mercoledì 29 aprile 2015

Mark Knopfler parla di Tracker... secondo me!



  


Chi mi segue sa che ho da poco preso il Toeic per la parte di listening and reading, che è quella ritenuta fondamentale dalle aziende che lavorano in ambito "international". Bene, direte voi. Benino, direi io, considerata la fatica che ho fatto per cercare di tradurre la video-intervista a Mark Knopfler che riporto sopra, sul suo ultimo, straordinario album Tracker.

Mi sono resa conto con estrema chiarezza, infatti, che un conto è capire più o meno il senso delle sue parole (e di quelle di chiunque parli in una lingua che non è la tua), un altro è tradurle letteralmente.

Al di là della logica considerazione che ciò non sia mai possibile con qualsiasi testo registrato in diretta (nessuno pubblica le sbobinature, ci mancherebbe altro), è proprio per me assai ostico capire alcuni passaggi delle considerazioni appassionanti di questo geniale autore di canzoni impressionistiche, nonché finissimo maestro della chitarra, ai più noto come l'ex leader dei Dire Straits, in verità ben più di questo.

E tuttavia vi riporto quel che ne ho carpito qui di seguito (mettendovelo in bella copia), perché lo sforzo fatto comunque dovrebbe consentire a chi sta messo peggio di me con l'inglese di apprezzarne almeno alcune sfumature.
Quelli che, invece, hanno la fortuna (la bravura) di essere più avanti di me, colmeranno le mie lacune semplicemente prestando l'orecchio e gli occhi, enjoying, come dice spesso Mark, al suo ricco mondo d'artista.

Buona lettura.


Starmene seduto nel British grove studio a Chisec, Londra, è per me un privilegio: sono molto orgoglioso di questo luogo, che ho contribuito a costruire nel corso di diversi anni. E' un meraviglioso posto in cui venire a lavorare. Vengo qui quando ho qualcosa da registrare, non quando ho della musica da scrivere. E' qui che ho registrato Tracker, vengo qui giusto a dare corpo alle mie idee (letteralmente dice "to come staggering into the light").

E' difficile sapere ciò che succederà dopo che hai scritto una canzone: a volte non è chiaro che cos'era che ti aveva spinto a scriverla e per quale motivo dovresti ritrovarci te stesso è poi un altro dei misteri; un divertente mistero, devo dire, un affascinante mistero. In ogni caso, negli anni, ho imparato a lasciarlo accadere, a renderlo più facile.

"Tracker" è molto simile a "Privateering" e ha a che fare con il mio vecchio modo di lavorare. L'ho chiamato così perché, you know, tu ti senti coinvolto nel cercare un soggetto, nell'investigare nel tuo solito modo, a volte ti succede anche quando sei in giro per il mondo in tour. Ma io "segnalo", "traccio" anche andando indietro nel tempo, come si vede anche in alcune canzoni dell'album, un aspetto che per me diventa sempre più importante man mano che invecchio.

(Segue l'assolo di chitarra dal primo brano di Tracker "Laughs and jokes, drinks and smokes").

Ecco, qui ho buttato giù ("cesellato") questa melodia circolare, pensando a una delle cose più stupide che ho fatto nella mia vita: fumare. Tutti fumavamo sempre, perché eravamo giovani, indistruttibili. Fumare faceva parte del fatto di essere giovani. 
(attacca il pezzo)
"no lights on the stairs": qui racconto il fatto che nel posto in cui vivevamo la luce delle scale durava solo quindici secondi da quando premevi il bottone, quindi in pratica, prima che tu avessi il tempo di aprire la porta o di andare da qualunque altra parte, ti ritrovavi sempre al buio. 
Un altro aspetto di quegli anni è che ci si riuniva tutti insieme, si cantava tutti insieme, faceva parte del nostro ruolo: se fossimo stati da soli, probabilmente non sarebbe successo niente di quel che è successo.

Una delle cose buffe legate al registrare con una band è che devi lasciare accadere le cose, come in "Laughs, and jokes and drinks and smokes", dove, ovviamente la canzone era scritta, ma anche se era scritta, quando la band vi è entrata in contatto, sono successe delle cose ed è magnifico che succedano. 

Sono il tipo di persona che ama entrambi gli approcci: adoro essere parte di una band, ma adoro anche essere solo io nello studio con il tipo ai keyboards o all'ingegneria del suono a cesellare e ottenere una piccola mappa e poi lasciare andare la canzone, domandandomi che cosa ne devo fare. 

Insomma, io sono uno di quei tipi fortunati che amano entrambe le cose. Quindi alla fine faccio una specie di scommessa con la canzone: se lavorarci da solo, e in questo caso la canzone andrà in un certo modo, lentamente, o se devo coinvolgere tutti gli altri. Perciò è meraviglioso essere parte di questa cosa: oltretutto, per la mia band, il cantante ha sempre ragione e, insomma, sono io il tizio che l'ha scritta (ride)...

In sottofondo le note di "Broken Bones".

Wherever I go
In "Wherever I go" duetto con Ruth Moody, meravigliosa cantante e cantautrice lei stessa, ma anche se lei aveva cominciato a  cantare anche negli altri pezzi di quest'album, in questo pezzo ho capito che sarebbe stata perfetta. "Wherever I go" di nuovo racconta di due amici che parlano di quanto non sia importante da quanto tempo non si siano più visti: essendo due buoni amici, avrebbero sempre pensato l'uno all'altra dove si fossero trovati... ed è proprio quanto capita tra grandi amici: quando ti rivedi, non ti sembra di essere mai stati lontani.

(canta).

Registrare una canzone raccoglie davvero un po' ciò che si legge ("quite of bit reading") e questo succede sempre più o meno all'inizio: leggo qualcosa e succede che alla fine si trasforma in qualcos'altro.
In alcune canzoni del passato, come "Sailing to philadelphia", "Telegraph road" o altri tipi di canzoni, c'è qualcosa che entra in conflitto con dove sono io adesso e c'è una collisione e questa è un'idea, ma ho trovato che in ogni atto del creare in genere, una volta compiuto, va da sé. Cioè: una volta scritta una canzone, questa esce di casa e cammina da sé per la sua strada e a sua volta finisce per influenzare ogni successivo atto creativo, ogni "creazione della creazione".
 (è una parte per me abbastanza oscura: prendetela con le pinze... meglio di così non riesco!)


Basil
Quand'ero ragazzo, ottenni un lavoro come copy boy il sabato pomeriggio all'Evening Chronicle di Newcastle. Mi davano 6, 6 pence, per lavorare in ufficio, dove c'era un tipo strano, piuttosto chiaramente bisbetico, troppo vecchio per quel posto, e ben più eccentrico del grosso dei tizi che lavoravano al giornale. Scoprii che era il poeta Basil Bunting e già ai tempi ne rimasi affascinato. Era troppo vecchio per il lavoro ed era infelice di lavorare. Ho cominciato a leggere le sue cose anni dopo, quando era già andato via e ho realizzato allora che il tempo l'aveva trasformato. 
In qualche maniera, quando hai 14-15 anni, sei uno sprovveduto con tutta la vita davanti, mentre per Basil era tutt'altra storia, e di certo ora guardo il mondo molto più di allora dal punto di vista di Basil (ride).
Quando Basil scrisse il suo poemo epico Briggflatts ottenne molta attenzione nel mondo della letteratura e fu in grado di lasciare il giornale e andare in America e godere del successo: da quel momento venne considerato il più grande poeta vivente dopo T.S. Eliot.
(canta)

Un'altra cosa che capita nelle mie canzoni è che sono un po' come un gioco d'azzardo: non so perché debbano andare in un certo modo e questo mi affascina. Penso che sia questa specie di trascrizione dei pensieri ciò che mi interessa.

Sono sempre stato attratto dalle persone che sono pressoché costrette a fare determinate cose, a fare ciò che fanno. Credo che questo sia il più ricorrente tra i temi che compaiono in ciò che scrivo.
Devi sentirti costretto a fare certe cose: se non lo sei, ciò che ti preme non accadrà.

Beryl
E' una di quelle canzoni che si rifanno al sound dei Dire Straits. Nel testo parlo di Beryl Bainbridge, che è stata una donna eccezionale, una scrittrice eccezionale secondo il mio punto di vista. Ma quel che mi ha attratto è che non è mai stata riconosciuta finché è stata in vita...
Beryl veniva dalla classe operaia di Liverpool, non andò all'università, è vissuta sempre lì.
(canta, suona)

Skydiver
E' nello stile di quel periodo in cui da teenager fui introdotto nello staff dei Beatles: ricordi quel loro pezzo che fa... (lo suona)? Allo stesso modo io faccio: "I've been banned...", etc.
Insomma, è una sorta di approccio chitarristico, ma di nuovo è una questione di tipo artistico, risultato di un amalgama di differenti discipline artistiche.
(Canta)... A un certo punto, inaspettatamente, si inserisce sulla mia la fantastica voce di Ruth, e ne viene fuori qualcosa di veramente speciale... Ruth non si limita a cantare, vive la musica.

River towns
E' un'altra canzone con un personaggio (una character song): in questo caso si tratta di un tizio giovane che sta a bordo di una chiatta su uno dei fiumi americani del Midwest, volevo scrivere del periodo in cui avevo appena scoperto Cold Bristy, J Pancake (non so chi siano, soprattutto il primo, ahimè), un grande spreco di talento, ho voluto raccontare la solitudine di un ragazzo nel giorno di Natale, prostrato da una sorta di rassegnazione... ricordo quando io stesso ero in una band, senza un soldo in tasca, sperduto nella campagna, era Natale e sarei voluto essere a casa, c'era neve dappertutto, guardai oltre lungo la strada ghiacciata e a parte me non c'era nient'altro di vivente che si muoveva... e la canzone viene giù come la neve (sorride). Ricordo chiaramente che cosa ho scelto di fare, con la chitarra nella mia valigia... penso che Tiver towns abbia molto a che fare con la solitudine e con il momento in cui realizzi quanto conti in questo mondo.
(suona)

... quindi si tratta solo di un giovane solo in una "tugboat" a Natale sul fiume e suppongo che io abbia trovato qualcosa in questi personaggi nei quali ci si possa identificare.

Lights of Taormina
E' è una delle canzoni dell'album nelle quali volevo suonare una "slag guitar". E infatti in questa canzone ho usato questa 64 stratocaster, piuttosto vecchia, ma è un'amabile chitarra, che avevo già usato in "Sailing to Philadelphia"... Le ho ridato nuova vita usandola in "Tracker", perché ha un buon suono (la prova).
... adesso non so bene che cosa suonare perché mi piace mescolare (mix up) improvvisazioni... mi ricordo a malapena come faceva (mentre suona).
E insomma è bello quando qualcosa ritorna in auge: è come rincontrare un vecchio amico e scoprire di avere ancora molte cose in comune (sorride). E' un simpatico ciclo. 
Sono un tipo fortunato perché se è vero che c'è un ciclo di eventi da quando scrivi una canzone, poi la registri e quindi vai a suonarla davanti alla gente, quando sei capace di goderne interamente, ti puoi ritenere proprio un tipo fortunato. Non capita a tutti.

La vita è abbastanza piena quando ti piace ciò che fai: prendi bene anche le cose inaspettate che capitano. Per esempio, mentre lavoravo a "Tracker", Bob Dylan mi ha chiesto di partecipare a un suo tour, prima europeo, poi americano; quindi ho dovuto interrompere la registrazione dell'album e quando ho ripreso, questo ha influenzato molto il resto del lavoro. E di ciò ne sono molto contento.

Quando sono in tour, è particolarmente buffo vedere questi grossi ex ragazzi portati da qualcuno di famiglia o che loro stessi hanno trascinato al concerto, che alla fine applaudono e hanno il volto pieno di lacrimoni... è proprio una bella sensazione (sorride).
Penso che quando hai trasmesso qualcosa di positivo agli altri, hai fatto la differenza.
Perché quando crei qualcosa e la lasci andare nello stagno, non sai mai che cosa ti tornerà indietro...

Per quanto riguarda me e i milioni di fan che ti adorano oltre ogni dire, caro Mark, è tornato indietro assai.
Thanks a lot, long, cool guy :-)
E voi abbiate pietà della mia traduzione imperfetta...

venerdì 24 aprile 2015

La Liberazione dalla sfiga è cominciata: canzone-feticcio, aiutaci tu!



Stamattina Facebook mi ha salutato (immagino non sia successo solo a me) con una foto da me caricata sei anni fa esattamente lo stesso giorno di oggi.
L'immagine ritraeva uno dei tanti gatti che ho immortalato anche ben prima del 24 aprile 2009
Ricordo esattamente quel giorno, però, perché, poche ore dopo quello scatto (in verità risalente al 23 aprile), ho preso parte al mio ultimo spettacolo teatrale in qualità di volontaria per il laboratorio (veramente mitico) della comunità protetta San Girolamo di Fermo. Un'altra vita.

Ai tempi ero da poco approdata nella casa-torre, i quarant'anni erano relativamente lontani, così come la mia presa di coscienza di aver fatto un dannatissimo errore. Uno dei molti, certo, che capitano a tutti noi. 
Del resto, non saremmo esseri umani se non ci succedesse così.

Due anni dopo quel bel momento dello spettacolo e dello scatto al gatto nel vaso, la disillusione già aveva fatto breccia nel mio cuore e non solo in quello.
I segnali che qualcosa non andasse quissù sul colle del girfalco nel frattempo si erano infatti ulteriormente intensificati, ma, essendo io persona testarda e tenace, ci ho messo ben altri quattro anni per giungere alla definitiva illuminazione.

Adesso si tratterà solo di stringere i denti il tempo necessario ad abbandonare l'ermo Colle, ma un piccolo, virtuale rito Voodoo occorre ugualmente, visti gli incontri attira-sfiga che ho fatto giusto poco fa.

Ho perciò deciso di pubblicare la canzone-feticcio da me usata non sei, bensì quattro anni fa più o meno in questo periodo, quando abbiamo perso a soli sei mesi l'amatissimo gatto Ciccio, un esserino indimenticabile. 

Ricordo con precisione tutto il rito che feci ai tempi, ma oggi, nonostante sia ancora acciaccatissima per colpa dell'influenza record che si è abbattuta con forza ancora maggiore sul Bipede, mi dico - DEVO dirmelo - che niente si ripete mai allo stesso modo e che se anche Giorgio Napolitano ha riconosciuto che adesso sono finalmente maturi i tempi per festeggiare il 25 aprile senza colori né bandiere specifiche, allora anch'io posso cantare la mia personale Liberazione dalla sfiga a ugola spiegata, con coraggio e sfacciataggine.

Fermo, mi hai fatto soffrire, ma probabilmente avrei sofferto comunque (meno...), perché la sofferenza fa parte della vita. 
Basta non fermarsi (per l'appunto) a questo.

Bisogna volere fortemente il cambiamento.
E quello arriverà.

Buon 25 aprile a voi, amici, qualunque sia la Liberazione che desiderate di più.

mercoledì 15 aprile 2015

A scuola di giornalismo... con la sottoscritta!


Sarò sincera (per quanto possibile quando si scrive): nell'autopromozione io sono una schiappa.
 E tuttavia, dato che sono in ballo, conviene ballare per davvero.
 A questo proposito, tra l'altro, giusto stamattina ho letto dell'esperienza di Mauro Sandrini, il quale, per non perdere mai la forza di lanciarsi in nuovi progetti, semplicemente, balla. Liberamente. Come gli viene.

L'ho scoperto leggiucchiando Facebook, come faccio praticamente tutti i giorni, a quasi tutte le ore, in modo a volte un tantino compulsivo.
I social network - ormai diventati a tutti gli effetti social media - hanno completamente cambiato il mio modo di apprendere le ultime news. Poi, certo, essendo già vecchina, quando voglio approfondire, continuo a ricorrere alla carta stampata.

Quel che tuttavia leggo scrollando banalmente la mia umile bacheca, è di gran lunga più denso di contenuti sinestetici di quanto riesca a cogliere scorrendo le righe di un quotidiano.
E dire che non amo particolarmente stare davanti allo schermo: dopo un po' di tempo con il fondoschiena costretto sulla sedia e il collo proteso in avanti come un formichiere (giraffa proprio no), mi prende una smania di uscire a prendere aria che mai mi coglie nelle ore (mezz'ore, ahimè) che passo sui libri.

Non uso molto Twitter, lo ammetto: ma se Facebook mi fa quest'effetto così immersivo e insieme così ottundente, posso solo immaginare che cosa mi succederebbe se mi facessi fulminare dalla passione per i cinguettii.

Da operatrice - a tempo perso - dell'informazione, non posso altresì (!) ignorare i cambiamenti del mestiere che ho scelto di inseguire nell'arcaico 1999, superando l'esame d'accesso all'Istituto per la formazione al giornalismo "Carlo De Martino", ai tempi finanziato direttamente dall'Ordine dei giornalisti della Lombardia, dal 2006 diventato master in giornalismo dell'Università degli Studi di Milano, con il nome, probabilmente più conosciuto, di Walter Tobagi).

Come sia cambiato il lavoro del giornalista dall'era pre terzo millennio non devo certo dirlo io.
Dubito, tra l'altro, che, allo stato attuale, si possano fare previsioni certe su come evolverà ulteriormente.
Per quanto riguarda me, non posso quasi quasi fare previsioni nemmeno su oggi, figuriamoci se mi metto a tromboneggiare sul destino dei pennivendoli del dopodomani.

Sono stata però coinvolta dall'Università del tempo ritrovato e dell'educazione permanente delle Valli del Tenna e dell'Ete (in sigla, Utete) che ha la sede centrale a Grottazzolina, un attivissimo paese in provincia di Fermo, come docente di giornalismo e comunicazione multimediale, per cui, qualcosina devo pur scrivere per presentare il mio corso.

La mia impostazione è pratica (chi ha partecipato ai miei laboratori di giornalismo all'Itis Montani lo sa... almeno spero!) e tenta di rispondere alla seguente domanda: come si informa/comunica oggi? Qual è il confine tra informazione, marketing e puro narcisismo oggi che tutti, potenzialmente, abbiamo modo di digitare, fotografare, filmare, discutere e incontrare, troppo spesso solo virtualmente, tutto il mondo con poche strisciate di dita? 

Detto in altri termini, come si riconosce un buon pezzo, servizio multimediale, tweet/post etc etc da una ciofeca?
Chi parteciperà, dovrebbe, alla fine, almeno farsi un'idea di quel che funziona e di quel che non funziona del loro modo di scrivere, twittare, titolare e via discorrendo, comparando quanto ideato con le loro mani con quanto di ottimo c'è in giro sul Web.

Il mio sogno? Spingere più di qualcuno - dotato di sufficiente incoscienza, nonché di denaro di famiglia - a tentare la strada del mestiere più inutile del mondo, se è giovane. 
Se è adulto, renderlo più consapevole di come funziona questo inutile straordinario mestiere per orientarsi meglio su cosa leggere, guardare ed eventualmente imitare (potendolo fare: non tutto è replicabile, proprio no).

Chi verrà alle mie cinque lezioni di due ore l'una, ogni mercoledì di maggio e l'ultimo di aprile, dalle 21 in poi, nella sede dell'Utete a Grottazzolina, come leggete nel volantino sopra ripubblicato, potrebbe, alla fine, addirittura divertirsi.

Ve lo premetto: ho una vocina un po' sottile che diventa quasi un ultrasuono quando sono costretta a tirarla fuori, ma sorrido assai e ho molta voglia di incontrarvi e di sentire quello che voi vi aspettate da me. Per quanto possibile, cercherò di soddisfare le vostre richieste.

E adesso, forza, tutti a iscrivervi! Non ve ne pentirete.

;-)

Thank you very much, folks.

mercoledì 8 aprile 2015

La protezione da lassù. Che non si vede. Ma c'è


Sono ancora un pochino provata dalle recenti vacanze pasquali. Per fortuna in senso positivo, stavolta.
Zia Zita, splendida neoottantenne, del resto lo dice sempre: "Sono tutti miracoli che sta compiendo tua madre".
Che ci si voglia credere per bisogno o che sia vero in qualche maniera misteriosa che poco ha a che fare con la razionalità di noi poveri bipedi, in ogni caso domenica scorsa c'era davvero un'atmosfera magica (la luna su Chieti - nella foto sopra - immortalata grazie alla pronta segnalazione del cognato italo-tedesco ne è la prova tangibile).



I nuclei familiari coinvolti nei festeggiamenti erano accomunati da lutti piuttosto seri, oltre che da un legame di sangue tanto indiretto quanto sentito.
Prima di trovarci seduti tutti là, però, non credo che il grosso di noi ne avesse consapevolezza. E invece quel legame c'è eccome e ci ha spinto a parlarci con una naturalezza e direi proprio una confidenza davvero piacevole.

Non pubblico le foto del pranzo, non lo farei mai. Però vorrei citare qualche passo del biglietto che la vulcanica zia giovane di mio padre (appena cinque anni di più: non chiedetemi come sia possibile, è troppo complicato da spiegare) ha dato a noi invitati, accludendolo a un sacchetto profumatissimo di lavanda che ho subito messo tra la mia biancheria.

Parla della vecchiaia ed è tratto da un libro (Edizioni Paoline, Il vecchio e la vita, di Edoardo Borra).
Tra le frasi più significative, vi riporto queste:

Benedetti coloro che capiscono le mie mani che tremano e il mio cammino stanco.

Benedetti coloro che mi ascoltano con pazienza quando io ripeto le stesse cose o i ricordi della giovinezza.

Benedetti coloro che mi stanno accanto e mi ricordano che sono sempre vivo e interessante, anche se non lo sono.

Benedetto chi mi offre un sorriso, una parola amabile o un po' del suo tempo.

Ho trovato molto appropriata la scelta della zia di lasciarci questo messaggio a futura memoria.
Lei, dal suo canto, teme di non essere più la stessa che era da giovane (anche se posso assicurarvi che difficilmente io ho incontrato giovani donne, per non parlare di giovani uomini, dotate-i della sua energia).

Per quel che mi riguarda, invece, riflettendo sulla vecchiaia in fondo da sempre (ben prima degli ultimi sette anni, voglio dire), mi colpiscono assai le parole dette o riferite da persone che hanno molti più anni di me.
E anche se a volte non ho pazienza con mio padre (quando devo ripetergli le frasi, non sempre lo faccio con buona grazia) e anche se persino con mia madre, nei momenti peggiori, non sempre sono stata capace di gestire i suoi momenti di sconforto con la dovuta pazienza, cerco di non dimenticare mai che un giorno (salvo smentite divine) sarò vecchia pure io e chissà in quale stato.

Essere di supporto e di consolazione per un parente anziano, insomma, è un dovere dal quale nessuno è esente. O comunque nessuno dovrebbe esserlo.

Per questo motivo, tra l'altro, non sopporto le liti tra parenti, soprattutto quando tutti, figli, genitori, zii, si sia raggiunta una ragguardevole età.
Che senso ha, mi chiedo, avvelenarsi ulteriormente la vita? Chi di noi non ha un rimpianto o peggio un rimorso? A che serve rinfacciarselo quando la polvere ha sepolto quasi pure noi?

Abbracciamoci finché siamo in tempo, piuttosto.
O lasciamoci perdere, se proprio non si riesce a stare vicini.

So, lo riconosco, di avere una grande famiglia unita. Però niente viene dal niente.
E se gli altri hanno colpe (e sicuramente ne hanno), noi per caso non ne abbiamo?

Ma, al di là delle colpe e dei doveri, credo fortemente nell'amore: è l'unico sentimento che conta, per me. L'amore spazza via tutti i rancori, l'amore ci fa resistere al dolore. L'amore guarisce.

Forse ha davvero ragione Zia Zita.
La mamma ci sta proteggendo.
Io, almeno, ci credo.