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lunedì 24 febbraio 2014

Renzi, la scuola e il futuro dei Millennials

Foto di Maria, studentessa dell'Istituto comprensivo di Petritoli (Fermo)

Giusto a metà del suo discorso al Senato, Matteo Renzi ha parlato di scuola, lanciando una promessa: la prima meta del suo prossimo viaggio per l'Italia in qualità di Presidente del Consiglio (ma già pensa a ripartire?) sarà proprio in uno dei troppi istituti scolastici in affanno. Speriamo che sia vero, non tanto il tour promozionale, quanto l'esito che dovrebbe scaturirne, ossia lo sblocco dei fondi destinati alla ristrutturazione delle nostre scuole statali, da sempre ospitate in stabili fatiscenti e/o nuovi, ma realizzati con materiali talmente scadenti da apparire vetusti già all'indomani della loro inaugurazione.

L'augurio di buon lavoro al neopremier, classe '75, quattro anni meno di me, è d'obbligo. E anche se mi sto arrendendo, giorno dopo giorno, a uno scetticismo sempre più distaccato dai mali del presente, credo davvero, in cuor mio, che il ricambio generazionale stia davvero avvenendo.
Mi dispiace per chi rosica, anche tra i quarantenni come me, ma, sinceramente, era ora.

I nuovi gggiovani, d'altra parte, non sono tutti "ciucci e presuntuosi", secondo la definizione che aveva carinamente affibbiato alla generazione alla quale apparteniamo sia io che Renzi (anche se lo odio per essere tanto meno vecchio di me) la mia prof di matematica. La stessa che, che la sua anima riposi in pace, mi fece venire un complesso più grosso delle mie muscolose gambe dicendomi davanti a tutti che dovevo mettermi a dieta.

E' questo uno dei motivi per cui non ho un bel ricordo delle scuole medie. Tra gli altri, la sensazione che nutrivo allora (e dalla quale, temo, non mi sono liberata del tutto) di essere ancora incompleta, preda com'ero delle normali pulsioni ormonali della crescita.

Di recente, però, ho cambiato radicalmente idea su questo periodo della vita.
Il merito va tutto ai ragazzini dell'Istituto comprensivo di Petritoli, uno dei tanti paesi-presepe della provincia di Fermo che costellano i colli di quest'angolo delle Marche.

Molti di loro, probabilmente, sarebbero stati descritti dalla mia prof in modo molto simile, ma per fortuna il ricambio generazionale sta attraversando anche il corpo docente (anzi: è arrivato prima lì che in Parlamento, se vogliamo dirla tutta).

E' infatti grazie alla nuova generazione di docenti (accanto a un'illuminata quanto ristretta fetta di prof di più lunga e comprovata esperienza, che comunque era ancora giovane ai tempi delle medie mie e di Renzi) se in questa piccola scuola è nata, tra il primo e il secondo quadrimestre, la "Settimana integrativa", durante la quale i ragazzi hanno la possibilità di cimentarsi in discipline diverse dalle pur importanti materie previste nei programmi ministeriali.

Suddivise in moduli di due ore ciascuno, le attività extra che si sono svolte durante questa settimana sono aumentate anno dopo anno, come hanno raccontato i ragazzini stessi nel loro bellissimo Tg, che purtroppo non posso diffondere per motivi di privacy.

In molti casi, si è puntato sulla stimolazione della loro creatività attraverso l'uso delle mani: sono rimasta davvero incantata dagli oggetti in peltro, dalle incisioni, gli origami e gli aquiloni che alla fine della settimana hanno anche messo in vendita, destinando una parte del ricavato alla beneficenza.
Ho particolarmente gradito, poi, le lampade del laboratorio chiamato "Riciclo e riuso", frutto della nuova vita data alle vaschette per la ricotta.

Ho trovato inoltre molto poetico ascoltare le canzoni composte dai ragazzi sulle note di una musica di loro stessa ideazione, nel laboratorio condotto dal prof di musica, uno di quelli che mi ha parlato non bene dell'istituzione scuola, ma molto bene dei ragazzi, capaci di tirare fuori cose straordinarie se adeguatamente motivati.

Personalmente, ho potuto verificare quanto avesse ragione nei due laboratori nei quali ho dato il mio contributo, soprattutto perché, in fondo, io non ci ho messo quasi nulla di mio: i protagonisti assoluti di pressoché tutte le trovate escogitate durante quelle straordinarie giornate sono stati loro.

Anche se per poco tempo, ho così avuto l'occasione di conoscere un po' più da vicino alcuni esemplari di "Millennials", come vengono chiamati i ragazzi nati dopo il 2000 con una definizione che è già uno slogan spesso usato in accezione negativa.

Non avendo figli, ma solo due nipoti di qualche anno più giovani di questi ragazzi nati in contemporanea con l'esplosione di Google, non ne sapevo (e in fondo ancora adesso non ne so) un accidente.

Però quel che ho visto non mi è parso affatto male.
Ho provato enorme tenerezza e anche entusiasmo per queste pietre grezze che vanno forgiandosi, per queste vite ancora aperte a tutto, per la dolcezza e anche la teppaglia di alcuni più furbetti ma stringi stringi ancora bambini.

Se fossi una vera prof, ho paura che non riuscirei a trattarli con la giusta severità. Ma chissà. Forse diventerei più antipatica della prof di matematica, che in verità antipatica non era affatto, solo un po' rude.

Di sicuro è un'età delicata, bisognosa più che mai di guide valide.
Se sapessero quanta fatica facciamo noi adulti a mostrarci all'altezza delle loro aspettative... ma forse lo sanno ed è anche per questo che, spesso, non ci sentono abbastanza autorevoli.

Del resto, come possono degli adulti condannati a un'adolescenza infinita da una società sempre più demenziale porsi come modelli?

Butto la domanda, dal mio piccolissimo spazio, al "giovane" Renzi, quello che sa usare Twitter sicuramente meglio di me, che conosce i programmi tv e le musiche dei Millennials più di quanto io mai potrò fare visto che ha pure dei figli, che, furbamente, ha parlato proprio di scuola per accattivarsi la fiducia dei molti giovani genitori che lo circondano, per fortuna anche nelle stanze dei bottoni.

Se c'è un salto da fare, mister Fonzie, è proprio questo: dimostriamo di essere diventati grandi. Cioè a dire: usiamo pure i social, il tablet e hasthagghiamo pure i pranzi della domenica e i gol dei viola, ma per piacere, comportiamoci da adulti quando serve dicendo anche qualche no.

Il primo no forte e chiaro che vorrei sentire è al perpetuarsi dei poteri forti, sempre quelli, di generazione in generazione. Il che vuol dire un sacco di cose, per esempio basta con il cemento, sì alla riconversione delle produzioni inquinanti in attività il più possibile "green", sì alle competenze e no ai nepotismi, sì alla multiculturalità e no alla finta integrazione, sì a più incentivi a chi lavora con la cultura e con un turismo a misura d'uomo (ma di più d'anziano, donna, bambino e pure animale domestico).
Sì all'Europa degli scambi umani e non solo di merci. Perseguimento non solo a parole ma vero e concreto dell'evasione fiscale (ci vorrebbe Giorgio Bracardi e il suo "in galera!").
etc etc....

Solo se saprai fare questo e io voglio darti fiducia, per una volta, forzandomi a non restare solo apparentemente Zen, mi sentirò appena appena meno inquieta.
Non tanto per me, che forse ho già fatto il mio tempo, quanto per questi ragazzi con i visi di latte e l'energia della vita.

Una vita che dovrebbe essere felice. Il più possibile.
Ce la farai?
Speriamo.
Anzi: #speriamo.

lunedì 20 maggio 2013

Il giornalismo di domani e il mio destino


Del bigliettino che riporto sopra mi fa tenerezza soprattutto quel "tutto ciò", sia per il tipo d'italiano utilizzato (i ragazzi di oggi usano ancora "ciò"?) sia per quel "tutto" che onestamente, con vera modestia, dubito essere molto.
Come sempre, dal 2006 a questa parte, tranne un anno saltato per problemi organizzativi, a imparare qualcosa sono stata io, sul mestiere che credevo di aver scelto e sugli adolescenti.
In un mese, del resto, si fa appena in tempo a gettare qualche seme, ammesso di riuscirvi, e a memorizzare, se non i nomi, almeno i visi di questi giovanissimi, in massima parte maschi, che ho visto avvicendarsi anno dopo anno nell'aula multimediale dell'Iti Montani di Fermo, una scuola dal passato illustre, che ancora adesso, nonostante lo sfascio tanto chiacchierato della scuola pubblica, continua ad attrarre molti studenti.
Che cosa ho imparato in questi quattro venerdì passati con loro e con il quinto condotto da mio cognato Massimo Del Papa (ebbene sì: si fa tutto in famiglia)?
Che, come sempre, come da sempre, se adeguatamente stimolati, i ragazzi rispondono. Che anno dopo anno mi sembrano sempre più piccoli e che, al contempo, il giornalismo è invecchiato insieme con me. Parlo ovviamente del mestiere che ho conosciuto anni fa, prima come lettrice de "La Repubblica", imbeccata dal prof di storia e filosofia (ma a sedici anni che cosa leggessi di quel quotidiano che esibivo fichettisticamente in classe non saprei dirlo), poi come pivella con manie di grandezza (il mio primo pezzo: un'intervista a un protagonista minore dell'intricata vicenda di Ustica: che ardire), alla macchina per scrivere di mio padre. Infine, a 28 anni, è arrivata la scuola di giornalismo. Il mitico (non per me: fino al giorno dell'orale ignoravo quanto fosse ritenuta importante quella scuola) Ifg. Liberarsi dalla sindrome della stagista di lusso (si fa per dire) mi ha richiesto vari anni, ma alla fine è andata. E solo adesso, a distanza di oltre dieci anni, ho capito alcune cose su questo lavoro così appassionante (inutile nasconderlo: è sì un mestiere che fai, ma un po' "una/uno che scrive" ci nasci anche) e così difficile. Tolti gli evidenti problemi di reddito di cui parlo ormai da un po', è infatti sempre più complicato orientarsi in questo flusso costante di informazioni, boutade, inezie, polemiche sterili e scoop reali, tanto più se sei sciolta da contratto di lavoro dipendente e vorresti proporre qualcosa a qualche testata.Volete che ve lo dica? Ormai è più di un anno (ma forse anche di più) che non penso di vendere alcunché ad alcuno. E sapete perché? Perché non riesco più a capire quali rutilanti proposte potrebbero essere appetibili per qualunque testata nazionale.
Uno dei miei ultimi tentativi è stata un'intervista (già scritta) al mio nume Paolo Conte. Mi sono sentita rispondere che "non erano interessati a cose così", con un leggero tono sprezzante. Peccato che poi su una rivista dello stesso gruppo sia uscito analogo pezzo di una loro collaboratrice. D'altronde, è sempre stato così: sei sei fuori, ti occorre molto tempo per riuscire ad accreditarti. La vera grande differenza rispetto al passato? E' che adesso i collaboratori sono sempre più merce rara, per problemi interni ai medesimi giornali mainstream, tutti, chi più chi meno, in stato di crisi.
Il risultato è uno solo e l'ho potuto verificare con i miei occhi sfogliando (anzi: leggendo) più giornali della mia media sempre più bassa proprio in questo mese di preparazione delle lezioni a scuola. Tolta la solita pagina politica, i giornali sono sempre più simili, più piatti, a volte pure più sciatti.
Non è una grossa novità, lo so. Però credo proprio che ormai ci siamo: parecchie testate cartacee spariranno e, francamente, è giusto così. Dopodiché, certo, le novità ci sono, e sono anche parecchie. Non essendo abbonata a Rsera, per esempio, non posso sapere con certezza come sia cambiata dallo scorso anno, ossia dal debutto, avvenuto proprio durante il precedente ciclo delle mie lezioni. Però ricordo che mi aveva colpito per l'originalità della grafica e poi per la multimedialità del grosso dei suoi contenuti. Se c'è un settore destinato a crescere e forse anche a dare lavoro, insomma, è proprio questo. Chi ha uno smartphone, una fotocamera neanche troppo ingombrante ma con molti pixel e la videocamera incorporata, potrebbe diventare molto appetibile per i media di domani. A un patto. Che ci sia qualcuno in grado di capire ancora la differenza tra un servizio fatto bene e una roba amatoriale buttata là. Se mai, in definitiva, riuscissi a rientrare con entrambi i piedi in questo mondo che seguo con un occhio solo da ormai troppo tempo, dovrò fare i conti con una schiera sempre più fitta di giovani giornalisti smanettoni e/o nerd o jeeg (ho scoperto solo da poco la sottile differenza tra le due parole, che comunque indicano sempre soggetti un po' in fissa con internet e hi-tech in genere), dei quali solo una piccola parte, probabilmente, saprà com'era il giornalismo delle origini, quello della Fallaci e di Montanelli, tanto per intenderci, ma che potrebbe anche non capire come scrivo e parlo io, che dalla Fallaci e da Montanelli sono lontana anni luce.
Non voglio tromboneggiare, però è un fatto di cui ormai sono più che consapevole: alla mia età, non ancora troppo anziana, sono comunque più vicina alla generazione dei miei genitori di quanto non lo sia a quella dei ragazzini che ho conosciuto in questi anni. In classe tutti avevano lo smartphone, qualcuno pure il tablet. Un gruppetto di loro ha partecipato a un progetto e-book, un altro stava girando proprio in queste settimane un cortometraggio. Chi li ha seguiti ne capiva qualcosa del primo e del secondo? La domanda è fondamentale ed è collegata al mio destino professionale. Anche ammesso che riesca ad accreditarmi come smartphone-reporter, come esperta di microblogging o di qualche altro new media prossimo venturo, chi guarderà i miei servizi, leggerà i miei micro-post, sarà in grado di capirli? Non ho una risposta, tutt'al più una speranza, ossia: certo che ci riuscirà. Se così non fosse, farei meglio a imparare un mestiere pratico (la zappa posso ancora tenerla in mano) relegando le velleità scribacchiniche al tempo libero, quello che oggi ho ancora in abbondanza.
Come concludere un post così?
Ringraziando Massimo Del Papa, il cognato di cui sopra, per avermi deliziato con la cronaca di Montanelli sull'esondazione dell'Arno, e anche per il suo tono, visibilmente scazzato, ma proprio per questo molto applaudito, con cui ha lanciato il suo messaggio alle giovani generazioni che affollavano l'aula magna del Montani, lo scorso venerdì: "Potete fare tutto, avete mezzi che noi non avevamo", ha detto in più passaggi. Prima, però, studiate. E leggete. E forse un domani qualcuno di voi mi darà lavoro, compatendomi anche un po'.

venerdì 13 aprile 2012

Transito vietato alle piccinerie di provincia


Quando meno la vorresti, eccola là, più puntuale della morte. Sto parlando della molestia, difficile da schivare tanto più se si materializza in un essere umano in carne e ossa, che si fa trovare nello stesso posto e alla stessa ora in cui ci sei anche tu.
L'ho visto già prima di varcare la soglia di un noto negozio di borse & affini del centro storico della mia città natale. Ho anche fatto la tipica faccia di chi non ha voglia di chiacchiere da bar, nell'attimo in cui la molestia personificata guardava verso di me. Purtroppo, non ha sortito effetto né io potevo evitare di entrare, dal momento che ero in compagnia di mia madre, desiderosa di ricevere un mio parere sul regalo alternativo che stava per farsi mostrare.
Così mi sono diretta verso la Molestia con il passo un po' molle di chi va al patibolo.
In un certo senso, però, sapere di avere un luogo in cui avrei successivamente depositato l'inutile dialogo (parola poco calzante, al contrario dell'aggettivo) mi sollevava un pochino dal senso di ambascia.
Ma non facciamola più lunga. Di seguito, le testuali parole dello sgradito scambio di vocaboli:
"Ho versato 21 anni di contributi"
"Buon per te"
"Eh, ma ormai non servono più a niente..."
"?"
"Mi ero già fatto i calcoli: tra 14 anni, a 54 anni, sarei andato in pensione e avrei lasciato il posto a mio figlio che allora avrà 21 anni. Perché anche se non c'è più questa possibilità, poi si sa che si fa lo stesso"
"..."
"Ma adesso, con la riforma... Anch'io dovrò ricorrere a un fondo privato"
"Va bene, dai, magari poi non è detto"
"Comunque adesso mi godo ancora qualche giorno di vacanza e mia moglie, che non vedo mai, e mio figlio"
"Infatti, fai bene. Io invece sono qui con mia mamma che ha appena compiuto 70 anni e..."
"Settant'anni? Ma chi l'avrebbe mai detto? Ma complimenti"
"Del resto è una questione di genetica"
(mi indico sorridendo in modo fintamente mondano)
"E quelli sono i tuoi genitori, scusami, non li avevo visti"
(la madre della Molestia mi si avvicina e molto educatamente mi saluta: mai vista pettinatura più scolpita della sua)
"E lei ha qualche anno più dei settanta..."
"Complimenti, non è cambiata per niente. Anche tuo padre"
Per farla breve, questo mio compagno di classe (perché di ciò si trattava) saluta con la sua tipica galanteria manierosa mia madre e si trattiene ancora un momento con i negozianti per allietarli, probabilmente, con l'illustrazione di qualche piano pensionistico a loro vantaggio (era sabato santo: sai che bellezza passarlo così), mentre mia madre ed io ci allontaniamo allungando l'andatura, io sentendomi un po' come Moretti quando lascia Panarea un attimo dopo essere sbarcato dall'aliscafo in "Caro Diario".
C'è un sottotesto chiaro, probabilmente, solo all'unica persona che legge questo blog che conosce anche la Molestia formato liceo classico: quest'ultima a scuola era una capra, un po' perché non studiava, un po' perché, in fondo in fondo, nutriva un non malcelato disprezzo nei confronti di chi lo faceva, ottenendo, magari, buoni risultati in materie poco pratiche come la storia (peggio, la filosofia: ma ammetto che non ci capivo un'acca neanche io, per quanto mi sforzassi di leggerne l'enigmatico manuale) o l'italiano.
Ai tempi, peraltro, la sua svogliatezza venne ripagata con bocciature in materie veramente improbabili: educazione fisica (giuro!) e storia dell'arte, quest'ultima, devo dirlo, per pura antipatia personale del prof nei suoi confronti del tutto fuori luogo, dal momento che non facevamo assolutamente nulla, il che ha finito per crearmi un forte rimpianto per le lacune mai colmate in una delle materie che amo di più.
E insomma, so per certo che il mio compagno ci teneva a mostrarmi tutti i suoi successi come a dirmi: vedi? tu eri tanto brava e adesso non sei nessuno, mentre io sono ricco e affermato.
No, non è una mia proiezione per via delle solite insicurezze che effettivamente a tratti mi angosciano non poco. Conosco la faccia di questo ex ragazzo imbolsito precocemente e le cattiverie di cui era capace. Le tipiche cattiverie dell'adolescenza che mi sono portata dietro per anni, prima di convincermi che dovevo fregarmene e pure alla grande.
Quel che mi sconcerta è che, nonostante tutti i mutamenti che pure saranno intervenuti nella sua vita, comunque dovesse darsi un tono, buttandomi in faccia la sua infantile rivalsa antropologica.
Davvero, se gli fosse toccato di andare in pensione a 54 anni, come a tanti delle generazioni passate, sarei stata felice per lui, se questo era, è, il suo orizzonte di vita.
Meno capisco il discorso sull'ereditarietà del posto di lavoro. Anzi, direi che un po' mi fa orrore, considerato il modo in cui starà crescendo suo figlio e il "trotismo" dilagante.
E tuttavia, l'aspetto vieppiù triste di questo episodio è il senso d'immobilismo che mi restituiscono persone così, simbolo di una terra, di un paese, ostile al diverso, al nuovo, allo straniero, esattamente come venticinque anni fa, quando ho preso a scalpitare per il desiderio di conoscere il mondo.
Ammetto di non essere andata molto lontano: Molestia, hai ragione tu: non ho combinato granché, ma la testa non si è mai più richiusa né mai sarà possibile.
E se anche un giorno dovessi venirti a chiedere delucidazioni sui fondi pensione, beh, di sicuro troverò un'altra maniera per mettere alla berlina la tua noiosa piccineria di provincia.