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venerdì 11 dicembre 2020

Melisa Erkurt e il futuro dei giovani austriaci di origine straniera



Come si vive in Austria? Tolti quelli che la confondono con la Svizzera, agli altri non saprei sinceramente cosa rispondere.
Di sicuro, un'idea di come si vive a Vienna ormai me la sono fatta, ma se proprio fossi costretta a dire qualcosa, vi esorterei a rivolgervi a chi l'ha scelta come patria definitiva
Mi riferisco agli immigrati di prima e seconda generazione, adottati dalla capitale asburgica in particolare. Una di loro è Melisa Erkurt, la giornalista autrice del libro di cui vedete sopra la copertina.

La storia di questa giovane donna, nata ventinove anni fa a Sarajevo, è emblematica. 
Praticamente ancora in fasce, è arrivata a Vienna con sua madre, in fuga dal terribile conflitto della Bosnia Erzegovina, una delle guerre della ex Jugoslavia scoppiata poco dopo la sua nascita.

Il più grande torto subito da chi lascia il proprio Paese è non potervi più tornare, se non un domani come turisti, alla ricerca di qualche traccia delle proprie radici.

Di un viaggio del genere parla per l'appunto Melisa Erkurt nel suo libro, dedicato alle ragazze e ai ragazzi con "Migrationshintergrund", ossia con origini migranti, alle prese con il difficile compito di diventare adulti in una terra straniera, frequentando scuole spesso non adeguate a comprendere i loro reali bisogni.

Del libro della giornalista che ora lavora per la Orf, l'equivalente della nostra Rai, ho parlato durante la mia presentazione al corso di tedesco (la trovate qui), uno dei molti offerti dall'Arbeitsmarketservice (AMS) ai migranti che vogliano inserirsi meglio (almeno si spera) nel mercato del lavoro austriaco. 

Ai tempi ne avevo sentito parlare leggendo un articolo sul Wiener Zeitung, il primo quotidiano che ho sfogliato praticamente già appena sbarcata dal treno due anni e passa fa, senza capirci granché. 
Inevitabile rimanerne colpita, considerando anche i magnifici occhi chiari su capelli corvini di questa giovane collega, che illuminano di forza e determinazione tutta la figura. 

I suoi primi anni qui non devono essere stati facili: in alcune pagine del libro, mi è parso di risentire le parole di una mia compagna del corso precedente, di origine afgana. Dal suo Paese Marzia, così si chiamava la mia ex compagna, è arrivata in Europa a piedi. Con lei c'erano il marito e i figli, che oggi le stanno dando tante soddisfazioni con la scuola e il lavoro. "Non avevamo niente", mi ha raccontato: una volta qui, organizzazioni caritative li hanno aiutati con vestiti e altri beni di prima necessità. 

La comprensibile gratitudine per chi ti ha salvato la vita, indirizzandoti verso un futuro migliore, può tuttavia confondere le acque.

Mi piacerebbe infatti parlare con i figli della mia ex compagna per sapere se hanno vissuto, o stanno ancora vivendo, le esperienze che racconta Erkurt nel libro, ossia le piccole e grandi discriminazioni subite dai nuovi austriaci di nome Mohammed (un capitolo si chiama proprio "Muhammed ist ein Urteil", ossia "M. è una sentenza", o qualcosa del genere). 
Per chi porta quel nome, oppure per le ragazzine che girano con il capo velato, la vita scolastica, e non solo quella, è sicuramente più dura, sostiene la giornalista.

Particolarmente problematica è la quotidianità delle giovanissime musulmane, che non di rado scelgono il velo per sottolineare la propria diversità, per darsi, anzi, un'identità. 
Proprio per questa ragione, sottolinea l'autrice, non ha senso, a suo giudizio, proibirne l'uso a scuola: finirebbe per alimentare il sentimento di separazione tra gli studenti con o senza pedigree.

Semmai, propone apertamente alla fine del libro, bisognerebbe rifondare daccapo il sistema scolastico, affiancando agli insegnanti tout court, altre figure, dal mediatore culturale allo psicologo, per favorire il dialogo tra docenti e discenti e tra i ragazzi stessi, in modo da prevenire e risolvere eventuali conflitti prima che sia troppo tardi.

Troppo tardi per cosa?, direte. Innanzitutto per completare gli studi fino in fondo e con successo. Ancora troppi ragazzi di origine straniera - precisa la giornalista - si fermano all'istruzione dell'obbligo o tutt'al più si avviano alla formazione professionale per accedere prima possibile al mondo del lavoro. I posti ai quali questi ragazzi aspirano sono perciò, nella maggior parte dei casi, di livello più basso, come se, detto in altri termini, tra loro (tra le ragazze in modo particolare) non ci fosse nessuno portato per mansioni più qualificate.

E dire che Melisa Erkurt di giovani donne capaci come lei ne ha viste diverse. Prima di diventare una giornalista, ha infatti studiato Pedagogia, lavorando, dopo la laurea, come insegnante
Il suo testo prende spunto proprio dall'esperienza didattica, raccontata con grande passione, in una miscela perfetta con i suoi ricordi personali, che ne agevolano la lettura anche a chi (come me) non ha una conoscenza avanzata del tedesco.

Per come la vedo io, insomma, sarebbe interessante tradurre "Generation Haram" anche in italiano, perché immagino che anche da noi si siano affacciati, ormai da anni, problemi di integrazione analoghi a quelli descritti per l'Austria.

Prima di chiudere la mia sghemba recensione, mi soffermo sul titolo e sul sottotitolo, sperando con questo di invogliare qualcuno ad approfondire l'intera faccenda.

La parola "haram", spiega l'autrice, si riferisce ai temi tabù per la maggioranza delle ragazze e dei ragazzi di origine musulmana. Su tutti, facile intuirlo, c'è la sessualità, un argomento trattato piuttosto male, rimarca Erkurt, anche nei corsi organizzati a scuola.
 
A saperne poco, d'altra parte, sono pressoché tutti gli adolescenti, precisa l'autrice, che spesso nascondono la loro inesperienza dietro eccessivi moralismi o atteggiamenti machisti (nel caso dei maschi), tipici in quella fascia d'età a prescindere dalle proprie radici. 

A maggior ragione, ribadisce Erkurt, diventa perciò essenziale che la scuola "impari a dare una voce a tutti", come recita il sottotitolo del suo libro. 

Perché se è vero che storie di successo come la sua già di per sé testimoniano che la direzione giusta sia stata già imboccata, è purtroppo ancora vero che molti di questi giovani di origine straniera rappresentano una "generazione perduta"

A ripeterlo piuttosto spesso, in vari capitoli, è sempre l'autrice, che nella quarta di copertina però precisa come la medesima generazione finalmente sia "pronta a parlare!", scritto proprio così, con il punto esclamativo, assai utilizzato in Austria anche dalla pubblica amministrazione. Ogni volta che ne vedo uno, a dirla tutta, mi viene l'ansia.

Stavolta, invece, auspico davvero che la personale biografia di questa giovane donna non sia un "Ausnahme", un'eccezione, come è scritto sempre nella quarta. 

A mio modesto avviso, di generazioni perdute ce ne sono state già troppe, a partire dalla mia, la mitica nata tra i Seventies e gli Eighties, come sostenne un po' di anni fa un illustre ex premier italiano.

Rimanendo nell'ambito della politica, segnali confortanti, almeno qui in Austria, si vedono in Alma Zadic, la ministra della Giustizia del secondo governo Kurz, nata in Bosnia, come Melisa, nel 1984.
Anche di lei la giornalista parla come di un'eccezione, dotata com'era di un talento straordinario per gli studi e lo sport.

D'accordo, due eccezioni non fanno la regola, però aiutano. 
La terza, per me destinata a confermarla, è l'apparizione della giornalista in un calendario dell'Avvento interattivo, dove anima una delle 24 finestrelle, insieme con altri Vip austriaci. 
Il suo volto, per la precisione, è comparso il 6 dicembre, il giorno di Nikolaus, il vescovo barbuto che nelle terre teutoniche lascia frutta e dolci nelle scarpe dei piccini. In sintesi: un giorno importante per i nativi di sangue bianco rosso, come i colori della bandiera nazionale.

Non casualmente, Melisa consiglia tre libri, il primo dedicato al tedesco, il Deutsch, che lei parla e scrive meglio della sua lingua madre. Lo afferma nel libro, ma lo si intuisce sentendo a quale velocità lo parla.

Grazie alla sua competenza linguistica, rivela peraltro, non di rado ha aiutato i genitori con documenti e burocrazia varia (un vero incubo per tutti gli Ausländer, ve l'assicuro).
E dire che a suo padre non sembrava poi così importante che continuasse a studiare: per lui era essenziale che invece si rendesse autonoma prima possibile.

Considerando l'età che ha e dove si trova, direi che, beh, in fondo non ha affatto tradito le aspettative del papà

Un giorno, ne sono certa, si chiariranno. Suo padre, in particolare, capirà che cosa fa la figlia e ne sarà orgoglioso.
Quando succederà, quel legame interrotto tra generazioni, l'una radicata per forza di cose più nel passato, l'altra proiettata con energia da vendere nel futuro, porterà frutti ancora più abbondanti. 

Un augurio simile lo estendo a tutti i nuovi austriaci, giovani e meno giovani. 
Le generazioni perdute hanno fatto il loro tempo.
Pensiamo adesso a quelle ritrovate. E andiamo avanti insieme. 

martedì 13 ottobre 2020

Auf Wiedersehen, Italia


 

Lo ammetto. Me lo sentivo che stavolta non ce l'avrei fatta, ma evidentemente la vita ha in serbo per me nuove sorprese. Belle, coinvolgenti e concrete sorprese. Voglio crederlo ciecamente.

Sto parlando della preselezione del Concorso Rai, la seconda sostenuta negli ultimi cinque anni. La prima mi era andata meglio: ero riuscita a superarla, piazzandomi alla fine di quella lunga cavalcata 210ma sugli iniziali circa tremila partecipanti.

Stavolta concorrevo per le Marche, quindici erano i posti in palio su circa 270 vincitori da distribuire anche in altre regioni.

Come i partiti di quattro gatti che non riescono a superare la soglia di sbarramento alle elezioni, ecco, stavolta pure io sono stata segata. E il bello che ho anche capito perché, anche se fino a mezz'ora fa ho sperato nella classica botta di deretano imprevista.

Non ho risposto a dieci domande volutamente, perché la risposta sbagliata sarebbe stata valutata negativamente, mentre quella non data avrebbe avuto solo zero. Avevo fatto così anche l'altra volta, solo che l'altra volta, probabilmente, ne avevo tralasciate di meno. 

Che cosa mi ha fregato? La Storia dell'arte, la mia amatissima quanto sconosciuta Storia dell'Arte (due erano di una facilità sconcertante, ma in quel momento avevo il vuoto totale). E poi le altre, paradossali, sul contratto giornalistico 2013-2016.

Quando le ho lette, quasi non ci potevo credere. Mi era balenato il dubbio che me lo dovessi rileggere, ma ripassando per l'ennesima volta tutto il ripassabile, ho ritenuto - errando - che un contratto scaduto già da quattro anni non potesse essere una valida materia d'esame. E invece lo era e io sono una fessa.

Una cosa simile mi era successa all'esame di Diritto Privato all'università. Era il mio terzultimo esame, avevo aspettato a lungo prima di darlo, ma non volevo lasciarlo proprio alla fine per evitare di arenarmi a un passo dalla laurea.

Da brava studentessa avevo frequentato tutto l'inverno il seminario della prof, una specie di Cerbero in gonnella piena di capelli grigi. Facevo anche domande, esattamente come mi succede adesso al corso di tedesco. Ero così "fleißig", come si dice qui dei secchioni.

A ridosso della prova, mi capitano sott'occhio gli appunti su un argomento molto specifico (ricordarselo adesso, quasi trent'anni dopo, sarebbe inquietante) e io mi dico che no, non valeva la pena riguardarselo, figuriamoci se me lo chiedono.

E invece il grigiocerbero lo tira fuori. Ricordo bene le mie gambe irrigidite sotto la scrivania, e, non so perché, totalmente divaricate, in una posizione oserei dire ginecologica. Comincio a rispondere arrampicandomi sugli specchi, aiutandomi con la mia una volta proverbiale memoria fotografica.

Casco argenteo non abbocca, capisce che ce sto a provà e infatti mi fa osservare l'incompletezza delle mie argomentazioni.

E lì viene fuori lo spirito un filino polemico e paraculo che ogni tanto si affaccia sul mio faccino raggrinzito. "In effetti - oso dirle - l'argomento non era molto chiaro neanche durante il seminario".

L'occhialuta creatura dantesca si agita vagamente sulla sedia e ribatte: "Signorina, sia seria, non usi questi mezzucci da leguleio. L'ho vista a lezione, per cui le offro 23. Che fa, accetta?".

Ma certo che accetto. Vielen Dank, professoressa Rottemeier e a mai più rivederci.

Ecco. Se mi avessero dato la possibilità di parlare, avrei fatto notare il paradosso di chiederci qualcosa sul contratto che, diciamolo, è diventato come l'Eldorado per i cercatori di pepite. 

Però, obiettivamente, come l'argomento che non avevo ripassato all'epoca, ci stava qualche domanda sul mezzo con cui, bontà loro, i novanta colleghi cominceranno un domani il loro percorso professionale da Mamma Rai. Sperando, tra l'altro, che nel frattempo lo rinnovino. Finalmente. 

Un po' più paradossali le domande sulle Marche, più adatte - a ridaje il leguleio e i suoi tristi mezzucci - agli studenti di Beni Culturali che a noi (leggi: a me) eruditi a metà.

Insomma, non è andata.

Mi consola, parzialmente, vedere tra gli ammessi molti giovani, gente, intendo, nata tra il 1991 e i secondi anni Ottanta. 

A loro auguro lunghe e felici carriere, sperando che un domani si ricordino di noi vecchietti che abbiamo pagato l'iscrizione all'Ordine, i contributi all'Inpgi2 (e io per brevi, fortunati periodi anche all'Inpgi) per anni, confidando che un giorno il vento sarebbe girato.

E' già da tempo che non credo più che il giornalismo fosse davvero la mia strada. L'ho amato molto, moltissimo, tutte le volte che ho potuto scrivere anche una sola riga e persino in quest'ultimo mese, in cui mi è toccato rispolverare manuali e leggi professionali, come quasi vent'anni fa.

So bene però qual è il motivo che mi ha portato a Vienna e credo di aver fatto la scelta giusta, nonostante la delusione lavorativa iniziale.

E adesso che succederà?

Keine Ahnung. 

O meglio. Intanto finisco il corso di tedesco (apropos, come dicono qui: giovedì ho la simulazione dell'esame finale. Mortaccen, devo studiare).

Dopodiché (direi nel frattempo) continuerò a cercare un lavoro, come fanno tutti, come fa chi sa che, comunque andrà, andrà bene.

Punto e a capo. 

Auf Wiedersehen, Italia. 



domenica 1 maggio 2016

Paura e solitudine. Ovvero il lavoro che c'è


Ho scattato questa foto qualche giorno fa, sulla spiaggia. Poi l'ho condivisa su Instagram, dandole un nome tutto sommato piuttosto banale: "In cammino". Sono rimasta sorpresa dall'alto (per così dire) numero di cuoricini ricevuti (corrispondenti ai like di Facebook) e così ho deciso di usarla per questo post sul primo maggio e il #lavorochec'èenonc'è.
Quello che non c'è, ormai, è piuttosto noto a tutti, al di là dei dati diffusi (ma che strano) giusto alla vigilia della festa odierna.

Vorrei, però, parlarvi, una volta tanto anche di quello che c'è.

Succede che un caro amico ha una promozione e ricomincia dal punto che aveva deciso di mettere (pazza idea) vent'anni fa. Un miracolo, certo, ma anche un cappio. Sei riuscito a tornare a galla? Allora accontentati di questi duecento euro in più contro undici ore di lavoro giornaliere e zitto, che fuori c'è la fila di gente che farebbe lo stesso per molto meno denaro e svariate ore di travaglio in più.

Oppure: vuoi che ti paghi? Eh, ma prima devi aspettare che incassi i proventi della pubblicità. Mica pretenderai uno stipendio tutti i mesi? In fondo siamo una famiglia: se vuoi ti dò un ciauscolo, almeno magni.

Ah, non ti piace come ti trattiamo? Questa è la porta e adiòs, ci frega assai se il sindacato appoggia la tua causa e se noi tuoi datori di lavoro siamo imprenditori milionari.

"Paura e solitudine": è lo stato d'animo vissuto da molti. Si parlava di giornalisti, a dirlo era Guido Besana, sindacalista e dipendente Mediaset, ma di certo non capita solo a loro.

Succede semplicemente un fatto e lo ha mostrato molto efficacemente sempre lo stesso Besana all'assemblea del Sindacato giornalisti marchigiano, più deserta di una riunione di cospiratori.

Il giornalista, omone con barba, ha alzato un braccio per riabbassarlo lentamente subito dopo, con l'intento di mimare la curva discendente dei redditi della mia categoria. Una parabola che la sta portando ad avvicinarsi sempre di più a quella del resto dei lavoratori, con una coda non trascurabile di colleghi che stanno già ben al di sotto della soglia considerata minima dalla cassa previdenziale dei giornalisti (l'Inpgi).

Giusto un paio di numeri, per fingere che servano a qualcosa: secondo Besana, contro una retribuzione media pari a circa 60 mila euro all'anno percepita dai giornalisti italiani dipendenti (mi sfugge, non me lo sono appuntato, mea culpa, quanti siano), ossia quelli con contratto regolare e con una serie di tutele previdenziali e sanitarie che non oso nemmeno immaginare, si è nel frattempo fatto largo (largone, direi) un gruppo di circa trentamila giornalisti che all'anno di euro ne prendono circa 9 mila.

Non voglio tediare i non addetti ai lavori sulla differenza tra pubblicisti e professionisti, ma posso solo dirvi che tra quelli che prendono così poco, ne conosco parecchi, dell'una e dell'altra categoria. E sto parlando di persone che non hanno modo di integrare quelle modeste entrate con altre più serie, sia per questioni di tempo (c'è gente che lavora undici ore al giorno per tenere in piedi attività che altrimenti chiuderebbero) sia per scarso appeal del loro curriculum sul mercato del lavoro.

Chi ha fatto più o meno sempre lo scribacchino, in altri termini, difficilmente riesce a riciclarsi in qualcos'altro, a meno di non avere uno zio buono o qualche altro protettore.

"Oggi ci sono molti più concorrenti a buon mercato di quanti ne avevamo un tempo", ha detto il sindacalista milanese. Che però, bisogna che lo aggiunga, ha parlato anche di una mediazione in corso tra gli editori e la federazione nazionale della stampa per rivedere in qualche maniera il contratto giornalistico fortemente disatteso al di fuori dei media mainstream, per tentare di salvare la truppa sempre più povera dei soldati Ryan dell'informazione.

Potrebbe nascere una specie di collaboratore-dipendente-a-orario-ridotto, però a tempo indeterminato. Una specie di mix in tono minore tra l'articolo 1 dell'anacronistico contratto giornalistico e i collaboratori esterni di una volta, quelli che in redazione potevano giusto entrare per farsi dare incarichi/ramanzine, senza la possibilità di lavorare al desk (ossia titolare, sistemare pezzi altrui etc etc).

Io non so dirvi se mai nascerà quello che ironicamente qualcuno ha battezzato "articolo x". E tutto sommato, francamente, penso che al grosso della gente non interessi affatto.

So solo che se devo continuare ad aggirarmi in questo mondo, mi toccherà confrontarmi con il presente. E con il futuro. Camminando sulla sabbia senza affondare, come nella foto.
Finché morte non ci separi.

Tiè.

Buon primo maggio a tutti, amici.

lunedì 1 febbraio 2016

Aria nuova, aria diversa



Venerdì scorso ho ordinato il divano nuovo. Dovrebbe arrivare in cinquanta giorni e, devo dire, in tutta incoscienza, che non ne vedo l'ora.
La cosiddetta fase due della mia vita procede a una certa velocità.

Per la prima volta dopo anni ho smesso di "festeggiare" il mezzo compleanno (i primi sei mesi svoltati i quali piomberò dritta dritta nel 45esimo), perché ho fretta di compiere concreti passi in avanti. Prima che sia troppo tardi, probabilmente.

Sono terrorizzata (a tratti) dal timore che non riuscirò mai più a lavorare, ma al contempo so che agitarmi in questo mezzo bicchiere d'acqua non mi porterà da nessuna parte.

Così vado avanti con la sistemazione della casa, il primo posto (lo dico piano) dove, finalmente, mi sento davvero bene.

Pare che per noi cancerini (bleah) la casa sia importante: bella originalità.

In ogni caso, come immagino succeda a molti, mi piace provare questa sensazione.

Sto sognando spesso mia madre.
Non mi va di parlarne, non sono ancora pronta per scriverne nel modo giusto.

Faccio, in generale, sogni pazzeschi: sarà che sto leggendo Tropico del cancro di Henry Miller, una scrittura disordinata, a tratti fin troppo per i miei gusti autistici.

O sarà che non ci sto capendo granché, se non che voglio, fortissimamente voglio, aria nuova.

E l'avrò, ne sono convinta.
Ma sarà diversa, molto diversa, da quella che sognavo anni fa.

Lo intuisco dai sogni ricorrenti sul giornalismo e sui giornalisti (facce che non ho mai visto, chissà se esistono davvero) che si alternano a quelli con mia mamma mischiati a varie comparse reali (tipo la simpatica compagna di ginnastica che mi ha fatto i capelli l'ultima volta!) e irreali (i parrucchieri fermani, di cui uno handicappato e l'altro con la pipa...).

Staremo a vedere.

Voi pazientate con me.
Se vi fa, of course.

lunedì 30 novembre 2015

Nuova vita, nuovo lavoro: give me a chance, please



Se non fosse venuta mia cugina, dubito che sarei riuscita a tornare in quel posto con la leggerezza che, tutto sommato, ho provato.
Cioè, intendiamoci: sono piombata in una delle stanze che ben conoscevo un tempo con un fortissimo scetticismo, alimentato, peraltro, anche da quel che ho sentito lì dentro.
Mi pare di capire, detto in soldoni, che la politica europea e italiana delle quote accettabili sul suolo patrio di migranti non funzioni proprio benissimo e anche se comprendo con tutta l'umanità di cui sono capace che quelli che ci lavorano a stretto contatto abbiano l'urgenza di far sapere quanto male stiano le cose, dubito assai che qualcuno dei presenti all'incontro (me compresa, ovvio) potrebbe fare qualcosa per "squarciare il velo dell'indifferenza", usando una delle noiosissime frasi fatte, circolanti in ambienti sociable.

Insomma: come ho già scritto un po' di tempo fa, non credo (non più, comunque) nel giornalismo sociale. Mi spiego meglio: credo che il giornalismo, se fatto bene, abbia una natura sociale, socializzante e solidale di per sé, senza bisogno di ulteriori aggettivi.
Come farlo bene? Lo dico apertamente: dietro sonante denaro. Per scrivere pezzi seri, fare reportage dal basso o dall'alto, come volete voi, bisogna avere (ma guarda un po') compensi adeguati ed editori veri. Diversamente, si scriveranno, filmeranno, condivideranno chiacchiere o punti di vista limitati al mondo al quale si appartiene e dal quale non si ha il coraggio (comprensibile, abbiamo tutti famiglia) di uscire.
Ma andiamo avanti.

Per fortuna, qualche perla rara si trova pure in mezzo alla monnezza.
Alcuni incontri e alcune informazioni raccolte resteranno nella mia memoria e anche il fatto di aver usato l'auto, di essermi vestita e armata di una corazza immaginaria contro uno dei vari mondi che mi ha rifiutato (o che io non ho accettato), male non mi ha fatto.

Ammetto, comunque, che essere stata platealmente ignorata da gente che ho conosciuto e rivisto negli anni e da uno che appena un mese e mezzo fa mi diceva di seguire con attenzione il mio avvicinamento alla Rai, mi ha lasciato lì per lì esterrefatta. Sono tuttavia ben fiera di non aver ceduto nemmeno per un secondo alla tentazione mortificante di ri-presentarmi.
E, tutto sommato, quel che ho sentito dalla voce e il bel viso di Stefano Dionisi, mentre parlava del suo libro La barca dei folli , sulla malattia mentale mi è stato utile.

L'attore lascia trasparire la sua fragilità: sinceramente non mi è sembrata costruita. Temo tuttavia che il circo delle presentazioni che si scatena quasi in automatico per i vip dell'editoria potrebbe danneggiarne l'autenticità. E trasformarlo in una macchietta.
In bocca al lupo di cuore: il dolore va rispettato. Sempre.

Avrei voluto scrivere anche cose più crudeli e sarcastiche, ma preferisco andare oltre.
Sto cercando di cambiare lavoro, come qualcuno sa già e come vado ripetendo quasi per convincermene del tutto. Specifico meglio (è una nota che sto aggiungendo solo ora): cambiare lavoro significa per me trovarne uno che niente abbia a che fare con il giornalismo (così il mio amico di liceo, che non aveva capito, e come dargli torto, le mie parole, è più contento).

Una cosa del genere mi è successa molti anni fa, quando ho deciso di andare via da Milano. Anche in quel caso, prima l'ho deciso e poi ho cominciato a dirlo, con una certa ingenuità, nei corridoi del giornale che molto generosamente mi aveva elargito un contratto serio (il solo della mia vita, in pratica), scavandomi da sola la fossa.
In questo caso è diverso, perché sono davvero finita giù in fondo a un burrone ed è come se stessi gridando, da molti metri sotto terra, "ehilà, sono quaggiù, mi sentite?".
Quindi, non ho, in fondo, molto altro da perdere.

Semmai, ho da guadagnare. Una nuova vita.
Blogger sfigata (e culturista) chiama Terra. Please, give me a chance.
Sinceramente, me la merito.

lunedì 16 novembre 2015

Valeria Solesin, mia sorella. Grazie, mamma



Valeria Solesin mi somiglia. Soprattutto, somiglia a molte donne tra la sua e la mia generazione che continuano tutti i giorni a lottare per affermare e mantenere il proprio ruolo sociale nel mondo.
Da pochissimo mia sorella maggiore ha cominciato un dottorato di ricerca. Ebbene sì: alla sua veneranda età (48 anni) ha fortemente voluto sfruttare l'opportunità che le offre il suo datore di lavoro pubblico (ah, questi statali) di darsi alla ricerca.
Per riuscire in questo intento, ha studiato tutta l'estate, fino a tarda notte, dopo essersi occupata dei figli, della casa e anche del padre in difficoltà.

Si è sentita pure fare delle battute sciocche (non dico da parte di chi, non vorrei metterla nei guai) sul fatto che, ma come, ti rimetti a studiare tu, che c'hai una famiglia e vari anni sulle spalle? Alla faccia dei cretini di ogni religione e (sub) cultura, lei è riuscita a superare uno scritto e un orale e ora avrà a che fare, forse, anche con giovani come Valeria, una sua possibile sorellina minore, quasi figlia volendo, una di quelle che doveva vivere e continuare a studiare come mai in Italia le donne con figli (ma purtroppo non solo loro) spesso stanno a spasso o sono (troppe volte) semplicemente sotto pagate e in generale sotto valutate solo perché portano tacchi e smalti colorati.

Giusto qualche ora prima che questa splendida mia sorellina minore (volendo mia figlia, se fossi stata una di quelle spose bambine di cui tanto si chiacchiera spesso a sproposito) venisse barbaramente cancellata dalla Terra, mia sorella vera mi stava appunto esponendo le sue indecisioni in merito all'argomento che dovrà trattare nella ricerca: l'istinto la stava conducendo verso la sociologia politica, ma, molto appropriatamente, si domandava se non sarebbe meglio proseguire nei suoi studi condotti quando Valeria andava ancora alle elementari, anno più anno meno, ossia il diritto amministrativo e le sue procedure.

Non so quale scelta farà alla fine, ma potete stare certi che a qualunque cosa si dedicherà, l'affronterà con la stessa serietà ed entusiasmo presenti nell'articolo che la giovane dottoranda italiana alla Sorbona aveva inviato due anni fa a una rivista francese, vedendoselo pubblicare pur essendo un'illustre sconosciuta.
Un fatto che in Italia capita molto, molto di rado.

Colpisce, non solo me, la dignità con cui la madre parla di sua figlia, la voce rotta, ma presente a se stessa. Mancherà, dice questa signora, alla società, Valeria, perché era una persona meravigliosa.
Una madre non dovrebbe mai piangere per la morte dei propri figli.
Se la mia fosse stata ancora qui, sarebbe stata così orgogliosa di mia sorella e se mia sorella ce l'ha fatta a dimostrare ancora una volta quanto sia meravigliosa, il merito è anche suo.

Non è una consolazione, non può esserlo, ma vorrei tanto che la mamma di Valeria lo sapesse: se sua figlia aveva quel gran talento, ma soprattutto se lo stava mettendo in pratica in modo così brillante, il merito è anche suo.

La mia tesina per diventare giornalista professionista riguardava il Libro Bianco di Marco Biagi, ucciso da vigliacchi bastardi non musulmani: i signori colleghi della commissione, nel 2002, mi fecero i complimenti per l'argomento e per lo stile.
Alla tesi di laurea, idem, applausi, per il mio stile di scrittura giornalistico.

Se ho ancora qualche chance di uscire dal guado, lo prometto solennemente in questo momento, lo farò anche in nome di Valeria.
E in nome di mia madre, che per fortuna non ha assistito alle tragedie di questi ultimi tempi.

Aggiungo solo un piccolo, patetico, grazie.

E ora, forza, sotto a lavorare, donne.

domenica 15 novembre 2015

Dedicato a Parigi e alla civiltà



Ci risiamo: bastardi terroristi uccidono nel cuore dell'Europa e sui social si scatenano dibbbbattiti sul fatto che siano o meno da condannare tutti i musulmani del mondo e se quella in corso è una guerra di civiltà.
Sulla seconda parte, lo dico apertamente, io la penso così: quella che si combatte - una guerra, senza se e senza ma - ha a che fare con la cultura e la convivenza democratica e civile tra gli umani, ma la religione, almeno per me, è un elemento di sfondo.

Aggiungo, a scanso di equivoci, che io non sono credente e che ogni volta che vedo il pur degno papa Francesco nei tiggì, penso che sarebbe l'ora di finirla con il confessionalismo da bar che ormai ha catturato tutti i media. Se proprio mi dovete fare vedere l'Angelus, allora informatemi pure su che cosa hanno predicato il Rabbino, l'Imam e il Dalai Lama. O anche no: lasciate che le prediche vengano ai fedeli nelle rispettive chiese.
Detto ciò, veniamo a Parigi e alla bandiera tricolore bianca, blu e rossa che pure io ho scelto, temporaneamente, di piazzare sulla foto del mio profilo.

Qualche mio contatto la pensa diversamente e sostiene che allora dovremmo mettere la bandiera di Beirut (Libano), ma, a questo punto chioso io, pure curda e pure armena, tanto per citare alcune delle tanti stragi passate e presenti che la storia ci dispensa copiosamente.

So benissimo che si tratta di emozioni del momento e che, ahimè, di tragedie di come quella di venerdì sera ce ne potrebbero essere ancora molte.
Però, amici, Parigi è Parigi e per la maggior parte dei cittadini europei sopra i quarant'anni almeno, ma pure di vari giovani italiani che a Parigi continuano ad andare a vivere, è un luogo unico, forse uno dei pochi nel mondo nel quale, forse con un po' di ingenuità provinciale, molti di noi pensano che ci siano ancora spiragli di crescita culturale e professionale.

Aggiungo un'altra nota, piuttosto triste.
La sera di venerdì, con mia sorella, dopo anni che non passavamo insieme un po' di tempo sole lei ed io (e nostro padre), avevamo appena finito di vedere Crozza. Dovete sapere che io fino allo scorso anno non mi ero mai filata "Nel paese delle meraviglie": da quando ho scoperto che piace ai miei nipoti, cuore di zia, ho cominciato a seguirlo. Lo aspetto, anzi, con piacere, sperando di alleggerirmi un po' l'animo (ma come mi sono ridotta).

Avevamo appena spento la tv, ma Linda (mia sorella) mi ha chiesto di riaccendere: "Dai, vediamo se c'è qualcos'altro". Crozza aveva invitato a guardare Mentana, quello vero, e, in effetti, Mentana era lì, abbastanza crozziano, ma, ahimè, con cose da comunicare nient'affatto divertenti.

Siamo rimaste attonite, letteralmente, davanti alle immagini dello stadio pieno di gente immobile. 
Da lì, almeno io, ho cominciato a compulsare freneticamente Twitter, mentre cambiavo canale alla ricerca anche di altre voci. Le prime cronache erano, ovviamente, imprecise e, direi, tutte molto caute e serie.

Perché, come ha scritto qualcuno dopo, stavolta siamo stati colpiti noi cittadini comuni.
Scusate se mi permetto di parlare di nuovo della mia povera vita: la tristezza personale è stata amplificata ancora di più dal fatto di non poter esserci anche io, in uno qualunque di quei tg o di qualche giornale, a seguire e a scrivere con gli altri. Perché l'unico contributo che può dare un giornalista, in momenti come questi, è lavorare a un prodotto collettivo che aiuti chi non fa questo di mestiere a capire che diavolo ci sta succedendo.

Perciò oggi scrivo giusto queste righe. Voglio darvi il mio modestissimo contributo da qui, da blogger quasi ex giornalista, che spera, ancora nella civiltà e nel bene pubblico.

La canzone che linko sopra era in una colonna sonora di Mark Knopfler: ho appena letto di che cosa parla il testo. Parla di ragazzi e ragazze alle soglie della maturità. L'ho scelta perché è affiorata spontaneamente alla mia memoria insieme con una delle sigle di Maigret (Le mal de Paris) interpretato da Gino Cervi, che immagino sarebbe stato assai affranto se fosse vissuto oggi.

La dedico alle vittime del Bataclan, in massima parte ragazze e ragazzi che volevano solo passare una serata insieme a sentire musica che io presumo orribile.
La dedico pure alle ragazze e ai ragazzi che scelgano, alla fine, di non farsi esplodere, pur sentendosi fragili e disperati.

La dedico, infine, alle vittime più adulte di ogni colore e ogni nazionalità, scusandomi se non metto le bandiere delle loro terre ogni volta che qualche bastardo (e purtroppo bastarda) tecnologizzato, ma per me con l'anello al naso, infila una cintura esplosiva o usa un kalashnikov ammazzandoci tutti ogni giorno di più.

Finisco con la cronaca da Parigi da Facebook di un mio conoscente, un fotografo di Fermo che si chiama Marco Illuminati, che sembra quasi che si sia sentito in colpa per essere riuscito a mettersi in salvo.
Non credo che il suo racconto abbia bisogno di ulteriori parole: giudicatelo voi che sapete tutto su islamici e non islamici. Però, per cortesia, non fatemelo sapere.

Non riesco e non voglio uscire dal letto. Ci sono entrato alle 3h17, intero, cosciente, e scosso. Cerco di rompere questo surreale isolamento domestico nel quale siamo chiusi.
Stavo mangiando una pizza ad Acqua e Farina a pochi metri da La Belle Equipe. Eravamo dentro, ho sentito dei botti molto forti, tutti li hanno sentiti. Qualcuno si è affacciato, continuavano i botti. Vedevo qualcuno sulla strada, ci domandavamo se fossero petardi, tutti se lo domandavano. Tra la paura e lo stupore, nessuno osava fare altro che porsi delle domande. Dopo diverse raffiche e colpi singoli, un odore di polvere da sparo. Abbiamo pensato fosse la conferma che si trattasse di fuochi artificiali, non sapevo che le armi da fuoco potessero avere questo fortissimo odore. Poi di seguito, un auto nera si ferma di fronte alla brasserie colpita con le quattro frecce e riparte, gli asiatici dell’emporio di fronte capiscono per primi cosa è accaduto (forse la guerra l’hanno vista) e chiudono per primi la serranda, esco, mi avvicino, con la certezza crescente che non si trattava di una festa a sorpresa. Vedo altri ragazzi nascosti dietro una campana del vetro, due tornano, gridando « sono tutti morti ». Da questo momento, la vista si fa opaca. Mi ricordo solo dei dettagli, mi ricordo una sedia spaccata dai colpi, il legno era spaccato, non forato, credo le armi pesanti facciano questo. Poi il sangue, e poi la terrazza, a fianco del giapponese. La terrazza come un contenitore di corpi, ammucchiati, tra i tavoli e i vetri. La carne macellata era ancora fumante, c’era quel silenzio di morte che si immagina tra il trauma e la reazione, come quel tempo sospeso tra la caduta di un bambino e il suo pianto. Poi una ragazza con i pantaloni neri e la scarpa con il tacco, con la gamba forata sul tavolo, forse con qualcuno che la stringeva, comincia a gridare, e si rompe il silenzio, o forse comincio a sentire. Mi ricordo un uomo a petto nudo che urlava, mi ricordo un ragazzo che filmava e un altro che lo attaccava gridando. Mi ricordo un lavoratore del locale, forse un cuoco sulla porta, immobile, sotto shock. Mi ricordo un ragazzo con la testa sull’unico tavolo in piedi, con un occhio di fuori e lo spot luminoso ancora puntato sul tavolo come in un teatrino dell’orrido. Mi ricordo le luci spente, i vetri rotti, mucchi di ragazzi ben vestiti. Cercavo di ripetermi che erano persone vere. Poi improvvisamente non mi sono più sentito al sicuro, sono scappato, senza aiutare nessuno e senza pensare. Ho corso, sono rientrato all’ Acqua e Farina e ho avuto una fitta allo stomaco. Siamo scappati nella casa di un’amica, fino a quando non siamo riusciti a rientrare. 
A questo aggiungo solo poche considerazioni a caldo. La scena di quella carneficina era uguale a quella che ci capita spesso di vedere nei media quasi quotidianamente dopo un attentato: stessa architettura dei corpi, stesso odore, stesso ambiente di morte. Però questa volta sono vestiti come me. Questo cambia tutto. Il nostro immaginario non si riconosce in queste scene, e il décalage è forte. Non hanno tuniche, non hanno barbe, non gridano in arabo. Sono vestiti come te, hanno la tua età, ti somigliano. Era quello che volevano i terroristi, colpire l’intimità di ognuno, creare immedesimazione. 
Non ho aiutato nessuno, e mi domando perché. Come si fa ad aiutare un cumulo di persone? Puoi aiutarne uno, una persona ferita, mi è capitato più volte. Ma come si fa quando sono tanti? Non sapevo dove mettere le mani, e me ne sono andato, come quando spegni la televisione. 
Penso a chi vive quotidianamente questa situazione, penso alle innumerevoli persone che sono in Francia immigrate che hanno già vissuto queste situazioni. E penso a noi, figli della « belle époque » del « non ci riguarda » o ci riguarda ma in fondo…. 
Per la nostra generazione europea è la prima volta che la guerra entra nelle nostre case, nei nostri occhi, sulle nostre strade in maniera così eclatante e pesante. Non si tratta di una bomba, né della distruzione di un obiettivo sensibile. A fare questa strage sono ragazzi della tua età armati che si mettono di fronte a te per ucciderti, faccia a faccia a pochi metri, per ucciderti, per distruggere la tua illusione di benessere, per strapparti la convinzione che in fondo capita sempre ad altri. 
Lo straniamento è un processo di autodifesa, cerco di restare presente a me stesso.

lunedì 19 ottobre 2015

#concorsonerai, fuori dagli eletti. Con onore



Vi assicuro, non sono depressa. Incazzata, forse, un pochino sì. Di tutto mi rode di più questa cosa: non essere riuscita a entrare nel gruppo dei 100 giornalisti professionisti che varcheranno i tornelli di Saxa Rubra (e di svariate sedi regionali Rai a partire da Aosta, Cosenza, Campobasso e qualche altra che non ricordo) mi costringerà a fare come sempre. E cioè, mai una cena fuori, pochi film al cinema, pochissimi acquisti (alla crema antirughe, però, non posso rinunciare e nemmeno alla palestra: il crollo è dietro l'angolo e le delusioni di certo non aiutano).

Minchia che vita sfigata. Fortuna che abito sul mare e che, tutto sommato, intorno a me non vedo girare molta gente con i soldi, ma davvero, quello stipendiuccio mensile, pure solo per qualche mese ogni tot, non mi avrebbe fatto schifo.
Invece ciccia, si andrà avanti così. Ho da scoprire ancora molto sulla cura delle piante da balcone (da interno no: sennò la grigia ce le fa fuori tutte. Mortacci suoi).

Ma torniamo un attimo indietro al giorno in cui avevo saputo di aver superato la prima fase del concorsone Rai, era inizio luglio, la pelle non ancora rinsecchita dal sole.
Che botta in positivo per l'autostima, accidenti. E che senso di rivalsa sapere di essere andata lì a farmi largo con il mio metro e cinquantadue tra 2.800 persone, con sole due settimane di preparazione rappezzata alla bell' e meglio, dopo mesi in cui leggiucchiavo pochissimo i giornali, assai ben più attratta com'ero (e come tornerò ben presto ad essere) da libri in lingua inglese (mo' ci metto pure il tedesco, tiè), corsette sul mare e svariati impegni familiari (trasloco compreso).

Da quel momento in poi, però, tutto è cambiato. Ho, per l'appunto, realizzato che mi si dava l'occasione, probabilmente irripetibile, di tornare a fare il lavoro che mi ero scelta quindici anni prima, da una posizione un po' meno marginale di quella che ho avuto negli ultimi dieci, mese/anno più o meno.

Risistemandomi il curriculum, oggetto di valutazione (ho appena visto che ha preso un bel 3 su 5 punti) tra gli altri elementi che hanno contribuito a formare la graduatoria finale, ho riletto la mia vita professionale sotto una luce diversa.
Ho fatto un sacco di cose, accidenti. Anche quelle apparentemente meno importanti, come la partecipazione al laboratorio dei pazienti psichiatrici della Comunità di San Girolamo di Fermo, in qualità di volontaria (o aspirante ospite? Scherzo, of course) è stata gratificante e, direi proprio, formativa.

Ho strappato il posto 210 su 400 in graduatoria (accanto ad altri colleghi - ancora per poco - tra cui un paio di donne simpatiche incontrate il giorno del concorso e su facebook), il che, considerati i punteggi che ho riportato nelle singole prove, mi consola parecchio. Studiare a qualcosa è servito, per la precisione a ottenere sette punti su sette quanto a titoli. Però, per me, la lode doveva dare un punto in più (e che diamine), tanto, comunque, non mi avrebbe permesso di entrare in Rai.

E insomma, più scrivo più mi sento sollevata.
Prendere 21 punti su 25 nella prova di radio, per dire, non è poco, considerato che le mie esperienze in materia risalivano al mitizzato stage al gr Rai all'inizio del mio viaggio nel giornalismo (e a poco altro qualche anno dopo, ora che ci penso, con un mio carissimo amico dell'Ifg di Milano, uno che ha saggiamente lasciato perdere il giornalismo diversi anni fa, quando la crisi non era ancora deflagrata).
Mi rode un cicinìn non avere preso manco un punto in tedesco, ma del resto non lo praticavo da tempo immemorabile e solo adesso (nur jetzt!!) comincio a ri-raccapezzarci qualcosa, dopo un'estate di studio matto e disperato (wie schwer ist Deutsch!!).

In inglese me la sono cavata benino (meno di come pensavo, francamente: 6,5/10), ma, ripeto, pure lì, sono sicura che se avessi preso il massimo, sarei stata fuori lo stesso.
A questo punto, spero (francamente, ardentemente) solo che i 100 ammessi siano davvero i migliori.
Lo spero con tutto il cuore perché ho trovato davvero squallido il polemicone sollevato da alcuni di quelli che non hanno superato la prima fase. E poi perché, davvero, di gente brava, motivata e dotata di grinta e di pazienza ce n'è davvero bisogno, in Rai come in altri posti.

Posti, sia chiaro, nei quali non ci si sieda e basta, bensì dotati di sedie con molle molto elastiche in maniera da essere catapultati rapidi nel mondo, per raccontarlo nei modi più rigorosi e originali possibili.
Se i cento entrati alla prima botta (smentisco tutti quelli che dicono che tanto la Rai non li chiamerà mai: non è così, rassegnatevi. LORO lavoreranno presto all'ombra dei cavalli della tv di Stato) saranno in grado di stupire pure me, che me ne starò dall'altra parte dello schermo come al solito, beh, allora vorrà dire che sono dove devono essere.

Da parte mia, continuerò ad ascoltare soprattutto la radio, in attesa di qualche voce nuova che sappia parlarmi con il giusto accento (detesto i conduttori troppo aggressivi, ma pure quelli dalle spiccate cadenze regionali). E se poi nasceranno le newsroom (pare che i tg rai vadano verso un paio al massimo di mega-redazioni), se un sacco di gente con stipendi che personalmente non ho mai sperato di avere, nel frattempo lascerà spazio a qualcun altro oltre il limite dei primi 100 che hanno passato con me l'estate a sperare (preparandosi per bene) in un cambiamento di quelli che davvero ti ribaltano la vita, beh, meglio così.

Dubito, in ogni caso, che lo squarcio nel filo spinato degli eletti si allarghi fino alla zona della classifica nella quale mi sono fermata io: o, se lo faranno, potrebbe, magari succedere tra due-tre anni, ossia il tempo massimo di durata della graduatoria dei 400 aspiranti e non (più).

Io, comunque, non posso permettermi di aspettare tempi così lunghi: nessuno può farlo (potremmo morire per colpa delle emissioni truccate della VW domani mattina), ma tanto meno una che non vede un euro di entrata da mo'.

Quindi adesso che succede?
Non ne ho idea. Come ebbe a dire l'ex sindaco di Fermo (non dico quale) a qualcuno che gli chiedeva forse di piazzargli un nipote: "Checcosa farò".

Per forza.
Grazie, amici, e scusatemi per la lunga assenza.
Tornerò (credo) a essere più assidua.
Scrivere fa parte di me, non c'è niente che possa cambiare questo dato di fatto.

Bis bald (a presto).

sabato 4 luglio 2015

#concorsonerai, presagi di una guerra (ahimè) necessaria


Qualche piccolo segnale premonitore di come dovesse andare a finire l'anteprima di questa storia, lo ammetto, mi era arrivato.
Del nostro amico senegalese Ibrahim detto Rai vi ho già parlato un po' di post fa.
Bene: il suddetto mi ha telefonato il giorno prima della mia gita a Bastia Umbra, nella calura crescente che non ci ha ancora mollati, verso la fiera di Perugia, dove si è celebrato un rito collettivo di biblico sapore.

Sono arrivata al padiglione 7 alle 10 e un quarto. Fresca, relativamente, e determinata a non parlare con nessuno.
Mi sono nascosta dietro agli occhiali da sole di mia mamma (uno dei due modelli che uso abitualmente) e, per i miei parametri, calma, ma anche vagamente incazzata, ho aspettato che facessero entrare anche noi del "varco 10".

Percepivo intorno a me una certa tensione, ma anche una vaga rassegnazione, soprattutto in quelli più vecchi. Come me. O forse ero solo io che proiettavo sugli altri il mio stato d'animo.
"Nella foto ero più giovane", ho detto alla bella moretta che mi ha preso tesserino e carta d'identità squadrandomi bene in viso per essere certa che fossi la stessa persona ritratta nella foto. "Me lo dicono tutti", mi ha risposto dolcemente, facendomi sentire ancora più vecchia e inadeguata.

Ho preso posto in fondo all'hangar di Casablanca - mi domandavo dove avessero spostato gli aeroplani con le eliche (non è vero: me lo sono appena inventato) e mi sono messa in attesa che ci dicessero qualcosa, provando, in verità, un certo imbarazzo intestinale. "Vado o non vado al bagno?", mi domandavo, sempre più incupita con me stessa per il corpo che in quest'ultimo periodo sta facendo un po' troppe bizze.

Alla fine ho resistito usando la mia solita strategia anti-stress: ho scambiato qualche parola con la ragazza alla mia destra, faccia concentrata, aspetto gradevole. "Però con la V fanno presto ad arrivare a noi", dice commentando l'estrazione della prima lettera del cognome dalla quale partiranno per la seconda (e terza) prova.
Chissà se anche lei aveva il presentimento di potercela fare. Chissà se ce l'ha effettivamente fatta. Ignoro come si chiami. Dopo la prova non ci siamo neanche salutate. Meglio così. Troppa confidenza crea solo mala creanza. I detti di una volta hanno il loro perché, date retta a zia Alessandra.

Uscita, mi sono allontanata il più rapidamente possibile dalla fiera, il Bipede tra i coniugi, compagni etc etc in impaziente attesa. Si schiattava di caldo e lui non sopportava nessuno (in particolare i candidati che avevano già finito la prova), dev'essere stato uno sforzo non indifferente farmi da body-guard in questa circostanza. Io, in tutta risposta, mi sono mangiata senza battere ciglio la metà del suo panino direttamente in macchina, manco il tempo di raggiungere un luogo più ameno.

Ma torniamo per un attimo a Rai: mio nipote piccolo, almeno fino all'anno scorso, tutte le volte che lo vedeva gli domandava: "Ma sei Raiuno, Raidue o Raitre?".
Me ne sono ricordata quand'eravamo già a casa, risvegliandomi dal riposino della nonna.

No, non può essere, mi sono detta, riscuotendomi.
E invece è.

Per cui adesso, alla vigilia delle 44 primavere, mi aspetta un'estate di matto studio, con l'assoluta consapevolezza che sarà una vera guerra.

Qualche giorno prima della prova, mi sono iscritta al forum dei candidati su Facebook. L'ho fatto pensando che potessi ricavarne qualche indicazione utile sia su cosa studiare sia sui problemi logistici eventualmente riscontrati da chi era già lì.

Di informazioni ne ho ricavate parecchie, devo ammetterlo, ma su aspetti che non mi sarei mai immaginata.
Per esempio, su quanti siano i professionisti più o meno a spasso, ma questo era, in fondo, scontato.

Tra i molti rosicamenti di chi non ce l'ha fatta, ho notato anche quella tendenza tipicamente italiana al complottismo.
Sinceramente: perché sprecare le proprie energie a interrogarsi su come siano stati redatti i quizzzzz, sui cognomi illustri di quelli che sono passati e sul fatto che tra quelli che ce l'hanno fatta diversi non hanno mai fatto tv?

Una persona ha giustamente fatto notare quel che è: i 400 selezionati si prenderanno a coltellate solo per essere nel gruppo dei 100 che andranno a formare una graduatoria dalla quale si potrà (forse) pescare entro i prossimi tre anni per contratti a tempo determinato.

Detto in altri termini: io potrei (sempre che lo passi) ritrovarmi ad avere il mio primo contrattino in Rai a - minimo - 47 anni.
E nel frattempo che faccio? Forse la colf, che manco mi riesce, la stiratrice (mmmh), la daddy-sitter (quello lo faccio abbastanza bene, pare).

E infatti tra gli amici che hanno declinato il gentile invito al party umbro, ce n'è più d'uno che ha ridato un'occhiata alle proprie priorità, dicendosi: ma figuriamoci, non c'è neanche da bere.

Scherzosamente, una delle mie ex compagne di casa dei tempi (poetici, per forza di cose, visto che sono lontanissimi) della scuola di giornalismo, mi ha detto che vuole "il primo stipendio" come pizzino. Mi ha fatto davvero ridere. Speriamo (nel caso) di arrivarci per lo meno prima della menopausa.

A beneficio di chi non conosce tutta la mia storia, comunque, io in Rai ci sono stata, ed è anche per questo che mi fa una certa impressione pensare di rientrarci fosse anche solo per espletare fino in fondo il mio ruolo di candidata.

I miei primi stage sono stati a RadioRai. Poi ne ho fatto uno nel programma di Enzo Biagi, al quale è seguito un contrattino.
In seguito ho preso altre strade, ma in questi giorni mi sono ricordata di come ero e di come non sono più.

Il mio cognato tedesco ha fatto un'osservazione giusta: forse, ha detto, neanche la Rai è più quella di quindici anni fa. E già. Bisognerà adesso capire in che modo siamo cambiati lei e io e se possiamo eventualmente andare d'accordo.

Finisco con un altro segno premonitore, stavolta auto-indotto.
Lungo la strada per Bastia, non so come, mi è venuto in mente Francesco Guccini.
Mi sono ricordata in particolare della canzone che si chiama Autogrill (ecco perché: ne abbiamo agognato uno per parecchi chilometri per necessità fisiologiche. Bisognerà che avvisi gli addetti ai candidati di mettermi a disposizione un pitale, mentre svolgo le mie prove. Sennò pannolone e stop).

Mio marito detesta tutta la musica italiana, per cui, snobbandomi, ha subito commentato: "Che palle".
Io gli ho ribattuto che uno dei brani inediti di Tracker del nostro amato Mark Knopfler (per la precisione My heart has never changed) parla più o meno di quel che dice il Guccio nel suo. Certo, musicalmente siamo piuttosto agli antipodi, ma io, sotto sotto, al Francescone nazionale sono affezionata per ragioni sentimentali.

Bene.
Una delle domande del quizzone era: Chi ha composto l'album live "Tra la via Emilia e il West". Guccini, ovvio.
Un sacco di candidati l'ha cannata. Io no.

Non vi dico (ma sì: ve lo dico) che errori del C. ho fatto io.
Le Déjeuner sur l'herbe? Ovviamente è di... no, mi vergogno troppo se vi rivelo quale risposta ho segnato. Mamma mia. Mamma Rai mia.

Però, a parte qualche svarione davvero imbarazzante, mi sono riconsolata: farmi studiare, alla fine, a qualcosa è servito.

Adesso sono, come dicono gli spiritosi, volatili per diabetici.
Spero solo che mi passi questa dannata febbriciattola psicomatica.
L'avevo detto io che sarebbe stato meglio se non mi convocavano.

Il buon Rob Brezny, quello degli oroscopi di Internazionale, sostiene che devo, una volta buona, agire non da cancerina. E' una parola. Alla preselezione - ebbene sì - ce l'ho fatta, ma mo'?

Mo' vediamo.
Intanto mi godo, per così dire, ancora per qualche ora il meritato riposo (indotto dalla febbre, ahimè).

E poi
à la guerre comme à la guerre.

Chi l'avrà detto?
Meglio che controlli, va.
Per il prossimo quizzone, stavolta da Gerry.

mercoledì 15 aprile 2015

A scuola di giornalismo... con la sottoscritta!


Sarò sincera (per quanto possibile quando si scrive): nell'autopromozione io sono una schiappa.
 E tuttavia, dato che sono in ballo, conviene ballare per davvero.
 A questo proposito, tra l'altro, giusto stamattina ho letto dell'esperienza di Mauro Sandrini, il quale, per non perdere mai la forza di lanciarsi in nuovi progetti, semplicemente, balla. Liberamente. Come gli viene.

L'ho scoperto leggiucchiando Facebook, come faccio praticamente tutti i giorni, a quasi tutte le ore, in modo a volte un tantino compulsivo.
I social network - ormai diventati a tutti gli effetti social media - hanno completamente cambiato il mio modo di apprendere le ultime news. Poi, certo, essendo già vecchina, quando voglio approfondire, continuo a ricorrere alla carta stampata.

Quel che tuttavia leggo scrollando banalmente la mia umile bacheca, è di gran lunga più denso di contenuti sinestetici di quanto riesca a cogliere scorrendo le righe di un quotidiano.
E dire che non amo particolarmente stare davanti allo schermo: dopo un po' di tempo con il fondoschiena costretto sulla sedia e il collo proteso in avanti come un formichiere (giraffa proprio no), mi prende una smania di uscire a prendere aria che mai mi coglie nelle ore (mezz'ore, ahimè) che passo sui libri.

Non uso molto Twitter, lo ammetto: ma se Facebook mi fa quest'effetto così immersivo e insieme così ottundente, posso solo immaginare che cosa mi succederebbe se mi facessi fulminare dalla passione per i cinguettii.

Da operatrice - a tempo perso - dell'informazione, non posso altresì (!) ignorare i cambiamenti del mestiere che ho scelto di inseguire nell'arcaico 1999, superando l'esame d'accesso all'Istituto per la formazione al giornalismo "Carlo De Martino", ai tempi finanziato direttamente dall'Ordine dei giornalisti della Lombardia, dal 2006 diventato master in giornalismo dell'Università degli Studi di Milano, con il nome, probabilmente più conosciuto, di Walter Tobagi).

Come sia cambiato il lavoro del giornalista dall'era pre terzo millennio non devo certo dirlo io.
Dubito, tra l'altro, che, allo stato attuale, si possano fare previsioni certe su come evolverà ulteriormente.
Per quanto riguarda me, non posso quasi quasi fare previsioni nemmeno su oggi, figuriamoci se mi metto a tromboneggiare sul destino dei pennivendoli del dopodomani.

Sono stata però coinvolta dall'Università del tempo ritrovato e dell'educazione permanente delle Valli del Tenna e dell'Ete (in sigla, Utete) che ha la sede centrale a Grottazzolina, un attivissimo paese in provincia di Fermo, come docente di giornalismo e comunicazione multimediale, per cui, qualcosina devo pur scrivere per presentare il mio corso.

La mia impostazione è pratica (chi ha partecipato ai miei laboratori di giornalismo all'Itis Montani lo sa... almeno spero!) e tenta di rispondere alla seguente domanda: come si informa/comunica oggi? Qual è il confine tra informazione, marketing e puro narcisismo oggi che tutti, potenzialmente, abbiamo modo di digitare, fotografare, filmare, discutere e incontrare, troppo spesso solo virtualmente, tutto il mondo con poche strisciate di dita? 

Detto in altri termini, come si riconosce un buon pezzo, servizio multimediale, tweet/post etc etc da una ciofeca?
Chi parteciperà, dovrebbe, alla fine, almeno farsi un'idea di quel che funziona e di quel che non funziona del loro modo di scrivere, twittare, titolare e via discorrendo, comparando quanto ideato con le loro mani con quanto di ottimo c'è in giro sul Web.

Il mio sogno? Spingere più di qualcuno - dotato di sufficiente incoscienza, nonché di denaro di famiglia - a tentare la strada del mestiere più inutile del mondo, se è giovane. 
Se è adulto, renderlo più consapevole di come funziona questo inutile straordinario mestiere per orientarsi meglio su cosa leggere, guardare ed eventualmente imitare (potendolo fare: non tutto è replicabile, proprio no).

Chi verrà alle mie cinque lezioni di due ore l'una, ogni mercoledì di maggio e l'ultimo di aprile, dalle 21 in poi, nella sede dell'Utete a Grottazzolina, come leggete nel volantino sopra ripubblicato, potrebbe, alla fine, addirittura divertirsi.

Ve lo premetto: ho una vocina un po' sottile che diventa quasi un ultrasuono quando sono costretta a tirarla fuori, ma sorrido assai e ho molta voglia di incontrarvi e di sentire quello che voi vi aspettate da me. Per quanto possibile, cercherò di soddisfare le vostre richieste.

E adesso, forza, tutti a iscrivervi! Non ve ne pentirete.

;-)

Thank you very much, folks.

martedì 22 luglio 2014

Il mio sogno verde comincerà





Stamattina sognavo di piangere al telefono con un tipo che non vedo né sento da anni. Si tratta di una persona con cui ho lavorato anni fa, quando ancora credevo nel giornalismo sociale.
Mi spiace, ma non ci credo più, anche se le ultime cose che ho fatto hanno più o meno riguardato lo stesso ambito dal quale sono partita.
Tutto ciò che scrivo, lo scrivo onestamente, sia chiaro, ma mi sono ormai convinta che non esista il giornalismo dei buoni e quello dei cattivi. Esiste, sempre e comunque, il buono e il cattivo giornalismo. E il mio è un buon esempio di lavoro fatto con il cuore e la testa, ma non è giornalismo.

Non lo è semplicemente perché non scrivo per nessuna testata importante, che è l'unica maniera per far passare il proprio messaggio. Almeno in una società come la nostra, sempre più rapida e poco incline all'approfondimento. Chi approfondisce, voglio dire, è un numero limitato di persone; io stessa, quando ho più tempo, mi accorgo di quante cose ignoro dell'attualità.

Nel mio sogno chiudevo la telefonata dicendo "tanto cambierò lavoro, quindi che cosa vuoi?". Però piangevo, piangevo come una bambina, consapevole che il sogno degli anni d'oro se ne sia andato con il tempo volato via.

Adesso ne comincerà un altro. I buddisti sarebbero fieri di me per questa mia auto-iniezione di coraggio. Sì, ne comincerà uno nuovo, verde, come uno dei miei colori preferiti. Più sereno, più pratico, anche.
Cambierò lavoro. Ci proverò con tutta me stessa. Sperando di poter continuare comunque a scribacchiare, questo sì. Perché senza le lettere rotolanti io non ci so proprio stare.

Non chiedetemi che cosa farò. Sono curiosa anch'io di scoprirlo.
Ma il sogno verde sta per arrivare. Anche se questa canzone parla di un commiato, non si tratta di un addio, bensì di un arrivederci a un'esperienza che doveva comunque finire.
Tutto finisce, tutto passa. E tutto ricomincia sotto un'altra forma. E da un'altra parte.
Vero, mamma?

lunedì 20 maggio 2013

Il giornalismo di domani e il mio destino


Del bigliettino che riporto sopra mi fa tenerezza soprattutto quel "tutto ciò", sia per il tipo d'italiano utilizzato (i ragazzi di oggi usano ancora "ciò"?) sia per quel "tutto" che onestamente, con vera modestia, dubito essere molto.
Come sempre, dal 2006 a questa parte, tranne un anno saltato per problemi organizzativi, a imparare qualcosa sono stata io, sul mestiere che credevo di aver scelto e sugli adolescenti.
In un mese, del resto, si fa appena in tempo a gettare qualche seme, ammesso di riuscirvi, e a memorizzare, se non i nomi, almeno i visi di questi giovanissimi, in massima parte maschi, che ho visto avvicendarsi anno dopo anno nell'aula multimediale dell'Iti Montani di Fermo, una scuola dal passato illustre, che ancora adesso, nonostante lo sfascio tanto chiacchierato della scuola pubblica, continua ad attrarre molti studenti.
Che cosa ho imparato in questi quattro venerdì passati con loro e con il quinto condotto da mio cognato Massimo Del Papa (ebbene sì: si fa tutto in famiglia)?
Che, come sempre, come da sempre, se adeguatamente stimolati, i ragazzi rispondono. Che anno dopo anno mi sembrano sempre più piccoli e che, al contempo, il giornalismo è invecchiato insieme con me. Parlo ovviamente del mestiere che ho conosciuto anni fa, prima come lettrice de "La Repubblica", imbeccata dal prof di storia e filosofia (ma a sedici anni che cosa leggessi di quel quotidiano che esibivo fichettisticamente in classe non saprei dirlo), poi come pivella con manie di grandezza (il mio primo pezzo: un'intervista a un protagonista minore dell'intricata vicenda di Ustica: che ardire), alla macchina per scrivere di mio padre. Infine, a 28 anni, è arrivata la scuola di giornalismo. Il mitico (non per me: fino al giorno dell'orale ignoravo quanto fosse ritenuta importante quella scuola) Ifg. Liberarsi dalla sindrome della stagista di lusso (si fa per dire) mi ha richiesto vari anni, ma alla fine è andata. E solo adesso, a distanza di oltre dieci anni, ho capito alcune cose su questo lavoro così appassionante (inutile nasconderlo: è sì un mestiere che fai, ma un po' "una/uno che scrive" ci nasci anche) e così difficile. Tolti gli evidenti problemi di reddito di cui parlo ormai da un po', è infatti sempre più complicato orientarsi in questo flusso costante di informazioni, boutade, inezie, polemiche sterili e scoop reali, tanto più se sei sciolta da contratto di lavoro dipendente e vorresti proporre qualcosa a qualche testata.Volete che ve lo dica? Ormai è più di un anno (ma forse anche di più) che non penso di vendere alcunché ad alcuno. E sapete perché? Perché non riesco più a capire quali rutilanti proposte potrebbero essere appetibili per qualunque testata nazionale.
Uno dei miei ultimi tentativi è stata un'intervista (già scritta) al mio nume Paolo Conte. Mi sono sentita rispondere che "non erano interessati a cose così", con un leggero tono sprezzante. Peccato che poi su una rivista dello stesso gruppo sia uscito analogo pezzo di una loro collaboratrice. D'altronde, è sempre stato così: sei sei fuori, ti occorre molto tempo per riuscire ad accreditarti. La vera grande differenza rispetto al passato? E' che adesso i collaboratori sono sempre più merce rara, per problemi interni ai medesimi giornali mainstream, tutti, chi più chi meno, in stato di crisi.
Il risultato è uno solo e l'ho potuto verificare con i miei occhi sfogliando (anzi: leggendo) più giornali della mia media sempre più bassa proprio in questo mese di preparazione delle lezioni a scuola. Tolta la solita pagina politica, i giornali sono sempre più simili, più piatti, a volte pure più sciatti.
Non è una grossa novità, lo so. Però credo proprio che ormai ci siamo: parecchie testate cartacee spariranno e, francamente, è giusto così. Dopodiché, certo, le novità ci sono, e sono anche parecchie. Non essendo abbonata a Rsera, per esempio, non posso sapere con certezza come sia cambiata dallo scorso anno, ossia dal debutto, avvenuto proprio durante il precedente ciclo delle mie lezioni. Però ricordo che mi aveva colpito per l'originalità della grafica e poi per la multimedialità del grosso dei suoi contenuti. Se c'è un settore destinato a crescere e forse anche a dare lavoro, insomma, è proprio questo. Chi ha uno smartphone, una fotocamera neanche troppo ingombrante ma con molti pixel e la videocamera incorporata, potrebbe diventare molto appetibile per i media di domani. A un patto. Che ci sia qualcuno in grado di capire ancora la differenza tra un servizio fatto bene e una roba amatoriale buttata là. Se mai, in definitiva, riuscissi a rientrare con entrambi i piedi in questo mondo che seguo con un occhio solo da ormai troppo tempo, dovrò fare i conti con una schiera sempre più fitta di giovani giornalisti smanettoni e/o nerd o jeeg (ho scoperto solo da poco la sottile differenza tra le due parole, che comunque indicano sempre soggetti un po' in fissa con internet e hi-tech in genere), dei quali solo una piccola parte, probabilmente, saprà com'era il giornalismo delle origini, quello della Fallaci e di Montanelli, tanto per intenderci, ma che potrebbe anche non capire come scrivo e parlo io, che dalla Fallaci e da Montanelli sono lontana anni luce.
Non voglio tromboneggiare, però è un fatto di cui ormai sono più che consapevole: alla mia età, non ancora troppo anziana, sono comunque più vicina alla generazione dei miei genitori di quanto non lo sia a quella dei ragazzini che ho conosciuto in questi anni. In classe tutti avevano lo smartphone, qualcuno pure il tablet. Un gruppetto di loro ha partecipato a un progetto e-book, un altro stava girando proprio in queste settimane un cortometraggio. Chi li ha seguiti ne capiva qualcosa del primo e del secondo? La domanda è fondamentale ed è collegata al mio destino professionale. Anche ammesso che riesca ad accreditarmi come smartphone-reporter, come esperta di microblogging o di qualche altro new media prossimo venturo, chi guarderà i miei servizi, leggerà i miei micro-post, sarà in grado di capirli? Non ho una risposta, tutt'al più una speranza, ossia: certo che ci riuscirà. Se così non fosse, farei meglio a imparare un mestiere pratico (la zappa posso ancora tenerla in mano) relegando le velleità scribacchiniche al tempo libero, quello che oggi ho ancora in abbondanza.
Come concludere un post così?
Ringraziando Massimo Del Papa, il cognato di cui sopra, per avermi deliziato con la cronaca di Montanelli sull'esondazione dell'Arno, e anche per il suo tono, visibilmente scazzato, ma proprio per questo molto applaudito, con cui ha lanciato il suo messaggio alle giovani generazioni che affollavano l'aula magna del Montani, lo scorso venerdì: "Potete fare tutto, avete mezzi che noi non avevamo", ha detto in più passaggi. Prima, però, studiate. E leggete. E forse un domani qualcuno di voi mi darà lavoro, compatendomi anche un po'.

mercoledì 26 settembre 2012

Da Jane a Cita, in attesa che cominci questa benedetta seconda vita



Il precedente post deve aver scatenato la ubris divina: "Pensi di somigliare, tu o tua madre, a Jane Fonda?", si sono detti gli dei di qualche incerto Olimpo, "E allora beccati una para-influenza rammollente".
Così è stato. Se lunedì decantavo i prodigi psicofisici delle mie insegnanti di aerobica-step-gag-squat etc etc, oggi mi sento come se mi avesse schiacciato un caterpillar.
Passerà (per forza), però lo stato di abbattimento e il ronzìo delle orecchie mi ha portato all'ennesima amara riflessione sul mio stato di non-lavoro, meglio, di non-disoccupazione assoluta.
Ogni tanto rilancio gli appelli dei colleghi precari che stanno ancora in qualche modo a galla, ma in verità mi sento sempre più lontana da un mondo del quale, alla fin fine, ho fatto parte solo per pochi anni. Su New Tabloid, il mensile dell'Ordine dei giornalisti della Lombardia, c'era un interessante primo piano sull'uso di Twitter per i giornalisti. I più bravi, pare, sono definiti "twitteri". Al di là della forma, leggiucchiando (mentre mi misuravo pateticamente la febbre che non ho) oltre, mi sono vista allo specchio: sono Cita non solo nel fitness (almeno per questa settimana non credo che riuscirò a tornare in palestra), ma ancora di più mi sento e temo mi sentirò (purtroppo non solo per sette giorni) una specie di australopiteco dell'informazione, per la mia distanza sempre più marcata dai nuovi media. Non che non li bazzichi, ma sinceramente non riesco a vederne il risvolto pratico per la mia vita e quindi per il mio status di pennivendola poco venduta.
Non è una lamentela da canto (diurno) di venditore d'acqua calda di bracardiana memoria. Temo sia la realtà dura e cruda. Non sono mai stata una che sta sul pezzo, nel senso moderno della brutta espressione gergale. Il punto è che - probabilmente - non mi va neanche di esserlo, se questo significa cinguettare tutto il giorno o anche solo seguire compulsivamente tutte le news.
Oggi sono rientrata sul mio profilo Twitter (sul quale mi limito a rilanciare i post che scrivo sui miei blog o al limite le boiate che pubblico su Facebook), ma mi sentivo spersa, un po' come la nostra gatta che non ha ancora capito di essere stata adottata.
Sono una specie di Heidi anch'io, ma in fondo lo sono sempre stata.
Per combattere la sindrome dello spaesamento, mi servirebbe - ne sono consapevole - un ambiente fertile e stimolante intorno a me, ma tolte le esperienze preziosissime che continuo a cercarmi come l'aria, poi me ne ritorno qui e la mosciaggine si reimpossessa di me.
So bene di essere condizionata dallo stato di salute attuale, però ho bisogno di uscire, da questa casa, ma ancora di più da un guado che mi fa piangere di amarezza quando mi capita, come m'è successo giusto qualche giorno fa, di ritrovare vecchi esercizi di stile decisamente buoni, rimasti lì a impolverarsi insieme con il mio primo, più che obsoleto portatile.
Mio padre me ne ha da poco regalato uno nuovo: per la precisione è il terzo che mi elargisce.
Quanto vorrei che mi servisse a buttarmi per davvero, o almeno a togliermi quel senso forse molto più antico di me di fallimento che mi ha fatto fuggire da luoghi più faticosi, ma decisamente più vivi di quello in cui ho scelto di rifugiarmi.
Mi scuso per il tono di autocompatimento di queste ultime righe, anche perché so mi scuoterò (in fondo l'ho sempre fatto), però non ho voglia quasi mai di sterili rivendicazioni. Ho talento, di questo sono sempre stata convinta, ma non sono un genio e se anche questi ultimi fanno fatica nel nostro Paese, figuriamoci quanta ne fanno quelli come me anche con un pizzico di fiducia e di incoscienza in più di quanta ne abbia mai avuta io.
Il tempo, comunque, non scorre mai invano. Mi fa soffrire, ma sono contenta per lo meno della mia consapevolezza.
E poi la vita non è finita. Magari sta solo per cominciare un secondo tempo.
Basta solo aspettare. E tornare in palestra per allenarsi ad affrontarlo con i muscoli ben caldi.

sabato 19 maggio 2012

Dedicato alle ragazze di Brindisi e a tutti gli adolescenti d'Italia


Non ho fatto in tempo a memorizzare tutti i nomi, però le loro facce dubito che potrò dimenticarle in fretta. Soprattutto, non credo che potrò mai smettere di associare le risate e gli applausi carichi di allegria della folla di adolescenti assiepati nell'aula magna dell'istituto tecnico industriale di Fermo, alle ragazze del professionale di Brindisi rimaste coinvolte nel vile attentato di stamattina. Al tg3 sentivo che se l'ordigno fosse esploso qualche minuto dopo, la strage sarebbe stata ancora più grave. Proprio in quegli attimi, infatti, sono soliti arrivare i pullman che conducono le studentesse (la stragrande maggioranza degli iscritti all'istituto brindisino) dai paesi limitrofi. Anche a Fermo succede qualcosa di simile: i più mattinieri, di solito, sono proprio quelli che convergono nella cittadina marchigiana da più lontano, catapultati giù dalle "corriere", come le chiamano da queste parti, con le facce ancora mezze imbambolate. Per svegliarsi e reggere le cinque e passa ore di lezione, l'unica maniera è fare colazione, magari al bar della scuola, come stavano accingendosi a fare, probabilmente, Melissa Bassi, per ora l'unica vittima dell'infame attentato, e Veronica Capodieci, la seconda, mentre scrivo questo post, ancora viva, pur se gravissima, nonostante le notizie ferali di qualche ora fa.
Si può morire a sedici anni in un modo così atroce e insensato?
Abituati come siamo alle cosiddette stragi del sabato sera o tutt'al più ai tragici scherzi della sorte che a volte interrompono vite ancora troppo giovani, non si riesce a credere che stia davvero tornando quella rabbia sociale, direi più pre che post, che quando ero ancora bambina ha "azzoppato" il futuro di molti della mia generazione.
Perché bisogna dirlo chiaro e tondo: chi ammazza in questo modo, non importa se per mano della mafia o del terrorismo nero/rosso o di qualsiasi altro colore, uccide l'Italia e la speranza che possa diventare un Paese normale. Altro che G8, altro che avere le carte in regola. No, egregio professor Mario Monti, il nostro Paese non le ha e seguiterà a non averle  finché non finirà la teoria di commemorazioni e di funerali di Stato in ricordo di morti che tuttora urlano giustizia.
Quanta ipocrisia in questo Paese, quella sì, davvero, non manca. E quanta retorica.
Ero contenta, stamattina, di sentire i ringraziamenti di quei ragazzi conosciuti per pochissimo tempo (solo otto ore di lezione, ciascuna da due), eppure bastevole a farmi trafiggere dai loro sguardi vispi e insieme dolci. Mentre consegnavo a ognuno di loro l'attestato di partecipazione arrotolato come un diploma, ripensavo alla gioia che mi ha dato stare in loro compagnia e ancor di più alla dignità che sono stati capaci di restituirmi, inconsapevolmente, standomi ad ascoltare fosse pure per qualche minuto di seguito.
Tra qualche anno, se tutto andrà bene, Nathalie, Sara, Chiara, Paolo, Mirko e tutti gli altri prenderanno ciascuno la propria strada e io mi auguro davvero di cuore che sia la più luminosa possibile, che facciano o meno carriera, usando la parola che circolava stamattina sulle labbra di vari invitati.
Ma voglio dedicare i fiori che mi hanno regalato alle ragazze di Brindisi: assieme ai coetanei di Fermo e di tutte le altri parti d'Italia, vi scongiuro, provateci a cambiare l'Italia.
Noi quarantenni abbiamo bisogno della vostra energia, della vostra freschezza. Solo così, forse, il sacrificio di Melissa potrà essere, molto parzialmente, riscattato.

venerdì 4 maggio 2012

Il futuro dei giornali e della pulizia dei vetri


Tutto considerato, una loro utilità i giornali ce l'hanno.
Non compro pesce fresco, ma ancora usa dire che sono ottimi per incartarlo. Di certo sono anche assai buoni per sgrassare i vetri. Una perfetta massaia lo sa, e anche se non lo sono (ancora per poco), ogni tanto pure io mi dedico alle pulizie approfondite e la scorta dei quotidiani mi fa molto comodo.
Quel che mi più preoccupa (oltre al reddito incerto), però, è che tra un po' di giornali ce ne saranno sempre di meno.
Ne ho avuto la certezza ieri, quando ho ascoltato/visto l'incontro tenutosi lo scorso 29 aprile a Perugia al Festival di giornalismo. Meraviglie dello streaming, veramente: grazie ai nuovi mezzi, mi è sembrato per un'ora e mezza di essere lì tra gli astanti, a sentire chiacchiere e considerazioni da giornalisti di vecchia e giovane formazione. Chi vuole, lo trova qui:

Sinceramente: tutti i torti Francesco Merlo non li ha quando sostiene che sulla Rete ci sono molti "bloger" (chi ha trascritto il suo intervento si è stolidamente fissato sulla pronuncia adottata da una delle più importanti firme de La Repubblica. E vabbè) che con il mestiere non hanno molto a che fare. Certo, magari definirli tutti (o comunque molti) torvi e pronti solo a far le pulci ai titoli, seduti comodi alle proprie scrivanie, è una semplificazione un po' fastidiosa, considerato che qualcosa di molto simile fanno molti colleghi del medesimo Merlo, che - vi assicuro - abbondano ancora nelle redazioni più "embedded".
Ad ogni modo, Merlo & co (perché di certo non è il solo ad aver criticato i blogger), forse, si lasciano andare a giudizi vagamente velenosi perché sono consapevoli di essere - chi più chi meno - dinosauri insidiati ogni giorno sempre di più da ragazzini che considerano anche i blog roba per vecchi e che di certo non hanno quasi mai letto un loro pezzo sul cartaceo (sempre ammesso che siano riusciti a sciropparselo tutto, una volta che l'abbiano scovato sul Web).
Anche per me che, a occhio, ho una quindicina d'anni meno di Merlo e Cresto Dina, i due "vecchi" invitati al dibattito sopra linkato, è faticoso seguire le news online e non solo perché mi serve la carta per pulire i vetri (o da mettere sotto il lavandino della cucina).
Sono altrettanto convinta che nel giro di pochissimi anni - forse anche meno - i dinosauri saranno costretti a una radicale rivoluzione copernicana delle proprie redazioni (Cresto Dina ricorda che da loro l'online è ancora all'ultimo di una palazzina di sei piani e che per accedervi bisogna pure passare da un altro ingresso. Veramente incredibile).
L'aspetto. Sperando - onestamente - di poterne ancora fruire anch'io (nel frattempo rubo un ipad in un applestore. Ma forse facevo meglio a non dirlo. Ora mi mandano la finanza).
Sempre ammesso che abbia ancora la forza di perseverare in una professione ogni giorno più fluida e, in certi casi, più approssimativa, in cui non si sa bene che cosa conti per esercitarla al meglio, se una buona penna, il fiuto per le notizie e/o la massima padronanza di vari mezzi audiovisivi, per postare in tempo reale... che cosa? E' proprio qui sta il punto: che cosa sarà "notiziabile" un domani? Le intercettazioni rubate qui e là dal collaboratore del giornale di Scalfari, Francesco Cocco, in alto tra i relatori del dibattito di Perugia, oppure l'infografica che tanto fa impazzire il direttore de Linkiesta, Jacopo Tondelli, quello con gli occhialini?
E come potrò io dalla provincia, ammesso che continui ad abitarci, dare il mio contributo?
Mi faccio tutte queste domande e le condivido su questo spazio perché oggi ho concluso il ciclo di quattro lezioni ad alcuni ragazzi che frequentano il terzo anno di una scuola tecnico-industriale e che per scelta (più che altro per avere crediti formativi, credo!) si sono sciroppati otto ore con la sottoscritta.
L'anno scorso non mi avevano chiamato, dopo cinque edizioni di fila, con mio grande rammarico. Perché, al di là del denaro che comunque mi daranno, "insegnare" ai ragazzi su materie come queste mi fa ricordare con quanta passione io abbia scelto, ormai più di dieci anni fa, di sostenere l'esame d'accesso all'ex Ifg di Milano.
Negli anni, la mia situazione lavorativa è cambiata più volte, di pari passo con i mutamenti socio-economici dell'Italia e del mio settore. Che cosa potevo raccontare quest'anno?, mi sono detta nel preparami agli incontri con loro. Che cosa potevo tenere dei miei vecchi appunti e che cosa cestinare?
Conoscendo quanto poco si scriva nelle scuole, ho mantenuto le esercitazioni sulle brevi e sulla titolazione. E tuttavia ho dovuto introdurre delle modifiche anche sulla parte "hardware" del mio laboratorio, perché sempre di più le news vanno lanciate anche su altri mezzi e con altri formati.
Insomma: mi sono resa conto che il mestiere sta cambiando e moltissimo. E che forse, ma lo dico piano, per le nuove generazioni si apriranno nuovi spazi oggi non del tutto immaginabili.
Resta però altrettanto vero quel che ha detto Edward J. Murrow, anchorman della Cbs cui George Clooney ha dedicato il bellissimo Good Night and good luck che dietro la tv (e oggi diremmo smartphone, tablet etc etc) ci sono le persone e le idee, libere e indipendenti, da veicolare con chiarezza, competenza e onestà intellettuale, altrimenti tutti questi mezzi non sarebbero altro che ammassi di fili elettrici e di bit.
E se c'è qualcosa di cui sono ancora fieramente consapevole è della grande responsabilità etica di chi usa le parole per vivere. Ecco: questo non è cambiato né dovrà cambiare.
Parola di giornalista-bloger per niente torva nonostante l'incerto destino.