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lunedì 20 ottobre 2014

L'energia vitale di mia mamma e l'intelligenza di Cristina Donà


Mio padre non mi ha riconosciuta. L'ha guardata, piccina e scuretta tra le mie dita, e ha detto: "e chi è?". Ma come chi è?
A mia madre non sarebbe mai successo.
Ho ritrovato questa fotografia in un porta-gioie sepolto in fondo all'armadio, sotto i suoi vestiti che dovevo selezionare.
Confesso di aver provato più ansia che dolore: man mano che soppesavo fogge e modelli degli abiti più vecchi di mia mamma, mi sentivo quasi come un addetto qualunque del Mercatino, alla ricerca di eventuali falle nelle stoffe.

E poi c'è stato anche un momento divertente: accanto al porta-gioie bianco avorio, lavorato come un ciocco di legno intagliato, c'era una busta rossa rettangolare, di quelle che un tempo contenevano gli Lp. La prendo, convinta di trovarvi per l'appunto qualche vecchio 33 giri dei miei. E invece no.
Apro la scatola quadrata bassa, dalla copertina rigida, e chi ti rivedo? Juan Del Diablo, alias Palomo-qualcosa, l'attore della celebre soap opera Cuore Selvaggio, da mia madre amatissima. Raffigurato in pose vagamente sexy, una per ogni mese dell'anno 1995, il capelluto attore prematuramente scomparso mi ha strappato un sorriso.
La scatola conteneva anche un cd di sue canzoni, che il giorno dopo ho fatto partire dal computer di mio padre. Sentendo la musica, quest'ultimo è venuto a vedere: "che stai a fà"', mi ha chiesto.
Gliel'ho spiegato.
Ho buttato il calendario, ma non il cd.

Nel 1995 mia mamma aveva 53 anni: da come me la ricordo io, pensando almeno a una foto di tre anni prima che ho ritrovato per caso non rammento più dove negli ultimi mesi della sua vita, aveva pochissime rughe sul suo viso magro e allegro.
Forse proprio per questo motivo, chissà, ai tempi di Cuore Selvaggio sognava ancora l'amore romantico, forse pure la passione, nutrito anche da una grande attrazione per i paesaggi esotici e colorati.
Ricordo che quasi per giustificarsi della sua simpatia per Juan e per la storia con la sua amante fedifraga, mi diceva con foga che le piacevano moltissimo le ambientazioni: il Messico doveva apparirle una specie di Eden dei desideri perduti.
Forse proprio in quel periodo, ma non ne sono certa, le regalammo anche un dizionario di spagnolo o forse un manuale.
Molti anni dopo, dopo l'avvento del satellite, aveva preso l'abitudine di guardare le soap direttamente in spagnolo. Orgogliosa, mi diceva di aver imparato anche qualche "parolina".

Proprio gli ultimi mesi le ho dato in prestito il mio manuale di John Peter Sloan e insieme abbiamo fatto anche qualche esercizio.
Era malinconica, mia mamma, e anche un po' bambina.
E profondamente innamorata di noi figlie.

Rivedermi in quella foto-tessera così gelosamente conservata in fondo all'armadio, in mezzo a strani e disparati oggetti (la chiave di una camera, non so quale, un anello spezzato, dei bottoni spaiati), affianco al calendario di Palomo, mi ha intenerito profondamente.

Non ho pianto: le uniche lacrime che stavo cominciando a versare sono state ricacciate indietro dalla telefonata di mia zia. In quel momento stavo guardando un altro porta-gioie, quello sul comò nel quale io stessa ho depositato la sua fede e il suo orologio, accanto a un'altra foto-tessera, sempre vecchia, stavolta di mio padre, e bigiotteria varia.
Scavando, ho tirato fuori una strisciolina di carta di giornale su cui c'era scritto "Santurbano senza rivali". Ho sorriso pure lì. Non ho invece potuto trattenere la tristezza davanti all'aggiunta a pennarello di mia mamma sulla sua "intelligenza sopraffina". Scherzava spesso in questo modo con mio padre.
La telefonata è sopraggiunta proprio in quel momento, per cui niente pianto, giusto qualche lacrima sugli occhiali.

Stamattina ho riascoltato la mia telefonata con Simona Atzori, la ballerina dalle braccia rimaste in cielo, come aveva scritto Candido Cannavò, la quale ha dedicato il suo secondo libro, intitolato Dopo di te, alla mamma scomparsa quasi due anni fa.
Tra le cose intelligenti che mi ha detto c'è proprio la questione della durata del lutto, delle ondate che lo compongono, ciascuna con modalità e tempi differenti per ognuno di noi.
Oggi pomeriggio dovrò scriverla, ma prima di fissare sulla carta il suo percorso, verso cui provo grandissimo rispetto, ho sentito forte l'urgenza di ripassare di qua e fissare quel momento, uno dei tanti che stanno segnando il mio "dopo di te".

Ieri sera ho assistito al bellissimo concerto di Cristina Donà e Saverio Lanza nel teatro comunale di San Ginesio, e la mia mente è corsa a lei, che ha fatto in tempo a vedere la sintesi dello spettacolo di Massimo dedicato a Enzo Tortora, tenutosi la scorsa primavera nel medesimo luogo. Il suo entusiasmo commosso mi aveva, adesso posso ammetterlo, un po' sorpreso, conoscendo la sua scarsa propensione a lasciarsi andare alle emozioni più forti.

Eppure, nel suo intimo, amava eccome il coinvolgimento forte: altrimenti non avrebbe conservato per così tanti anni Juan Del Diablo. E anche me, in quella fotina bellissima, come possono essere solo i bambini.

Era dolce, mia mamma, oltre che molto aspra, quando voleva esserlo.
Era viva, era generosa, e attraversata da forti, fortissimi sentimenti.
Possedeva un'energia vitale che penso di aver ricevuto in eredità.
L'energia di cui parla Cristina nelle sue canzoni, quella che ci mette nell'interpretarle, donandosi (letteralmente) al pubblico con grande intelligenza.
Solo chi ha molto sale in zucca e forti ideali, voglio dire, è in grado di svelarsi nascondendosi.
Ed è forse questo il segreto del fascino vero, di quello che vince il tempo, molto più di una buona crema anti-rughe.

Ringrazio molto la vita per avermi dato una madre così e un gusto, posso dirlo, non facile da accontentare.
Ringrazio Cristina e il suo partner musicale per avermi mostrato concretamente che cosa significhi fare bene, molto bene, quello per cui si è nati.
Anche mia mamma è stata un'ottima maestra. Ed è una gran cosa essere sua figlia.


Ciao, mamma.

domenica 7 settembre 2014

Più forte del fuoco

Sembra che Cristina Donà, la mia scoperta di questa strana estate (in verità, è merito della mia ex compagna di liceo, Simona, se l'ho conosciuta. L'ho già ringraziata una volta, lo faccio di nuovo) verrà da queste parti verso ottobre. Dovrebbe suonare/cantare al teatro di San Ginesio, in provincia di Macerata, lo stesso in cui si sono esibiti mio cognato e suo fratello, detto anche (quest'ultimo) il Bipede Paolo. Ora che ci penso, uno degli ultimi discorsi fatti con mia mamma è stato proprio sullo spettacolo dei DelPapa boys e sulla bellezza di quel piccolo teatro di provincia. E insomma, vorrei andarla a sentire anche per questa ragione. Spero di non dovermene pentire.

Anche perché le sto per affidare un ruolo davvero importante.
Dedico una delle canzoni del suo ultimo album alla mia mamma, a tre mesi dal nostro (chissà se solo figurato) addio.
Si chiama Più forte del fuoco (sotto nella versione unplugged) ed è stata a sua volta dedicata dall'artista lombarda "alla nostra stella Olivia". Chissà chi è. Perché anche Olivia "è" in ogni caso, dovunque sia.

"Più forte del fuoco c'è solo l'amore. Esiste da sempre". Proprio così. Lo conferma una che ha già provato le ortiche. Altro che se le ha provate. Sotto, effettivamente, può esserci la seta. Anche se faccio ancora fatica a riconoscerla. Sono sicura che ci riuscirò. Oggi più che mai.

Ciao, mamma. Grazie di tutto.



sabato 15 marzo 2014

Indifesa è la memoria: Massimo Del Papa omaggia Enzo Tortora


 
Indifesa è la parola: Massimo Del Papa non poteva scegliere titolo più adatto per riassumere l’esperienza umana e giudiziaria devastante vissuta da Enzo Tortora, negli stessi anni in cui mi trasformavo da bambina in ragazza. Appena ieri, per la storia del nostro Paese, ma antica come il Pleistocene per la memoria collettiva.
Io medesima, lo dichiaro apertamente, non conoscevo i dettagli della vicenda di questo giornalista di estrazione borghese, liberale, per niente condiscendente, né nella sua professione né, probabilmente, nel privato.
Un uomo tutto d’un pezzo, per così dire, vecchio stampo, di quelli che non guardavano di buon grado le conseguenze prodotte dal Sessantotto, inviso, presumo, alla intellighenzia dei pennivendoli di allora, ma temo non solo delle aree più estremiste, rosse e nere.
Come ben raccontato da Massimo, un uomo così subisce una vera e propria metamorfosi, che lo traghetterà nelle fila del partito radicale, a combattere le battaglie di altri detenuti in attesa di giudizio come lui, altri condannati anche colpevoli a differenza sua, ma privi di santi in paradiso.
Tortora rifiuta, ed è questa una delle cose che non sapevo, di avvalersi dell’immunità di parlamentare europeo e sceglie la cella, ritenendosi “fortunato”, lui che ci passa mesi bollenti insieme ad altri sette detenuti, contro i sedici normalmente assiepati in una manciata di metri quadri.
Da buon giornalista e uomo di cultura, parla e scrive molto: toccanti quelle che dedica alla figlia e tragiche quelle che non ascolterete nella versione breve del video che ho ricavato dalla serata al teatro di San Ginesio, in provincia di Macerata (è stato faticoso scegliere quali brani inserire, ve l’assicuro), che pronuncia nell’ultima intervista televisiva rilasciata a Giuliano Ferrara, su Rai due, il suo canale, pochi giorni prima di morire.
Quel che fa male, molto male, è conoscere l’epilogo di questa brutta pagina di malagiustizia italiana: gli stessi giudici che l’avevano condannato in primo grado, con una sentenza poi completamente e definitivamente sconfessata da quella d’appello, in seguito hanno fatto carriera.
Massimo li elenca uno per uno, compresi gli incarichi che poi sono andati a ricoprire.
Per certi versi, la sua teoria di ingiusti, mi ha fatto pensare al caso Ustica e ai troppi vertici dell’Aeronautica che non hanno pagato per aver depistato per anni, portandosi dietro altre morti, la verità su quell’enorme ferita inferta al nostro Paese.
“Ma che razza di Paese è mai questo?”, si domanda, retoricamente, Massimo verso la fine del monologo.
E io invece chiedo: come possiamo, io compresa, avere la memoria così corta?
È umano, sia chiaro, voler rimuovere ciò che ci addolora: anche perché in casi del genere che cos’altro potremmo fare?
Ve lo dico, come la penso, stavolta sì.
Possiamo solo usare cuore e cervello: il primo per provare un po’ di empatia anche per chi non fa parte della nostra stretta cerchia di affetti; il secondo per informarci, approfondire, andare oltre la superficialità del presente.
Non posso quindi che dire ancora grazie a Massimo, per questo sforzo che ha compiuto anche per me.
Non era semplice ripercorrere una storia che so quanto senta anche con le sue corde più intime: lo si vede, del resto, da come ha “recitato” i discorsi di Tortora.
E dico grazie, pubblicamente, anche a suo fratello Paolo, al quale sono legata affettivamente, per come ha saputo assecondare con la sua splendida musica le parole, spesso indigeribili, pronunciate dal fratello.
A voi che non eravate con me la sera del 7 marzo 2014, in uno dei molti piccoli scrigni d’arte nascosti sulle colline marchigiane, buona visione del sunto, sicuramente parziale, di quella magnifica serata.
Guardate, ascoltate, emozionatevi e riflettete.
Solo facendo tutte queste cose, e non solo in questa occasione, del resto, la vita acquista un senso.
O no?

lunedì 20 maggio 2013

Il giornalismo di domani e il mio destino


Del bigliettino che riporto sopra mi fa tenerezza soprattutto quel "tutto ciò", sia per il tipo d'italiano utilizzato (i ragazzi di oggi usano ancora "ciò"?) sia per quel "tutto" che onestamente, con vera modestia, dubito essere molto.
Come sempre, dal 2006 a questa parte, tranne un anno saltato per problemi organizzativi, a imparare qualcosa sono stata io, sul mestiere che credevo di aver scelto e sugli adolescenti.
In un mese, del resto, si fa appena in tempo a gettare qualche seme, ammesso di riuscirvi, e a memorizzare, se non i nomi, almeno i visi di questi giovanissimi, in massima parte maschi, che ho visto avvicendarsi anno dopo anno nell'aula multimediale dell'Iti Montani di Fermo, una scuola dal passato illustre, che ancora adesso, nonostante lo sfascio tanto chiacchierato della scuola pubblica, continua ad attrarre molti studenti.
Che cosa ho imparato in questi quattro venerdì passati con loro e con il quinto condotto da mio cognato Massimo Del Papa (ebbene sì: si fa tutto in famiglia)?
Che, come sempre, come da sempre, se adeguatamente stimolati, i ragazzi rispondono. Che anno dopo anno mi sembrano sempre più piccoli e che, al contempo, il giornalismo è invecchiato insieme con me. Parlo ovviamente del mestiere che ho conosciuto anni fa, prima come lettrice de "La Repubblica", imbeccata dal prof di storia e filosofia (ma a sedici anni che cosa leggessi di quel quotidiano che esibivo fichettisticamente in classe non saprei dirlo), poi come pivella con manie di grandezza (il mio primo pezzo: un'intervista a un protagonista minore dell'intricata vicenda di Ustica: che ardire), alla macchina per scrivere di mio padre. Infine, a 28 anni, è arrivata la scuola di giornalismo. Il mitico (non per me: fino al giorno dell'orale ignoravo quanto fosse ritenuta importante quella scuola) Ifg. Liberarsi dalla sindrome della stagista di lusso (si fa per dire) mi ha richiesto vari anni, ma alla fine è andata. E solo adesso, a distanza di oltre dieci anni, ho capito alcune cose su questo lavoro così appassionante (inutile nasconderlo: è sì un mestiere che fai, ma un po' "una/uno che scrive" ci nasci anche) e così difficile. Tolti gli evidenti problemi di reddito di cui parlo ormai da un po', è infatti sempre più complicato orientarsi in questo flusso costante di informazioni, boutade, inezie, polemiche sterili e scoop reali, tanto più se sei sciolta da contratto di lavoro dipendente e vorresti proporre qualcosa a qualche testata.Volete che ve lo dica? Ormai è più di un anno (ma forse anche di più) che non penso di vendere alcunché ad alcuno. E sapete perché? Perché non riesco più a capire quali rutilanti proposte potrebbero essere appetibili per qualunque testata nazionale.
Uno dei miei ultimi tentativi è stata un'intervista (già scritta) al mio nume Paolo Conte. Mi sono sentita rispondere che "non erano interessati a cose così", con un leggero tono sprezzante. Peccato che poi su una rivista dello stesso gruppo sia uscito analogo pezzo di una loro collaboratrice. D'altronde, è sempre stato così: sei sei fuori, ti occorre molto tempo per riuscire ad accreditarti. La vera grande differenza rispetto al passato? E' che adesso i collaboratori sono sempre più merce rara, per problemi interni ai medesimi giornali mainstream, tutti, chi più chi meno, in stato di crisi.
Il risultato è uno solo e l'ho potuto verificare con i miei occhi sfogliando (anzi: leggendo) più giornali della mia media sempre più bassa proprio in questo mese di preparazione delle lezioni a scuola. Tolta la solita pagina politica, i giornali sono sempre più simili, più piatti, a volte pure più sciatti.
Non è una grossa novità, lo so. Però credo proprio che ormai ci siamo: parecchie testate cartacee spariranno e, francamente, è giusto così. Dopodiché, certo, le novità ci sono, e sono anche parecchie. Non essendo abbonata a Rsera, per esempio, non posso sapere con certezza come sia cambiata dallo scorso anno, ossia dal debutto, avvenuto proprio durante il precedente ciclo delle mie lezioni. Però ricordo che mi aveva colpito per l'originalità della grafica e poi per la multimedialità del grosso dei suoi contenuti. Se c'è un settore destinato a crescere e forse anche a dare lavoro, insomma, è proprio questo. Chi ha uno smartphone, una fotocamera neanche troppo ingombrante ma con molti pixel e la videocamera incorporata, potrebbe diventare molto appetibile per i media di domani. A un patto. Che ci sia qualcuno in grado di capire ancora la differenza tra un servizio fatto bene e una roba amatoriale buttata là. Se mai, in definitiva, riuscissi a rientrare con entrambi i piedi in questo mondo che seguo con un occhio solo da ormai troppo tempo, dovrò fare i conti con una schiera sempre più fitta di giovani giornalisti smanettoni e/o nerd o jeeg (ho scoperto solo da poco la sottile differenza tra le due parole, che comunque indicano sempre soggetti un po' in fissa con internet e hi-tech in genere), dei quali solo una piccola parte, probabilmente, saprà com'era il giornalismo delle origini, quello della Fallaci e di Montanelli, tanto per intenderci, ma che potrebbe anche non capire come scrivo e parlo io, che dalla Fallaci e da Montanelli sono lontana anni luce.
Non voglio tromboneggiare, però è un fatto di cui ormai sono più che consapevole: alla mia età, non ancora troppo anziana, sono comunque più vicina alla generazione dei miei genitori di quanto non lo sia a quella dei ragazzini che ho conosciuto in questi anni. In classe tutti avevano lo smartphone, qualcuno pure il tablet. Un gruppetto di loro ha partecipato a un progetto e-book, un altro stava girando proprio in queste settimane un cortometraggio. Chi li ha seguiti ne capiva qualcosa del primo e del secondo? La domanda è fondamentale ed è collegata al mio destino professionale. Anche ammesso che riesca ad accreditarmi come smartphone-reporter, come esperta di microblogging o di qualche altro new media prossimo venturo, chi guarderà i miei servizi, leggerà i miei micro-post, sarà in grado di capirli? Non ho una risposta, tutt'al più una speranza, ossia: certo che ci riuscirà. Se così non fosse, farei meglio a imparare un mestiere pratico (la zappa posso ancora tenerla in mano) relegando le velleità scribacchiniche al tempo libero, quello che oggi ho ancora in abbondanza.
Come concludere un post così?
Ringraziando Massimo Del Papa, il cognato di cui sopra, per avermi deliziato con la cronaca di Montanelli sull'esondazione dell'Arno, e anche per il suo tono, visibilmente scazzato, ma proprio per questo molto applaudito, con cui ha lanciato il suo messaggio alle giovani generazioni che affollavano l'aula magna del Montani, lo scorso venerdì: "Potete fare tutto, avete mezzi che noi non avevamo", ha detto in più passaggi. Prima, però, studiate. E leggete. E forse un domani qualcuno di voi mi darà lavoro, compatendomi anche un po'.

mercoledì 18 aprile 2012

Un "Faro" per gli Sfaccendati

Sfaccendato man insiste: facciamo un piano, tu ed io, e andiamocene via di qui.
Tutti i torti non li ha, ma a sentire certi racconti di vita nelle grandi città, un po' di angoscia mi prende.
In ogni caso, non possiamo permetterci, né lui né io, di buttare via gli anni più di quanto non abbiamo già fatto. Perciò, se ci armeremo di coraggio e ce ne andremo, ve lo farò sapere dalle "colonne" di questa rubrica.
No, le virgolette non andrebbero mai usate, tanto più in questo caso, dal momento che da una decina di giorni circa, "GLI SFACCENDATI" sono finiti anche sul cartaceo-elettronico del settimanale Il Faro di cui potete vedere la testata e un esempio di impaginato nella foto a destra.
Se dunque dovessimo di nuovo emigrare, sicuramente avremo da raccontare altre forme di sfaccendamento, perché dubito che riusciremmo a ricollocarci in un battito d'ali, viste anche le recenti dichiarazioni del buon Monti.
E in ogni caso, qui volevo ringraziare Massimo Del Papa, il direttore del piccolo ma grande giornale di approfondimento, realizzato con il supporto grafico di sua moglie, una donna di segreta e acuta intelligenza, autrice, peraltro, delle modifiche che mi hanno permesso di creare la rubrica nella versione online (da sola, ve l'assicuro, non ne sarei mai stata capace).
Comunque vada a finire, la rubrica e tutto il resto, sono sempre più convinta che solo mettendo in comune saperi, competenze e passioni si possa sentirsi un po' meno soli.
Alla prossima, per nuove, surreali avventure degli Sfaccendati (ne ho una sulla punta delle dita, ma sto facendola sedimentare un altro po').