domenica 29 settembre 2013

Suad Amiry e l'autoironia che mi conquista

Suad Amiry

Giusto agli sgoccioli di questa sorta di lunga estate indiana, ho deciso di leggere Murad Murad, di Suad Amiry, un'architetta e scrittrice palestinese che ho avuto occasione di ascoltare al Festival di Internazionale, ormai ben quattro anni fa. E ho fatto proprio bene.
Il libro ripercorre le diciotto ore trascorse dall'autrice in compagnia di un gruppo di giovani braccianti palestinesi nel loro viaggio alla ricerca di un lavoro in Israele. Agli occhi di un occidentale non addentro all'annoso conflitto che contrappone arabi ed ebrei giusto nella terra più santa dell'umanità, lussureggiante di aranceti e ulivi, un clima quasi sempre mite, può sembrare bizzarro che una signora della buona borghesia musulmana non più giovane (come la Amiry stessa si definisce) si imbarchi in un'impresa così stravagante, oltretutto pateticamente camuffata da uomo.
Basteranno invece poche pagine del bel libro di questa simpaticissima architetta residente a Ramallah, ossia nell'area della Palestina attribuita agli arabi da non so più quale accordo internazionale, per comprendere quale dramma vivono ogni giorno migliaia di giovani e meno giovani arabi di Cisgiordania che non riescono a lavorare né nella loro zona né al di là del Muro.
E già, amici lettori non avvezzi alla questione palestinese come me, nella storia recente dell'umanità non c'è stato solo il muro di Berlino: tra i passaggi più partecipati di Murad Murad c'è proprio la trasposizione metaforica di questo muro arabo-israeliano, in particolare della galleria che lo attraversa all'altezza della città di Petah Tikva, meta del viaggio dei giovani braccianti, compreso il protetto di Suad che dà il titolo al libro.
Storicamente il nostro Paese ha sempre mostrato una certa simpatia per i palestinesi, salvo negarla per ragioni diplomatiche ogni volta che questi ultimi hanno risposto ai missili israeliani con attentati e altre azioni terroristiche. Come già sottolineato, non ho abbastanza strumenti per prendere una posizione pro o contro qualcuno, ma non posso negare di essermi appuntata mentalmente i nomi dei villaggi e paesi palestinesi esistiti per secoli e secoli, in luogo dei quali oggi sorgono parchi naturali dai nomi affascinanti. D'altra parte, Suad Amiry è a capo di un'organizzazione che tutela il patrimonio architettonico di Ramallah, quindi è facilmente intuibile quanto sia sensibile ai mutamenti "urbanistici" impressi da Israele.
Il vero motivo per cui parlo di questo libro, in definitiva, è un altro e per nulla politico.
Suad Amiry ha un'ironia invidiabile: come tutte le persone intelligenti, la rivolge innanzitutto verso se stessa, dipingendosi come una culona in climaterio, prossima all'infarto dopo una corsa pazza cui la costringono i suoi giovani compagni di viaggio onde evitare i probabili spari della polizia israeliana; poi verso i suoi "big boys", i medesimi aspiranti braccianti, ai quali vorrebbe disperatamente assomigliare, ovviamente invano. Me la sono immaginata mentre cercava di ficcarsi i capelli nel berretto alla Jeanne Moreau di Jules e Jim, gli occhi vivaci, indagatori e la lingua sempre pronta alla battuta salace. Particolarmente spassoso è il resoconto dell'incontro con la famiglia di Murad, a inizio dell'avventura, quando continuano a offrirle cuscini per farla sentire a suo agio, con il risultato che le sembra di galleggiare su una barca. Prima di questo libro, che nonostante la prosa frizzante, affronta comunque un tema molto serio, so che la Amiry ha scritto Sharon e mia suocera, la politica israeliana sempre sullo sfondo, ma filtrata dalla forzata convivenza dell'autrice con la madre di suo marito. Voglio cercarlo, perché sono certa che leggerlo mi piacerà assai.
Un altro aspetto di questa straordinaria signora nata esattamente venti anni prima di me è che non si vergogna delle numerose lacrime versate lungo le diciotto ore da simil-transfuga. Sarà per via della menopausa che cita spesso, sarà per la fatica fisica accumulata durante svariati tratti a piedi, in ogni caso il suo corpo e le esigenze (anche intestinali!) che lo guidano restano sempre in primo piano. E se c'è da piangere, beh si piange.
Oggi sarei dovuta andare a Porto San Giorgio a correre dieci chilometri con alcune amiche della palestra: non so perché (anzi: lo so eccome), ma ho dato subito la mia adesione, pur nutrendo nel mio intimo più di un dubbio che ce l'avrei mai fatta ad arrivare fino alla fine. Nonostante il mio volontaristico super-io, comunque, un po' come in Murad Murad, sono stata sopraffatta dal mio corpo. Oltre al raffreddore che stanotte mi ha tormentato costringendomi a soffiarmi il naso di continuo, ieri mi sono pure slogata una caviglia. Insomma: la corsa proprio non si doveva fare e ho come l'impressione che l'indebolimento del mio ginnico micro (in centimenti, non in larghezza) corpo sia la conseguenza di un'alterazione della mia psiche. Sono pazza? Ma certamente. E però ditemi se non è strano che giusto ieri abbia incontrato una giovane danzaterapeuta di nome Lucia (dal cognome tipicamente fermano e dai morbidi lineamenti spagnoleggianti) esperta di bioenergetica.
Mi sono avvicinata con neutra curiosità al gazebo nel quale lei e altre persone facevano provare gratuitamente massaggi ai piedi, all'area cranio-sacrale e per l'appunto il trattamento che ho scelto io.
Giacché c'ero, mi sono detta, perché no?
Premendo qui e là il mio intestino perennemente colitico e il mio collo appesantito da troppo computer (e pensieri oziosi), Lucia si è ovviamente accorta che avevo un basso livello di energia (e figuriamoci: ero mezzo rintronata dal raffreddore). Però, ve l'assicuro, mi sono lasciata andare al tocco delle sue mani estremamente fiduciosa nelle sue capacità. Ogni tanto, ovvio, pensavo a quel che avrei dovuto prepararmi per cena e in generale alla nottata da single (temporanea) che mi attendeva. A un certo punto, il colpo di scena. "Hai problemi con un uomo", mi dice Lucia. Mi sono messa a ridere. Poi le ho spiegato che ieri ero sola perché mio marito era in via del tutto eccezionale fuori città e che si trattava di un fatto inedito per me (di solito sono io che parto). Ci aveva in sostanza abbastanza "inzertato", alla Montalbano maniera. Ancora più precisa è stata tuttavia un'altra osservazione: "Spesso usi la socialità per non sentire il dolore che hai dentro". Adesso: di che dolore si tratti io non lo so, né credo che il mio dolore sia più grande di quello che hanno dentro molti altri. Però è assolutamente vero che ancora troppo spesso mi nascondo dietro le chiacchiere da bar, devo averlo anche scritto quissù.
La frase insieme più divertente e inquietante però Lucia l'ha pronunciata per ultima, dopo aver avuto conferma che ho effettivamente una sorella. "Hai un problema con lei". Ah sì?, ho subito reagito, seguito dal logico In che senso? Lucia mi ha premuto in un altro punto del mio intestino sempre più in subbuglio e ha emesso la sentenza: "Riguarda la vostra infanzia e il rapporto con tuo padre".
Onestamente, lo giuro, non ho idea a che cosa si possa riferire. Certo: mia sorella ogni tanto mi prendeva in giro dicendomi che ero una trovatella e una volta mi ha fatto cascare da una giostrina (in generale voleva un fratellino e invece si è beccata questa biondina con gli occhi celesti e una faccia da madonnina infilzata, come mi chiamò un tempo l'acida nonna del mio primo fidanzato pisano). Mio padre, a sua volta, per errore mi spense una sigaretta sulla fronte: ho una fotografia di me in braccio a lui con il segno della bruciatura. Ho già avuto modo di dire, inoltre, che non escludo che davvero i miei volessero un maschietto come secondo figlio e invece è arrivato questo puffo pieno di nevrosi.
In tutti i casi, Lucia mi ha rassicurato precisando che nei prossimi giorni i punti energetici che mi ha sbloccato mi faranno agire in modo diverso dal solito. Non so se crederle. Vi dirò anzi che temo un po' i miei eccessi di energia: a differenza di Suad Amiry, è tanto che non mi lascio andare ai miei proverbiali pianti liberatori (oddio: mica vero... è che piango sempre di nascosto). E se significasse che potrei provare anch'io come lei a camuffarmi da maschio (soddisfacendo il molto presunto desiderio nascosto dei miei), credo proprio che pure in questo caso non ci crederebbe nessuno.
Tutto questo discorso sconclusionato ha una morale? Ma naturalmente no.
Con il passare degli anni, infatti, mi sono disabituata a dare troppo peso alle emozioni e alle bizzarre coincidenze. Non ho tuttavia smesso di tenere diari, nel neanche tanto inconsapevole bisogno di fissarne almeno qualcuna. Se amo scrivere e fotografare, insomma, qualche motivo ci sarà.
In questo specifico caso, forse mi occorreva incontrare Lucia per finire il post su Suad Amiry che avevo cominciato ieri. La foto che vedete sopra è mia: usarla dopo quattro anni in un contesto semi-pubblico sarà un segno di qualche cambiamento? Chissà che ne direbbe la fermano-spagnola.
In tutti i casi, bellezza bioenergetica, ti ringrazio per avermi costretta a stopparmi un attimo e a guardarmi dentro. Non posso promettere che smetterò di cedere alla socialità-camuffata come Suad durante il viaggio, ma ci proverò. In bocca al lupo a te per il tuo lavoro.
Uscendo dalla tenda, vedendola in canottiera, mi è venuto d'istinto fare la mamma: non prendere freddo, le ho detto. Chissà se avesse più tempo che cosa mi avrebbe detto di quest'altra mia trovata svia-attenzione dalla sottoscritta che ho sviluppato da quando non sono più una ragazza.
Non oso pensare a cosa mi inventerò quando diventerò una minuscola vecchina.

martedì 24 settembre 2013

Malati di Alzheimer e familiari, da Como a Cantù per non essere mai soli



Il 21 settembre è diventata da anni nel mondo la Giornata dell'Alzheimer. Si tratta di una data che, benché non sia più la blogger a tempo pieno di un sito internet aziendale che parla di anziani & disabili, le due categorie di cittadini in genere ancora troppo bistrattate, non posso più scordare. Finché la memoria mi assisterà, naturalmente. Scrivo queste parole con un filo di ironia, ma ben consapevole di stare parlando di una malattia di estrema crudeltà. Se infatti si limitasse a rubarti pezzo dopo pezzo il tuo passato, è probabile che più di qualcuno ne sarebbe addirittura contento. Purtroppo, però, dopo un certo stadio, non si è più in grado nemmeno di allacciarsi un bottone e si diventa come foglie al vento. Potete immaginare perciò lo strazio per i familiari che, oltre alla pena mista a volte a rabbia che provano per il congiunto malato, spesso non sanno bene come devono comportarsi.
Per fortuna, però, in questo strano Paese pieno di problemi, ogni tanto spunta qualche angelo, capace non solo di confortare, ma anche di offrire aiuto pratico a chi si ritrova all'improvviso in pesti così serie. E' successo per esempio a Como, dove per ben 35 anni, un gruppo di generosi pionieri oggi ultrasettantenni ha rivoluzionato il concetto stesso di volontariato, dando vita al Centro donatori del tempo, purtroppo in chiusura. Prima di rattristarvi con me per la fine di un'esperienza inevitabilmente irripetibile come lo è la vita di ognuno di noi, vi dico subito che c'è stato un passaggio di testimone. Da ottobre, informa l'ultima newsletter diffusa dal Centro comasco, "l’organizzazione  sarà gestita dalla Cooperativa Sociale Progetto Sociale di Cantù che si è impegnata a proseguire il cammino da noi tracciato". Un cammino, precisa la lettera elettronica (ma come sono demodè), intrapreso nel 1992 relativamente al sostegno ai "malati di Alzheimer ed ai loro familiari". Perché invece la sottoscritta ha parlato di attività lunga 35 anni? Semplice: perché il Centro esiste da prima del 1992 e si occupava di bambini disabili fisici e psichici. A dirmelo, era stata in un'intervista per il già citato sito aziendale Carla Bignami, socia fondatrice di questa straordinaria realtà cittadina.
Proprio Carla in persona, anzi, mi ha avvisata dell'addio alla "sua" creatura in concomitanza con la ricorrenza mondiale.
So che cosa significa chiudere un cerchio: anche ammesso che ci si metta in attesa del prossimo che si aprirà (ed è auspicabile che sia così: altrimenti che senso avrebbe la vita?), c'è sempre una fase di lutto, o quanto meno di disorientamento, che richiede il sostegno degli amici.
Sono sicura che quest'ultimo non mancherà a Carla e ai suoi collaboratori, ma è sempre bene non dare nulla per scontato. Del resto, il Centro donatori del tempo ha fatto proprio questo con i familiari e i malati: non li ha lasciati soli mai, dando comunque un po' di normalità a un'anormalità che si fa quotidiana, ogni volta che veniamo colpiti da una malattia.
Raccolgo in definitiva il messaggio sottinteso nella mail che mi ha mandato questa straordinaria signora conosciuta ahimè solo per telefono: noi del Centro non abbandoniamo i malati e i loro familiari, ma passiamo semplicemente il testimone. Al posto loro, infatti, come già detto arriva la sopra citata cooperativa di Cantù, che riattiverà il Filo diretto, ossia il servizio telefonico di consulenza psicologica ai familiari dei malati, al numero di cellulare 348-6771698, e le altre attività che hanno reso celebre il Centro comasco: sto parlando del "Caffè del Lunedì," allo Yacht Club della città dal 2001, e dei "Venerdì insieme", nella sede dell'associazione culturale Giosuè Carducci. 
Che altro aggiungere?
Solo in bocca al lupo a tutti, vecchi e nuovi donatori di speranza morale e materiale.
A Carla dico in più grazie per un sacco di cose, non ultimo per avermi ricordato che nella vita si può sempre aprire un nuovo capitolo. Lei, per dire, a 43 anni si è dedicata anima e corpo a un progetto davvero enorme come il Centro. Io, che oggi ne uno di meno di lei allora, non posso che fare altrettanto. Basta tenere gli occhi (oltre che il cuore e il cervello) sempre in movimento.
E qualcosa accadrà.

martedì 17 settembre 2013

Amazzone in tempo reale, una lezione di dignità in forma di libro

Foto di Loretta Emiri, autrice di Amazzone in tempo reale, Livi 2013

Non è facile recensire Amazzone in tempo reale di Loretta Emiri. Pur essendoci conosciute meno di due anni fa, Loretta è infatti diventata una delle mie amiche più importanti: l’ansia da prestazione è così divenuta davvero consistente, soprattutto perché i temi che affronta nel suo libro mi graffiano la pelle più delle unghie dei miei gatti. Per tentare di vincerla, comincio intanto col dire che è solo merito di Loretta se, capitolo dopo capitolo, ho imparato a distinguere i nomi e le abitudini di quel che resta delle popolazioni autoctone del Brasile (e non solo di quest’ultimo), cogliendo in più di un passaggio quanta nostalgia si sia sedimentata nell’anima, negli occhi e nella stessa postura della mia amica dal bell’accento umbro. Dopo circa vent’anni di condivisione sempre più intensa della cosiddetta causa indigenista, Loretta è tornata in Italia, che deve esserle davvero sembrata una prigione, umida (anzi fredda, non solo meteorologicamente) e angusta.
Non si tratta di farsi passare per amici degli ultimi della terra, per un frainteso senso di solidarietà con “chi sta peggio di noi”. Loretta non è tipo da sentimentalismi a buon mercato. La sua apparente durezza (anche nella lingua che adotta) è frutto di una sofferta crescita interiore, di una lucida (fin troppo impietosa) autoanalisi, tipica delle menti più vivaci. La mia amica stana l’ipocrisia come saprebbe fare solo un animale con la sua preda. Una volta che l’ha scovata, si può star certi che ce lo farà sapere. Ci lavorerà su per giorni, per anni, forse, ma prima o poi la sua riflessione si trasformerà in testo scritto, in un “brano”, come definisce lei stessa i capitoli che compongono il libro. Illuminante è, per esempio, la descrizione degli appunti-patchwork dai quali ha tratto l’ultimo brano, il più duro, probabilmente, comunque il più adatto a chiudere la sua originalissima rielaborazione dell’esperienza brasiliana, ricca di aneddoti tratti dalla sua vita di formatrice di insegnanti indios, un incarico che l’ha messa in contatto diretto con diverse realtà: innanzitutto con gli indios, ai quali Loretta dedica le parole più dolci, per via delle molte occasioni in cui le hanno mostrato amicizia, accoglienza semplice e profonda condivisione; poi con i missionari (e le suore), che non sempre descrive con parole accomodanti (tutt’altro, in certi passaggi), per via delle troppe occasioni di mancato incontro non tanto con lei, quanto con gli esponenti delle popolazioni native; infine con i politici brasiliani e in generale i discendenti dei conquistadores, non sempre in grado (per essere diplomatici) di offrire vero supporto alla causa indigenista.
Non sto mettendo le mani avanti, ve l’assicuro, è solo che, man mano che scrivo, capisco ancora di più perché mi fosse difficile stendere una recensione accurata e onesta del libro di Loretta, un’opera essenzialmente autobiografica, cui però si mescola, per forza di cose, la storia con la S maiuscola, riconosciuta tale solo in anni molto recenti, anche grazie all’azione di persone come lei e degli indios dall’autrice medesima resi immortali proprio con i suoi racconti.
Sì, era davvero arduo realizzare una sorta di diario ragionato degli anni presumo più belli della vita vissuti dall’autrice finora (ma essendole amica, ovviamente le auguro di passarne di mille altri di periodi così) e al contempo confrontarsi con la complessità della questione amazzonica, resa ancora più intricata dalla presenza di altri “povirazzi” (alla Montalbano) espulsi da una globalizzazione sempre più aggressiva, la stessa che anche in Europa sta facendo vittime di ogni genere.
Che dire, poi, delle delusioni che sento inevitabilmente anche mie, provocate in Loretta da un mercato editoriale pressoché asfittico, ostile, quasi, alle voci fuori dal coro, coriacee all’editing contemporaneo, capace di promuovere troppo spesso solo storie in serie?
E pensare che, all’apparenza, il libro di Loretta potrebbe attrarre un certo tipo di editoria impegnata, amica dei popoli, sinistrorsa, diciamo così. Come già accennato, però, l’autrice non è capace di fingere, non apparterrà mai ad alcuna parrocchia, né santa né laica. Lo si capisce bene già dal passaggio che riporta nella quarta di copertina, laddove sgombra il campo sul più macroscopico degli equivoci in cui noi occidentali cadiamo quando parliamo di Amazzonia (e anche di Africa, aggiungerei). Tutelarne la sussistenza non coincide affatto con la salvaguardia del “polmone verde del mondo”, una definizione che mai verrebbe in mente agli Indios. Se questi ultimi vogliono difendere l'Amazzonia, infatti, non lo fanno di certo per ragioni ecologiste. Semmai per ragioni ecologiche, nel senso primigenio del termine: se sparisce la foresta, ci dicono gli indios da anni, spariamo noi. Il che significa la fine di un modo diverso, non alternativo nel senso che l’aggettivo ha assunto durante l’era hippy, di vivere. Se cancellate l’Amazzonia, gridano come possono, cesserà per sempre un modo differente di stare al mondo, al quale stiamo già rinunciando, pezzo dopo pezzo, per via dell’ormai non più cancellabile contatto con voi bianchi.
Tra gli esempi di contaminazione già in atto, in particolare, Loretta si sofferma sul rimpicciolimento di alcuni oggetti di artigianato cosiddetto etnico per dare agli occidentali che li acquistano la possibilità di trasportarli più agevolmente.
Di per sé, a mio avviso, i contatti tra i popoli sono sempre arricchenti, ma diventano di altra natura quando non c’è equilibrio tra le parti.
I piccoli fanno sempre grande fatica a cavarsela. Posso ben dirlo io, dall’alto dei miei 152 centimetri.
Allo stesso tempo, i piccoli possono comunque creare qualche ostacolo, con il cervello, il cuore e le parole. Questo, certo, finché non si passa sul piano della forza fisica.
Fino a quel giorno, però, non si potrà fare a meno di lottare, mostrando con il proprio stesso stare al mondo una dignità da giganti.
E Loretta è un vero e proprio Golem di dignità, in ogni cosa che fa.
A lei, il mio più sentito grazie.
A voi, che di certo adesso acquisterete il suo libro, buona lettura.

venerdì 13 settembre 2013

Disadattati si nasce. Per fortuna?


La settimana del trash sta per concludersi, ma io non posso esimermi da lasciarne traccia sul mio piccolo e solitario spazio virtuale.
Lo scatto risale allo scorso ferragosto: il tizio, anzi, la rotondità del suddetto, era intento a osservare immagino con grande piacere lo spettacolo in corso nello stabilimento dove continuiamo, non so perché, a tornare tutte le estati.
Nonostante il senso di raccapriccio indottomi dal medesimo spettacolo, c'è qualcosa che me lo fa tenere a caro. Sarà per l'atmosfera della festa di fine estate, sarà perché, quando vado a Francavilla al Mare, in genere, dimentico tutte le ambasce della mia precaria esistenza, fatto sta che ritrovare anno dopo anno queste belle panze abruzzesi, osservare le facce piene e felici che tengono il tempo di musiche orribili, rimirare i tatuaggi davvero elaborati che femmine e maschi mostrano su pelli non necessariamente troppo palestrate, mi provoca una nostalgia, una saudade, inimmaginabile.
Oltretutto, poi, sono reduce da un'analoga esperienza di folla non esattamente composta, davanti alla quale, come al solito, mi sono sentita in dovere di scattare.
Non posso scendere troppo nei dettagli, ma è comunque un fatto che quella gente assiepata al buffet, le tartine (e mica solo quelle) finite in un lampo, i bicchieri sottratti ai camerieri (nervosissimi) anzitempo e altre piccole chicche che non mi sento di riportare, mi hanno immediatamente richiamato alla memoria la festa del Paraculo, con il grandissimo, indimenticabile Ray Sugar Sandro, da me stra-fotografato (se non lo pubblico qui è solo perché, francamente, si fa già troppa pubblicità da solo).
C'era, c'è, in effetti, una grande differenza tra i miei conterranei di origine e quelli che man mano ho conosciuto in questa bella ma schiva regione. Me l'ha fatta notare, manco a dirlo, il mio pungente consorte: mediamente dalle parti mie, il cafone è più spontaneo, meno artefatto (vedi la panza di cui sopra), mentre nelle Marche, almeno in quelle basse, c'è il tamarro elaborato, quello che pensa di essere ben vestito, quello con le scarpe artigianali che piacciono (lo dicono i dati confindustriali, non io) ai russi. E infatti ho potuto contemplare straordinarie calzature, ma pure un cappellaccio che mi ha ricordato il Guerriero di Capestrano, a dirla tutta.
E però, lo ammetto, sono molto attratta dal trash, forse per una sorta di malinteso senso di superiorità, o forse, semplicemente, perché ho bisogno di risate grevi per confermare che, nonostante la sfiga che mi sento addosso, non potrei essere comunque diversa da come sono.
Al contempo, un tantino invidio chi ha il gusto dell'orrido e quello sfoggio di corpi sovrappeso quasi mi intenerisce. Non credo, in definitiva, che riuscirò mai a smettere di osservarli, quasi che guardarli e, qualche volta, fotografarli, mi servisse a rimarcare la distanza e insieme il mancato legame con una delle molte realtà dalle quali sarò sempre esclusa.
Del resto, aveva ragione Nanni Moretti, che quando aveva all'incirca la mia età (la più bella della vita, ne sono sicura: con qualche sicurezza in più sarebbe perfetta), considerava che avrebbe fatto sempre parte di una minoranza di persone. Oggi, credo, per il regista non è più così (lo spot a Bersani pre-elettorale è stato così triste), però il disadattamento è una condizione esistenziale della quale difficilmente ci si libera. Ci si nasce.
Non me ne vogliano, perciò, le maggioranze che di volta in volta incrocerò.
L'aliena sono io. L'importante è saperlo.

martedì 3 settembre 2013

Sebastiano Nata e il valore dei giorni, secondo me

Porto San Giorgio, vita (dura) da spiaggia

Ho cominciato Il valore dei giorni di Sebastiano Nata con un pizzico di scetticismo. Trovavo la sua prosa eccessivamente piana e mi pareva di scorgervi gli stessi difetti che imputavano alla mia al liceo, quando mi si valutava regolarmente con un sette/sette più e il commento aggiuntivo del tipo "il tema è scorrevole e conciso, la traccia ben seguita" e quasi nulla più.
La scuola ti condiziona tantissimo, anche nell'idea che hai di te stesso, come persona.
E' effettivamente vero che scrivo a mitraglia e che, in genere, faccio poche modifiche alla prima versione. Non so se lo stesso sia capitato allo scrittore romano di origine marchigiana che alla fine mi ha completamente conquistato proprio per via delle sue parole così all'apparenza facili e insieme molto dettagliate.
Nata racconta di due fratelli, dando voce a quello più giovane, Marco Leoni, manager in una grossa multinazionale della finanza. Domenico è il più vecchio, una vita fuori dagli schemi, fuggito via dalla grande città per tornare nella sua piccola città natale, sull'Adriatico: Porto San Giorgio.
Ha avuto una moglie e un figlio, purtroppo tragicamente  scomparso, e l'esperienza l'ha segnato per sempre. Faccio un altro mini passo indietro.
Ammetto di aver comprato questo libro proprio perché era ambientato nello stesso luogo in cui sono venuta a vivere, anch'io, in un certo senso, per fuggire dalla grande città.
Era stato presentato in occasione del premio letterario Paolo Volponi che si tiene tutti gli anni a metà autunno a Porto Sant'Elpidio (e prima proprio a Porto San Giorgio). Il libro di Nata era nella triade dei finalisti dell'edizione del 2010. Non ha vinto e io, che amo i perdenti (il che dice molto sul mio modo di stare al mondo), l'ho comprato.
Non ho idea se Il valore dei giorni abbia comunque avuto altri riconoscimenti, in ogni caso, ve l'assicuro, è un grandissimo libro.
Parla di lavoro, di aridità, di famiglia, di mare e soprattutto di vita e morte.
Descrive con dovizia di particolari la sala di attesa del palazzo del capo di Marco, ristrutturata sapientemente da un architetto di chiara fama, come si dice, e a me è sembrato di essere lì con lui, a macerarmi d'ansia per quel che il freddo francese gli avrebbe detto di lì a poco, addentando i suoi sandwich, un pranzo veloce come si confà agli uomini (e ahimè alle donne) che hanno troppo poco tempo per concedersi un pasto come si deve.
Mi ha poi portato in mare con lui e Domenico, sulla loro barchetta a vela, tra le onde di quel mare che osservo spesso anche dalla collina su cui abito. Sentivo le conchiglie che gli si conficcavano tra i piedi nella lunga passeggiata mattutina sulla battigia, la testa vuota, la bocca amara per le troppe sigarette fumate.
Non voglio dire molto della trama, perché, alla fine, non è così importante. Quel che conta è il modo in cui si dipana e quel senso di fatica e di (probabile, ma non sicura) rinascita che lascia intuire verso la fine.
E' in ogni caso proprio il finale che me l'ha fatto amare in maniera definitiva. Non so se avrei pensato lo stesso qualche anno fa, quando bisognava fingere di farsi attrarre da storie tristi, intellettualeggianti alla The dreamers (ma c'è di molto peggio), il film di Bernardo Bertolucci che ho visto giusto due sere fa su Iris. Sarà un segno dell'età (mi sa proprio di sì), ma sto cominciando a capire che cosa desidero quando apro un libro, guardo un film, vado a una mostra: voglio sognare. Che cosa? Un'altra possibilità, un percorso differente, voglio emozionarmi, magari anche piangere, ma sentirmi viva, sentirmi in qualche misura migliore. Vivere una catarsi, insomma.
Saranno i tempi bui, sarà l'incertezza (a tratti davvero angosciante) su come me la caverò, come ce la caveremo, in ogni caso non ho bisogno di alimentare il mal di vivere, la nausea sartriana, facendomi martirizzare da quegli autori che pensano di avere la verità in tasca (di recente mia sorella mi ha parlato di Melancholia di Lars Von Trier: non oso pensare a quale effetto farebbe su di me).
Perciò grazie a Sebastiano Nata e al suo ritratto asciutto ma romantico della vita e di quel che conta davvero. Per me, di sicuro.