno per le mie orecchie digiune da nozioni di armonia e solfeggio, rimbombi carichi di poesia.
Rammento ancora con molto piacere il saggio di musica di Valentina, una delle mie più care compagne di scuola. E dire che lei non era affatto contenta di esibirsi in pubblico. Invece io ho amato ogni singola nota partorita dalle sue mani e da quelle degli altri allievi, pure le più incerte.
Sensazioni simili a quel lontano pomeriggio della mia prima adolescenza sono riaffiorate quasi identiche durante le prove di mio marito e degli altri iscritti all'Accademia professionale di musica di Guido Mallardi, in vista del saggio di fine anno che si sarebbe tenuto da lì a pochi giorni.
Seduta sullo strapuntino di un piccolo divano pieno di spartiti e altri oggetti vari, a pochi passi dall'imponente pianoforte marrone al quale si avvicendavano gli allievi, mi sono sentita completamente a casa. Rispetto all'esperienza di molti anni fa, avevo in più il privilegio di poter osservare assai da vicino i volti concentrati dei pianisti (e di una giovanissima bassista). Ero talmente partecipe del loro sforzo esecutivo da sentirmi praticamente al loro posto. Da lì la mia idea di fotografarli durante il saggio, sempre, naturalmente, che ne fossero contenti sia il titolare dell'Accademia sia gli altri partecipanti. Ricevuto l'ok, ho tentato il più possibile di non disturbarli durante le prove e soprattutto nella prima serata ufficiale e ho scattato, scattato... Tempo fa ho pubblicato le piccole e amatoriali gallerie che raccontavano a modo mio entrambe le serate concertistiche (e parte delle prove generali).
Oggi sono lietissima di diffondere i video ufficiali prodotti direttamente dall'Accademia professionale di musica con il contributo di una piccola fetta delle mie fotografie (com'è giusto che sia) e qualche nota (nel secondo video, quello più breve) di "Pollini", la composizione del mio Sfaccendato preferito...
Quei giorni d'inizio estate sembravano promettere nuovi percorsi con l'autunno tornati a essere alquanto nebulosi. Eppure: niente è perduto, soprattutto quando nasce dal talento più puro.
Se poi quest'ultimo è accompagnato da grande serietà e impegno, i frutti sicuramente arriveranno.
L'ultima frase è dedicata in particolare a Guido Mallardi e alla sua brava e simpatica moglie, Elisa Campofiloni, insegnante di propedeutica musicale per i bambini dai 2 ai 7 anni.
Nonostante tutto, bisogna crederci, con forza e bastevole incoscienza.
A voi e a tutti quelli che verranno a provare il metodo Brain Arm pubblicizzato negli spot sopra riportati, grazie di cuore, per la musica che riuscirete a far sgorgare dalla vostra essenza e per l'effetto rinvigorente che procurerete a chi verrà ad ascoltarvi!

mercoledì 10 ottobre 2012

AAA cercasi lavoro... usando l'inserzione di un altro

Immaginate di stare sfogliando la settimana enigmistica.
A un certo punto vi si parerà davanti il solito gioco delle differenze, stavolta però leggermente diverso.
Ai solutori si chiederà di scovare le differenze tra i due seguenti testi:

PRIMO TESTO
43enne dipl. rag.  esperienza quinquennale ausiliario socio assistenziale si offre per varie mansioni (assistenza di base, pulizie domestiche, spesa a domicilio, accompagno, piccoli lavori casalinghi,  disbrigo pratiche burocratiche, segretariato, servizio dog-cat sitter, cura del tempo libero, ecc.) . Non è servizio sostitutivo di badante, semmai un valido aiuto per piccole ma indispensabili attività quotidiane rivolto a soggetti in temporanea o duratura difficoltà.
Max serietà offerta e richiesta. Paolo


SECONDO TESTO
48enne diploma rag. esperienza ventennale, si offre per varie mansioni (assistenza di base, pulizie domestiche, spesa a domicilio, accompagno, piccoli lavori casalinghi, disbrigo pratiche burocratiche, segretariato, servizio dog-cat sitter, cura del tempo libero, ecc.) in zona fermano-maceratese disponibile a piccoli trasferimenti. Non è servizio sostitutivo di badante, semmai un valido aiuto per piccole ma indispensabili attività. Max serietà offerta e richiesta. Stefano

Capita anche questo agli Sfaccendati: di inventarsi un annuncio e di vederselo riprodotto pari pari (tolte le debite differenze che di certo avrete notato) sul medesimo sito di annunci economici.
Come commentare?
Rivendicare il copyright è non solo ridicolo, ma anche inutile.
Trovo tuttavia davvero triste che ci si debba scippare pure la patente di sfigato nonché attempato ricercatore di lavoro.
A questo punto non so se augurare al 48 enne ragioniere con esperienza ventennale di avere più fortuna dell'autore dell'annuncio da lui copiato-incollato (ebbene sì, copiato-incollato) di soli cinque anni più giovane.
Se mai (quindi mai) dovesse leggere questo mio post, lo pregherei di farmi sapere se è riuscito almeno lui a cavare un ragno dal buco. Lo rassicuro: non c'è pericolo che Sfaccendato man gli faccia concorrenza. Quest'ultimo, infatti, ha ricevuto un certo numero di visite all'inserzione numero uno, pubblicata ormai più di un mese fa (mentre quella di Stefano è fresca fresca... di copiatura), ma mai nessuno l'ha contattato.
Oltretutto Sfaccendato ha provato a riproporlo anche da altre parti d'Italia, caso mai ci fossero più chance da qualche altra parte.
Per ora tutto tace.  E qualcosa mi induce al pessimismo.
Di recente, però, mi si è fatto notare che essere troppo realisti (leggi pessimisti, per alcuni) finisce per bloccare quei meccanismi positivi che a volte riescono a sbloccare pure le situazioni più pantanose.
In nome di questo principio, che in fondo in fondo condivido (è così facile illudersi), non aggiungo ulteriori lamentazioni.
Mi limito giusto a una chiosa finale: come pensiamo di risollevarlo questo Paese se continuerà a ingrossarsi la schiera dei quarantenni a spasso?
Ne ho già parlato, ma ribadirlo non fa male: la guerra generazionale è più che mai aperta, non solo verso i vecchi che non se ne vogliono andare, ma purtroppo anche verso i giovani assunti (quando capita) non perché più dinamici o più hi-tech, ma esclusivamente perché più economici.
Tutti gli altri (cinquantenni compresi: il dramma per loro è forse anche maggiore) possono scordarsi una seconda opportunità.
E però ogni tanto qualche segnale in controtendenza arriva: finalmente c'è qualcuno che ha capito che, anziché ricandidarsi, è meglio "occuparsi della formazione dei giovani" (non oso pensare come).
Sull'altro fronte, invece, c'è chi dice che si sente ringalluzzito e rimotivato a non schiodare pur di contrastare l'ascesa del rottamatore fiorentino.
Pur non avendo particolari simpatie per Matteo Renzi, ammetto che alcune sue uscite sulle differenze d'età tra lui e il grosso dei politici tuttora in auge mi hanno fatto molto ridere. Sottolineo però un fatto: Renzi non è giovane, bensì è un adulto con un ruolo pubblico di un certo rilievo.
Del resto, non scordiamocelo, siamo in Italia, dove non si è mai abbastanza vecchi per avere ruoli di comando (a patto di non essere stati imbucati da qualcuno), ma neanche abbastanza giovani per poter ricominciare daccapo. Con umiltà, sì, ma anche con dignità.
Sì, dò il mio in bocca al lupo a Stefano e a tutti gli Sfaccendati d'Italia.
Però, per piacere, usate un po' più di fantasia, una qualità che, magari, vi aiuterà anche a ritrovare una strada adatta al vostro sacrosanto desiderio di riscatto.

venerdì 5 ottobre 2012

Dedicato a Linda... sperando che l'emergenza passi in fretta!

Continua il periodo brazileiro, forse alimentato anche da un lentissimo (e crudelissimo) cambio di stagione. Dedico il post a mia sorella che in questo periodo sta combattendo con una bizzarra vicenda che mi ha riportato decisamente indietro nel tempo. Preferisco non spiegare di che si tratta per una questione di privacy, ma al momento opportuno saprò ricavarne uno scritto degno dell'episodio.
Posso soltanto aggiungere che, come direbbe mia madre, "non è male che ci canta li previti", mia libera trascrizione dal dialetto natìo.
La canzone mi è nota da tempo, per ragioni ovvie a chi conosce me e mia sorella, ma in questo caso posso anche specificarlo: il suo nome è Linda, per me il più bello che ci sia, prescindendo dall'adorazione dalla sottoscritta nutrita per colei che è stata il mio modello di tutta l'infanzia e buona parte dell'adolescenza.
Praticamente non abbiamo mai litigato: c'è stato un solo episodio in cui mi sono sentita mortificata da lei. Ero salita a casa della sua amica che aveva dato un party presumo pomeridiano o poco più. Linda doveva aveva circa quattordici anni e giocava a fare la grande. Ero salita giusto per avvisarla che l'aspettavamo in auto, mio padre ed io. Che onta per una dura come lei. Mi cacciò via con stizza. Una volta a casa, però, davanti alle mie lacrime (non le rammento, ma ci posso scommettere: sono sempre stata una piagnona) e al rimprovero di nostra madre, Linda si scusò. Eravamo distese nei nostri lettini paralleli, le luci delle abat-jour ancora accese prima della notte ormai fonda.
Per il resto, tra noi ci sono state molte risate e originalissimi giochi in comune, in un clima di reciproco scherno sempre affettuoso che ancora oggi contraddistingue i nostri rapporti.
Ed è ben per questo che le dedico la versione più moderna della canzone resa celebre da Caetano Veloso, per renderle più lievi questi giorni di tregenda... sanitaria! Ho scelto appositamente la versione 2012 per stare giusto un po' più al passo con i tempi: oggi l'ancora affascinante Caetano esibisce una folta chioma bianca e sembra divertirsi un mondo in quella che sembra una sorta di domenica in brasiliana:


A Linda in bocca al lupo... e dacci sotto con la bonifica!

martedì 2 ottobre 2012

Tutto scorre, pure l'amicizia

Non so il portoghese, ma conosco il testo di Tempo Rei di Gilberto Gil da moltissimi anni.
Ho notato che soprattutto quando mi sento uno straccio (la cenciona del precedente post), ricorro alle musiche brazileire per cercare di tirarmi su. Sono consapevole della doppiezza di quei ritmi, insieme caldi e nostalgici, e forse è proprio per questo che li faccio suonare sullo stereo o direttamente nelle mie orecchie come in questo momento.
Questa canzone, in particolare, è sempre stata il simbolo del mio modo di vedere la vita, però ho appena scoperto che non ne avevo capito il titolo.
"Tempo rei", letteralmente, significa "Tempo sovrano", ossia che tutto dipende dallo scorrere di quelle clessidre che determinano il nostro essere su questa terra.
Del resto, anche il modo fantasioso in cui l'avevo tradotto nella mia testa non era poi così errato, dal momento che mi ha sempre ricordato il famoso "panta rei" di scuola greca, ossia "tutto scorre", dai fiumi che mi fermo troppo spesso a guardar passare, ai nostri giorni.
Non mi illudo, come canta il grande Gilberto, che tutto possa restare così com'è né, d'altra parte, lo voglio. Detesto anzi la stasi e mi sento vera e in pace con me stessa più spesso nelle fasi di passaggio da un luogo a un altro che non quando sono arrivata a destinazione. Meno che mai quando sono a casa. Ma questo penso di averlo già scritto.
Su un aspetto, però, sono molto brazileira anch'io, o per lo meno con l'idea assolutamente superficiale che ho di quel Paese: ho nostalgia delle persone che hanno rappresentato qualcosa nella mia vita e non riesco facilmente ad accettare che ciò che mi aveva unito a loro non ci sia più.
Naturalmente, quando ne prendo coscienza, reagisco in maniera differente a seconda del grado di confidenza e affetto che mi legava a ciascuno dei tanti persi per strada. Per alcuni ex colleghi, per dire, provo più o meno una sorta di cameratismo da compagni di scuola di verdoniana memoria. In altri casi, invece, sentirsi scaricati del tutto fa male.
Mi è successo giusto ieri, un'altra volta. E mi succederà di nuovo, lo so.
Dev'essere la mia immagine accogliente e apparentemente svagata che spinge gli altri a vedermi sempre nello stesso modo. E del resto, nessuno di noi ha voglia di dare ascolto a un musone problematico: ci piace pensare che il nostro interlocutore sia sempre sorridente e rassicurante esattamente come appare.
E io sono una campionessa della rassicurazione.
Sto scrivendo frasi oscure perché non voglio fare nomi e cognomi (non è necessario), ma comprendo con chiarezza via via crescente che nella fase due della mia vita di donna che si avvia alla maturità dovrò abbandonare una buona volta comportamenti e aspettative antiche.
L'amicizia è una perla rara, rarissima, possibile solo tra chi non si aspetta nulla dall'altro, né rassicurazioni a buon mercato né consigli pratici. Gli amici veri si mandano anche a quel paese, ma non si mascherano. Parlo anche di me, che pur di non soffrire di solitudine o per vigliacco bisogno di sentirmi accettata, ho spesso scelto di fare la buffona o la finta cinica oppure, al contrario, mi sono calata nei panni della crocerossina bonaria un po' distaccata dalle passioni del mondo.
Nessuno di questi comportamenti ha spostato di una virgola ciò che gli agognati amici pensavano di me. La loro distanza è rimasta la medesima e in certi casi si è pure allargata.
Per guarire dall'ennesima frattura, insomma, sto scrivendo queste righe ascoltando uno dei grandi classici della mia prima giovinezza.
Dopodiché, però, uscirò dal blog e da questa guazza depressiva.
Il tempo è sovrano, il tempo scorre: non conviene buttarlo dietro a illusorie nostalgie per giorni e persone che non torneranno più. Possiamo solo andare avanti. E io, come tutti, lo farò.