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mercoledì 4 giugno 2014

Spiacevolezze di corsia e scrittura come pratica Zen



La mamma dorme, chissà se è davvero tranquilla come ci sembra a noi che la guardiamo da oltre la sponda di ferro.
Ero lì accanto a lei quando ho ricevuto una ben strana telefonata. "Te lo dico con molta vergonia, ma sai, ho familia. In ospedale prendo molto di più di solito, basta che chiedi, loro mi conoscono. Voi ringraziando dio non lo sapevate perché non avevate mai avuto malati in familia, ma insoma, vorrei... e sono pasate già sue setimane, ho calcolato pure per i giorni pasati".
Cosa? Ci stai chiedendo di più da un giorno (neanche, un'ora) all'altro, a distanza di due settimane dal ricovero, e oltretutto vuoi pure gli arretrati?

Non so come ho fatto a resistere, o meglio, se l'ho fatto l'ho fatto solo per due ragioni: la più importante, la mamma addormentata affianco a me, la seconda, di pari valore, il rispetto nei confronti del grande sale in zucca di mio padre, al quale non mi è restato che riferire la conversazione veramente spiacevole intercorsa tra me e quella persona che avevo tanto giudicato bene perche si arrivasse a una salomonica soluzione. Se fosse stato per me, da ieri sera stessa avrei cominciato a fare io stessa le notti inospedale, ma il pater familias continua a proteggere i suoi cuccioli e date le circostanze sono in fondo contenta che lo faccia.

E dire che sono stata anche accusata (fuori dai denti) di stare troppo generalizzando per quanto ho scritto due post fa. E io che ero stata anche così idiota da non capire bene chi avevo di fronte. Sono abbastanza sicura che sia finita qua, ma davvero, spero che sia così per il bene di tutti.

Un'oretta circa dopo la simpatica chiacchierata, ho saputo dai medici gli ultimi aggiornamenti.
Anche in questo caso ho resistito alla tentazione di fare un'altra scena madre giusto perché ho trovato il modo di sfogarmi qui sul blog, ma sto meditando vendette da consumare a freddo, quando avrò recuperato tutta la lucidità necessaria per rompere veramente i coglioni. E scusate la brutta (e bruta) parola.

"Ve lo abbiamo detto venti volte com'è la situazione, è una malata terminale". Etc etc. Tutto questo lungo il corridoio, a voce alta come al mercato, davanti a vari testimoni, tra cui i due giovani specializzandi (femmina e maschio) che un attimo prima, con ben altro tono, mi avevano dato la mazzata. Non avrei dovuto parlare anche con questa zoccola truccata e potente, ma siccome il giovane maschio mi aveva comunque suggerito di sentire direttamente la dottoressa a capo del reparto in quel momento, io mi sono rivolta anche a lei.

L'ho guardata con il corpo fremente e non ho lasciato che andasse oltre. Mi sono limitata a dirle un "ok, grazie" e a guadagnare l'uscita il più velocemente possibile. Lì ho riferito la notizia a mio padre e agli altri parenti che tutti i giorni trascorrono innumerevoli ore nell'atrio del reparto o nella stanzetta interna. A turno si sono fatti cacciare, ci siamo fatti cacciare tutti, ma i rimbrotti per il nostro eccessivo affollamento non possono di certo fermarci.
Personalmente mi blocca solo la maleducazione e il sopruso
Adesso è andata mia sorella, tra poco la raggiungo. 
Tra noi neanche uno screzio, giusto qualche differenza nel modo di trattare medici, infermieri. E anche la mamma. Linda le parla molto, io la accarezzo, le lavo la faccia e poi ieri le ho fatto sentire la mia lettera. E la musica di Paolo.

Ci vogliamo un gran bene, ce ne siamo sempre voluti tantissimo. E questo è ciò che conta di più al netto di tutto il resto, che vorrei tagliare fuori.
Ma la vita ti chiama e soprattutto la merda che la contorna.
In questo momento la scrittura è per me una forma di meditazione Zen, spero funzioni.

Ieri sera è tornata la dottoressa di mia mamma, che l'ha accarezzata tutto il tempo. Per puro caso ha saputo dell'evoluzione dei rapporti tra noi e la badante albanese. Ha ripetuto anche a Linda quello che già sapevo e scritto. "Più fanno le moine - ha aggiunto un po' scherzosamente - più me ne tengo alla larga. Vostra madre ha visto tutto, ve l'avrebbe confermato". L'ha fatto anche l'altro giorno annuendo con gravità, cara Marilena. Se sapesse della contrattazione sulla sua buonuscita (ma vai a cagare, bello grosso), di sicuro la caccerebbe a pedate, ho considerato io. 
"E il bello - ha proseguito - è che poi vanno a fare le marce per la pace, ma ce ne fosse uno di loro che si prende una badante in casa. No, no: con me hanno chiuso".

Di gente buona ce n'è, tra gli italiani e gli stranieri, abbiamo considerato entrambe, ma per piacere, apriamo gli occhi. Io per prima. Il buonismo fa più danni della cattiveria.
E adesso andiamo oltre. Per davvero. 

lunedì 2 giugno 2014

Medici e ipocriti vari, alienamente e francamente: andate a...



Sono sveglia dalle sei per via della caldaia che non smetteva mai di rombare. Non riuscivo a spiegarmi come mai, visto che nessuno di noi stava usando l'acqua calda, finché mio padre non mi ha fornito una delucidazione razionale: la caldaia è collegata all'autoclave del palazzo, per cui si mette in funzione ogni volta che qualcuno usa quest'ultima. Di mattinieri è pieno il condominio, oltre che il mondo intero, evidentemente.
Io però particolarmente abituata ad alzarmi all'alba non lo sono e infatti sto come uno straccio. A dirla bene, ho avuto anche una bella epistassi nasale di quelle che non mi capitavano da un pezzo. Ma tant'è: sono giornate piuttosto pesanti (strazianti e stranianti) per cui un po' di sangue non ci stava male.

Scrivo per tenere a bada l'ansia: non mi capitava da un pezzo di cimentarmi nella più pura scrittura terapeutica. Sono tornata in un battibaleno alle origini, solo che una volta i miei diari erano cartacei e privatissimi.
Stamattina ho scritto una lettera a mia madre e poi l'ho registrata. Vorrei fargliela ascoltare, possibilmente mentre dorme.
Ieri sera la caposala mi ha trattato un po' male, con una dose per me troppo massiccia di acidità, ma io non ho reagito. Mi sono solo mortificata. Per me e per la mia mamma.

Non ditemi che bisogna avere pazienza, perché lo so da sola. Non ditemi che debbo accettare le strette di mano di medici che vengono a studiare il caso clinico, con formale comprensione.
Non ditemi che devo rassegnarmi alla rassegnazione altrui.
A quella del fratello di mio padre che voleva erudirci sulle reali condizioni di sua cognata, ritenendoci troppo inconsapevoli e speranzosi.
Sapete qual è la frase che mi viene in mente più spesso in questi giorni?
Andate a cagare. Alla milanese, ebbene sì. Non ne avrei alcun motivo, viste le mie origini, ma mi esce quella g al posto della g, come in Ecce Bombo.

Andate a cagare parenti accessori, ma soprattutto andate a cagare medici e infermieri che ci guardate come degli alieni.
Io sono un'aliena per voi, ma voi lo siete per me.
Il male dentro mia madre è ancora più alieno, ma abbiamo dovuto, ci stiamo facendo i conti, molto più di quanto riusciate a capire ascoltando le nostre domande che vi sembrano tanto strane.
Perché non dovremmo chiedervi spiegazioni sulle cure, perché non dovremmo chiamarvi per chiedervi una mano per sistemarla meglio sul letto? Perché non ci lasciate in pace accanto a lei?
Che regole sono queste che impediscono ai familiari più stretti di restare vicino a una persona che voi per primi date per spacciata? Come vi permettete di guardarci con condiscendenza? Vorrei vedere voi, vorrei vedere se fosse vostra madre, vostro figlio.

Oggi non ce l'ho con il mondo brutto e cattivo che non mi ama, ma ho solo bisogno di tirar fuori una sofferenza che vorrebbe sovrastarmi ma che invece devo controllare. Per mia madre, che mi ha insegnato come si fa, innanzitutto, e per mio padre, fortissimo più di quanto avrei mai immaginato.

Non sono riuscita a fingere molto con i miei nipoti, ma ho visto come sono sensibili e intelligenti, c'è buon sangue nelle loro vene.
Tra poco, infatti, smetto di vergare le mie inutili memorie e vado a preparare il pranzo. Fortuna che ci sono le cose pratiche. Come mi riesce bene nascondermi dietro la lavatrice da stendere.

Stasera le porto la mia letterina registrata. Non spero di ricevere nulla in cambio, ma ho fatto giusto in tempo a dirle, qualche giorno fa, quanto sia importante per me. Volevo ribadirglielo un altro po'.
C'è un solo aspetto positivo in tutta questa vicenda: sono caduti un sacco di veli. E credo ne cadranno ancora.
La franchezza è la prima regola della mia vita.
E lo sarà sempre di più fino all'ultimo respiro.

mercoledì 21 maggio 2014

Sanità pubblica e manchevolezze: le mie, innanzitutto



Probabilmente l'ho già scritto: io non so dialogare con i medici.
E' un mio limite, bello grosso, lo so, ma nel momento stesso in cui percepisco da parte loro uno dei seguenti atteggiamenti: indifferenza, sarcasmo, ansia strabordante e/o qualcosa del tipo non so che pesci prendere, quindi non mi rompere le balle, io chiudo la comunicazione più o meno immediatamente.

Purtroppo, a meno di non essere medici noi stessi, in presenza di malattie serie bisogna vincere l'istinto di mandarli a cagare. Perdonate il turpiloquio, ma è esattamente quello che ho pensato in più di una circostanza in quest'ultimo anno e passa.

Poco dopo l'inizio della terribile vicenda familiare che stiamo vivendo, per dire, sono uscita sbattendo la porta dallo studio di una dottoressa. Avevo torto, non nella sostanza, ma nella forma.
Sia come sia, da allora ho cercato di interagire il meno possibile con la suddetta e con la capa della medesima, che ahimè ho rivisto non molto tempo fa.

Non mi ha neanche guardato in faccia, né, soprattutto (perché pazienza per la sottoscritta: spero di non aver mai bisogno di lei o comunque farò di tutto per non farmi curare da lei), mi ha chiesto notizie della sua paziente.

Non ci posso fare niente, ma se non lo scrivo almeno qui, evitando di fare nomi (almeno per il momento), impazzisco.

In tutti i modi, mi toccherà tornare in ospedale, uno dei prossimi giorni.

Del resto, uno dei pochi vantaggi dati dalla modernità è la tecnica e l'unico modo per capire in che condizioni stia davvero una persona seriamente malata è sottoporla a tutti gli esami necessari.
Noi poveri mortali senza amici che ti procurano ricoveri di lusso abbiamo a disposizione la sola sanità pubblica.

Giustamente, una mia amica carissima che vive negli States mi ha più volte fatto presente che lì se non paghi sei fottuto.
Io però ho qualche dubbio che, se la medesima tornasse ad abitare in Italia, andrebbe a farsi curare in uno dei troppi ospedali pubblici italiani assiepati di malati nei corridoi per carenze di posti letto, dotati di arredi vetusti (se penso al letto che non si poteva abbassare dell'ospedale ternano mi torna la rabbia a mille), pareti scrostate e personale non sempre educato, forse anche per via dei troppi carichi di lavoro.

Potendolo fare, pagherei pure io, insomma. E andrei in qualche clinica svizzera silenziosa e accogliente.
L'indifferenza e l'assenza di buone maniere, probabilmente, albergano anche nelle corsie più asettiche, ma qualcosa mi dice che si tratterebbe di eccezioni che non avrebbero peraltro vita lunga.

Non sarò in grado, non lo sono di sicuro anzi, di interagire con chi percepisco respingente, in altri termini, ma è piuttosto probabile che, pagando, otterrei un servizio migliore, esattamente come se scegliessi un hotel a cinque stelle anziché una stamberga.

Alla sanità privata, detto ancora in altro modo, ci siamo già arrivati. E lo stesso sta succedendo per gli altri servizi pubblici (basta prendere qualunque inter city per rendersene conto).
Non raccontiamoci fole, in definitiva.

Faccio anche un esempio concreto: in Germania, chi comincia a usare l'insulina, viene seguito per un'intera settimana in un centro apposito, in maniera che possa imparare per bene come iniettarla e in quale quantità, se è il caso di variare le dosi.
Pur essendo bravissime, le infermiere e la dottoressa dell'ospedale di Chieti non possono permettersi di dedicare più di qualche quarto d'ora (che è comunque già un successo) ai pazienti alle prime armi perché piene fin sopra ai capelli di richieste e/o problemi.

Peraltro, per come la vedo io, proprio perché sono brave e disponibili, finiscono per diventare anche una sorta di telefono amico per malati e parenti in ansia.
Restando l'ambulatorio aperto fino alle 14, è chiaro tuttavia che non possono farcela a esaudire tutti i loro bisogni che continuano anche nel resto della giornata e nei fine settimana.

E pensare che fino a qualche anno fa si diceva che chi frequentava la scuola infermieri sicuramente non sarebbe rimasto senza lavoro.
Anche senza leggere le statistiche, usando invece il solo spirito di osservazione empirica, si intuisce che oggi non sia più così ed è tutto lì il problema.

La disumanità di alcuni va tollerata perché non c'è alternativa.
La disorganizzazione, peggio ancora, è alimentata dalla carenza di personale, oltre che da quelle personali dei singoli addetti alla sanità pubblica.

I parenti sono manchevoli spesso per definizione, per via del carico psicologico che non sempre riescono a gestire.
A farne le spese, sono solo i malati, che devono spiritualmente accendere ceri a qualche santo, o fare mentali riti vudù per sperare di uscirne oltre che vivi, anche non troppo piagati interiormente.

Questo è.
Ma tocca farsi forza e largo nei gironi danteschi redistribuiti in livelli e sperare di cogliere qualche barlume di solidarietà nei compagni di stanza e nei parenti dei compagni di stanza.
Come ci è successo a Terni, dove il figlio della signora ricoverata affianco a mia mamma ci ha regalato dei cioccolatini quando ci siamo salutati.
O dove un paziente che avrà avuto più o meno l'età di mia sorella ci guardava con occhi sgranati di dignità disperata, mentre chiacchieravamo del forum di raiuno. Anche lui, ai tempi dell'università, aveva partecipato con i suoi amici, giusto per tirar su qualche soldo. I casi sono tutti finti, ci ricordava, oggi come allora. Abbiamo riso insieme, dimentichi per un attimo del motivo per cui eravamo in quella fredda sala d'attesa.

Non so come si chiamassero queste persone e le altre che abbiamo incontrato in analoghe circostanze. A loro auguro davvero ogni bene.

E adesso torno al silenzio dell'attesa. Di quest'attesa a distanza che mi fa sentire colpevole.
Persino di ciò che sto scrivendo, perché ho paura che potrebbe risultare falso. La scrittura aiuta, certo, purché non si voglia dare spettacolo.
Perciò non vado oltre.

venerdì 19 ottobre 2012

Via dall'Italia prima della disfatta. E Why Aye Man



"Che lavoro fa"? I medici specialisti lo chiedono spesso per appurare se ci possa essere l'usura professionale tra le cause dei disturbi lamentati dal paziente.
A giudicare dai dati presentati oggi da non mi ricordo più quale organismo (poi lo controllo: adesso non c'ho voglia. Comunque l'hanno detto al tg3 del pomeriggio), alle donne italiane farebbero meglio a chiedere: "che lavoro non fa?", considerando proprio il non-lavoro tra le possibili fonti di stress organico.
In tutti i modi, a volte capita che qualcuna che un lavoretto l'ha anche trovato, preferisca tirarsene via prima, per l'appunto, di rovinarsi la salute.
Lo raccontava ieri mattina in coda per le analisi una giovane donna dal viso pieno a un conoscente anziano, amico forse dei suoi genitori, che esibiva uno sguardo molto malinconico.
"Dal call center? Me ne sono andata. Ma per carità. Adesso lavora solo mio marito, è caporeparto alla frutta". Subito dopo ha precisato che neanche il lavoro del coniuge è sicuro, ma meglio di niente. E comunque adesso a lei sarebbe toccato un compito non meno impegnativo: diventare mamma, visto che si era appena resa conto di essere in dolce attesa. Mentalmente le ho augurato buona fortuna. Sperando, naturalmente, che prima o poi possa tornare anche lavorare, perché di certo una mamma casalinga non è un buon esempio, soprattutto se dovesse mettere al mondo una bambina, che un domani finirà per convincersi che anche se sta a casa fa niente.
Tornando alle file dai medici, comunque, tolti quelli che parlano dei propri e altrui acciacchi, in generale ci si sofferma spesso sul lavoro, sul proprio svolto in anni passati, come nel caso di un vecchietto di bassa statura (era poco più alto di me, che come si sa non sono un vatusso), occhialini su un paio d'occhi buoni buoni. "In Germania c'è tutto un altro sistema", mi svelava a un certo punto di un'attesa particolarmente lunga, "lì non vai tu a cercare il lavoro, ma succede il contrario: se ti trovano per strada, ti fermano e ti chiedono se vuoi lavorare da qualche parte. Però se non accetti e ti ritrovano in strada una seconda volta, ti rispediscono direttamente a casa tua".
Dovevano essere ricordi di gioventù, suoi o di qualche conoscente (non ho effettivamente capito se era un ex emigrante, so solo che per un lungo periodo ha adoperato un muletto con una leva assai resistente, un incarico molto delicato che richiedeva una preparazione ad hoc. Mi domando se oggi sia lo stesso, ma immagino di sì almeno nelle grandi aziende. Comunque me lo auguro).
Di fatto lui la sua pensione se l'è guadagnata, cosa che, come ha considerato a un certo punto del suo monologo durante il quale mi sono limitata ad annuire di approvazione, non accade ai giovani. Con il lavoro così spezzettato e insicuro, mi ha spiegato con linguaggio semplice, è difficile pure comprarsi da mangiare. E se non si mangia come si fa?
Già, come si fa?
Si tenta la sorte, sperando che la fortuna prima o poi arrida, cambiando Paese, come facevano non solo gli italiani, ma anche inglesi, scozzesi e irlandesi non so bene in quale periodo storico, nella canzone sopra linkata di Mark Knopfler. A citarmela, è stato ovviamente Sfaccendato, che conosce a menadito tutto lo straordinario repertorio di un musicista di rara classe come l'ex leader dei Dire Straits. Ma la canzone è molto nota anche a me, visto il grandissimo numero di volte in cui l'ho ascoltata.
Nel testo si parla per l'appunto di Germania e di un gruppo di immigrati che dopo il lavoro immerso nel rumore, nella polvere e nel sudore, passa la serata come può, se possibile in compagnia della propria "pretty fraulein".
In pochi versi, il grande Mark affresca la vita dell'immigrato per antonomasia, uguale in tutti i tempi e origini nazionali. Meglio di un reportage, meglio di un'indagine storico-sociale.
Non so se ancora oggi in Germania ti vengano a cercare sulla strada (qualcosa mi dice che non sia più così), ma gli aneddoti raccolti in questi giorni sembrano elargire l'ennesimo messaggio subliminale a intraprendere la via dell'espatrio prima che sia troppo tardi.
Non parlo tanto per noi Sfaccendati, che abbiamo già una certa età e vari impedimenti; penso piuttosto ai giovani citati dal gentile vecchietto e ai ventenni nominati da mio padre in auto giusto ieri. Chi non ha famiglie, figli (o gatti: non si adattano mica così facilmente ai cambiamenti le simpatiche creature) o vincoli d'altra natura fa bene a mollare l'Italia al suo destino.
E pazienza se sarò annoverata anch'io tra i piagnoni tricolore, però, francamente, finché non vedrò uno straccio di segnale di rivalsa morale (ma ci accorgiamo di quello che sta succedendo in Grecia?), finché avremo casi Fiorito-Maruccio-Trota-etc etc, nessuno mi toglierà dalla mente una visione più che mai fosca della terra che mi ha dato i natali.
Vi ho depresso? Ascoltate il brano di Mark e vi tornerà l'energia.
Why Aye Man, amici.

sabato 13 ottobre 2012

Dei medici e dello scetticismo esistenziale



Come tutti gli ipocondriaci, non amo molto andare dai medici, ma a volte, forse proprio per vincere la mia naturale propensione a tenermene alla larga, mi forzo e vado, in nome del principio secondo cui prevenire è meglio che curare. In questo caso specifico, poi, ho una ragione pratica che non sto qui a spiegarvi. Insomma, ieri pomeriggio, con la nostra macchinina scassata (da me), ho parcheggiato nei pressi dell'ospedale. E ho subito sbagliato ingresso. Stavo infatti per entrare nel reparto di medicina d'urgenza, cioè il pronto soccorso. No, decisamente non era il posto giusto. Faccio così la passerella in salita, studio i livelli e i percorsi arcobaleno, ed eccomi in un corridoio spoglio, da nosocomio dell'Est Europa pre-caduta Muro. Mi siedo rassegnata a una lunga attesa. Per buoni dieci minuti resto da sola, poi si unisce una famigliola composta da genitori giovani e bambine piccole molto carine. Simpatizzo con la minore che continua a fissarmi come un marziano. Non a torto, aggiungerei.
E insomma, alla fine tocca a me. Mi trovo davanti un medico sulla sessantina, tondo e un po' spelato, dai modi molto placidi. L'ideale, ma sì, per un soggetto ansioso come la sua nuova paziente.
Dà l'idea di leggersi con attenzione i risultati dei miei precedenti esami, sennonché, poi, il fatto che mi rifaccia la stessa domanda a distanza di pochi minuti, mi dà un po' da pensare.
Ma mi sta ascoltando? O il rinnovarsi degli stessi interrogativi fa parte del pacchetto-visita medica? Detto in altri termini: chiedere ossessivamente le stesse cose è forse un modo per spingere il visitando a rilassarsi in maniera che non rifletta troppo sulla tortura che sta subendo?
Mistero. In ogni caso, rivestitami e posizionatami sulla sediola dove mi aveva fatto accomodare all'inizio, attendo che finisca di scrivere il responso con un vago senso di tensione, cui segue, nel percorso a ritroso verso la macchina, uno stanco sollievo per essermela in fondo cavata con poco.
Stamattina, però, ho commesso l'errore di cercare su internet la sospetta patologia di cui soffrirei. E lì ho realizzato che il simpatico (questo sì) dottore che si è intascato settanta euro (letteralmente: si è messo i denari nella tasca del camice. E' l'ultima immagine che mi è rimasta impressa negli occhi mentre richiudevo la porta dietro di me) con incurante nonchalance ha sì una certa competenza (e vorrei anche vedere), però, come tutti i medici, non ascolta.
Naturalmente seguirò con attenzione tutte le prescrizionii suggerite (dovrò pur ammortizzare la spesa di farmaci e analisi varie), ma qualcosa mi dice che alla fine il sospetto avanzato dal placido dottore rimarrà tale. Meglio fa, a questo punto, il medico di famiglia, il "catastrofico", secondo la definizione appiopatagli dai miei parenti acquisiti, che, prescrivendomi un altro esame, ha chiosato nel seguente modo: "Gli acufeni sono la morte dell'otorino". Ovviamente sono trasecolata e gliene ho chiesto lumi: "In genere non si capisce mai come curarli, ma magari nel tuo caso è diverso", mi ha  risposto ridacchiando. Molto bene, ho pensato io, ritirando dalle sue mani da pianista azzimato l'impegnativa. Anche in questo caso, ormai sono in ballo quindi andrò a farmi analizzare le orecchie (vedi mai che faccio la fine di Beethoven, non nel senso che diventerò un compositore, ma nell'altro).
Però tutti questi episodi mi richiamano alla memoria una lontanissima visita dermatologica cui mia madre mi aveva accompagnato perché lo specialista analizzasse la natura delle macchie bianche che stazionavano sulla mia giovane schiena, residuo di un'eruzione cutanea che mi aveva provocato nei giorni precedenti parecchio prurito. Mentre il medico le osservava penso con l'ausilio di una lente d'ingrandimento, attendevo con impazienza, con mia madre di fronte, che la finisse prima possibile. Finché a un certo punto, gli ho sentito dire, dopo una pausa teatrale degna di Celentano: "E' chiaro che queste sono macchie". E io, di rimando, guardando mia madre negli occhi, ho fatto un gesto come a dire: "Ma va?" e lei per un pelo non è scoppiata a ridere.
Evidentemente, sono sempre stata un emotivo e un po' irreverente osso duro.
Mentre il dottore scriveva e scriveva le ricette e la mia scheda, non ho potuto infatti non pensare all'episodio dei medici in "Caro Diario", uno dei miei film preferiti.
Quand'è uscito, avevo poco più di vent'anni e la mia frequentazione degli studi medici (in fondo è tutt'ora così, per fortuna) piuttosto scarsa, quindi non ero in grado di apprezzarlo del tutto. Negli anni ho rivisto il film di Moretti un sacco di volte e con mio marito spesso ci siamo soffermati proprio sull'ultimo episodio, anche per scacciare la brutta sensazione di essere cavie da laboratorio, che non di rado ti resta addosso dopo qualche esame non proprio simpatico.
Tant'è. La mia natura coscienziosa mi fa comunque mettere su una maschera di coraggio bastevole almeno per sopportare quei quarti d'ora in cui ti passa addosso un macchinario o ti infilzano con un ago. Domina tuttavia in me un certo scetticismo che a questo punto chiamerei esistenziale, che mi fa diffidare, sempre.
E comunque, dai tempi di Caro diario in poi, tutte le mattine, a digiuno, mi bevo un bel bicchiere d'acqua. E meno male che non sarei suggestionabile...