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mercoledì 28 gennaio 2015

Andre Agassi, la palestra e il mio motto del 2015: prima senti, poi (forse) pensa


Abbiamo posato per questa fotografia giovedì dell'altra settimana.
Per chi non dovesse riconoscermi subito, dico solo che di sicuro non sono tra le ragazze (e l'unico uomo del gruppo, l'insegnante di yoga Raul) in piedi.

Due giorni prima ci avevano esortato a indossare la maglia nuova della società sportiva Fermo 85, di cui faccio parte ormai da quasi cinque anni. Non riesco ancora a credere che sia passato già così tanto tempo, anche perché i primi due anni (o giù di lì) non mi sarei mai immaginata quanto quelle ore che trascorro lì, mescolata a signore e ragazze delle età più disparate, sarebbero diventate per me boccate preziose di ossigeno.
Chi mi conosce lo sa, perché ne parlo spesso: sono grata alle istruttrici Tiziana Bastiani e Rita Sacripanti (e pure a Raul, di cui, ahimè, ignoro il cognome) per avermi spinta a prendermi di nuovo cura del mio corpo.

Ho sempre amato fare sport all'aperto: a tennis, purtroppo, sono riuscita a giocare solo poche volte dalla scorsa estate durante la quale mi ero ripromessa di ricominciare e tuttavia adesso so con certezza che, volendo, potrei farlo.
Adoro sentire i miei muscoli che lavorano, il cuore che accelera e il sudore che m'imperla la schiena. Mi piace constatare che riesco ancora a piegarmi piuttosto bene e che, tutto sommato, riesco a cavarmela pure con le coreografie di step e aerobica, verso le quali, da ragazza, provavo una certa ostilità.

Tutto è cominciato, del resto, quando ero molto piccola, forse verso i 7-8 anni: cicciottella com'ero, mia madre pensò che potesse farmi bene muovermi un po', così mi iscrisse a un corso di ginnastica ritmica. Ero veramente negata: ricordo ancora, a essere sincera, come si fa il passo composto, ma detestavo che mi si dicesse di muovermi a comando.
Eppure fisicamente ero assai sciolta. Lo giuro, non sto scherzando: riuscivo a scendere in spaccata facendo giusto un salto nell'aria. Sapevo portare su soprattutto la gamba sinistra come vedevo fare da Heather Parisi.
Bastava però che mi si dicesse di seguire dei passi pre-costituiti perché andassi in crisi trasformandomi in un legnaccio inamovibile.

Ero pure dotata di un discreto scatto, come ebbi modo di sperimentare sulla pista d'atletica dello stadio Angelini di Chieti Scalo qualche anno dopo il fallimento con la ginnastica ritmica. Vinsi una gara, anche, ma non c'era storia: gli altri bambini erano più piccoli, non potevo che essere la più forte.

Al liceo, infatti, quando mi spedirono a gareggiare, fallii miseramente: persi l'equilibrio direttamente sui blocchi di partenza e uscii subito dalla corsia. Ho sempre detestato i rumori forti: il bang della pistola, probabilmente, doveva avermi messo paura prima ancora di essere esploso. Ma non cerchiamo scuse patetiche, soprattutto a distanza di ben trent'anni.

Poi c'è stato il tennis, di cui ho già parlato in un post.
Qui dico solo che ho appena finito Open in inglese, l'autobiografia di Andre Agassi, aggiungendo che avrei dovuto leggerlo anni fa per fare pace con la mia ansia da prestazione. Anche perché, a differenza del grandissimo campione di Vegas, come lui chiama la sua città natale (anche se il padre è di origini iraniane), a me nessuno ha mai chiesto di tirar fuori un talento che non ho mai sicuramente mai posseduto, a differenza sua e della grandissima (e strafichissima) moglie Steffi Graf.

E tuttavia consiglio Open a tutti quelli che amano lo sport e le sfide in generale: per affrontarle, dice in soldoni Andre e il suo ghost writer (che il campione ringrazia pubblicamente nella post-fazione, il che me lo ha reso decisamente più simpatico di come lo percepivo inizialmente quando, snobisticamente, dicevo di NON volerlo leggere), bisogna smettere di pensare e imparare, invece, a sentire.

Se pensi di vincere, non vinci; se senti che qualcosa può accadere, accadrà, se non proprio quella, magari un'altra, persino più importante.

Per lui, nella versione romanzata del suo passato di campione riluttante, smettere di giocare ha coinciso con una vera e propria rinascita. L'Agassi di oggi, un anno e poco più di me, è un uomo completo, e lo si vede anche nelle interviste. Per quanto siano costruite (gli americani sono dei maestri nelle fiction: pure la più scalcinata è più credibile di una qualsiasi soap nostrana), basta guardare Andre negli occhi per capire che, diamine, è uno felice ed è talmente felice che non si vergogna di farcelo vedere. Beato lui. E beata Stefanie (come preferisce farsi chiamare la sua bionda consorte) e i loro bambini.

Come tutti gli esseri umani, avranno (e provocheranno) di certo scazzi, dolori, frustrazioni, meschinità, etc etc, ma guardandoli insieme nell'intervista alla BBC che linko sotto, ho avvertito la stessa naturale energia vitale che percepisco ogni volta che vado in palestra, nella "mia" modesta palestra di provincia, tra signorine e signore di cui ignoro quasi tutto, ma con cui divido i miei sorrisi e la mia fatica ogni qual volta ci si chiede di affrontare un esercizio più complicato.

Quando sono lì dentro, mi sento forte come una campionessa, felice come una bambina e libera come una donna.

Approfitto perciò della foto di gruppo, dolcemente mossa, per l'ennesimo grazie alla vita.
Il presente è nebuloso (fuori fa un freddo cane), ma gli stati di grazia non hanno niente a che fare con i nostri pensieri e i nostri giudizi, spesso emessi a prescindere, con quella tipica presunzione di noi esseri umani.

Sentire è molto più potente. Eccome se lo è. Ogni tanto va fissato sulla carta, giusto per non scordarselo.
Non vedo l'ora che sia domani, ore 19.15.



giovedì 7 agosto 2014

Cristina Donà e l'amore che vince



Quest'anno ho ricevuto alcuni regali del tutto inaspettati.
Mi riferisco in particolare a un cd di Cristina Donà ricevuto a distanza di due anni almeno dall'acquisto: si chiama Torno a casa a piedi. Ringrazio ancora Simona per il pensiero, anche perché, probabilmente, è giunto al momento giusto. 
La canzone che linko sopra, però, è tratta dal primo lavoro della musicista originaria di Rho (sto parlando di Tregua), classe 1967, dotata di una voce sorprendente, uscito nel 1997. 

Personalmente, la trovo anticipatrice di un brano tratto dall'album che mi ha regalato la mia ex compagna di scuola. 
Sto parlando di Un esercito di alberi che trovate linkato in fondo, in cui, in maniera simile al primo brano, si parla di una relazione d'amore.

Non essendo in grado di giudicarla da un punto di vista puramente musicale, posso solo fornirvi la mia impressione filtrata dai testi scritti per la Donà da suo marito (almeno a quanto mi risulta, relativamente all'ultimo disco), che forse ai tempi del primo disco era ancora il suo fidanzato (ma non ne ho la più pallida idea, naturalmente).

Ebbene: trovo enorme la differenza tra il primo modo di parlare d'amore nell'album d'esordio e in quello del 2011. 
Nel primo Cristina è una giovane donna che impara a conoscere l'uomo che ama attraverso la sua pelle. Nel secondo, è una donna (ma sarebbe forse più esatto dire un uomo, visto chi le scrive i testi) che riconosce il suo amore ascoltando il rumore degli alberi.

Trovo davvero illuminante la trasformazione della visione del sentimento più importante nella vita di una persona. Siamo corpo (oh, se lo siamo), ma la nostra corporeità esce fuori da noi e diventa più vera quando ci fondiamo con la natura, quando impariamo a rispettarla, anche, comprendendo davvero nel profondo che cosa significhi essere mortali.

Non so, non posso parlare per lui, ma qualcosa mi dice che mio padre ami mia madre ancora più di prima. E lo fa anche attraverso noi figlie, nel suo modo insieme discreto e un po' goffo di darci retta, facendosi anche un po' violenza.

Oggi non ero con loro al cimitero, per il secondo mese dal nostro addio, ma c'ero attraverso il vento del mare, il profumo delle onde e il calore sulla mia pelle.

Le stelle buone esistono e ci dicono un sacco di cose anche quando non sono più scritte sulla schiena dell'amato, dell'amata. Lo fanno attraverso i pensieri che semplificano e gli angeli che Cristina dice di incontrare in un altro brano del suo primo album.

Felice di averla conosciuta adesso, sì. 
Un giorno parlerò anche delle sue canzoni più metropolitane e dell'ironia un po' amara con la quale descrive la solitudine della vita di città.

Mi piace però adesso dedicare queste due canzoni a tutte le persone che si amano, oltre il tempo e lo spazio. Buon ascolto a tutti. E ciao, cara mamma.

domenica 29 settembre 2013

Suad Amiry e l'autoironia che mi conquista

Suad Amiry

Giusto agli sgoccioli di questa sorta di lunga estate indiana, ho deciso di leggere Murad Murad, di Suad Amiry, un'architetta e scrittrice palestinese che ho avuto occasione di ascoltare al Festival di Internazionale, ormai ben quattro anni fa. E ho fatto proprio bene.
Il libro ripercorre le diciotto ore trascorse dall'autrice in compagnia di un gruppo di giovani braccianti palestinesi nel loro viaggio alla ricerca di un lavoro in Israele. Agli occhi di un occidentale non addentro all'annoso conflitto che contrappone arabi ed ebrei giusto nella terra più santa dell'umanità, lussureggiante di aranceti e ulivi, un clima quasi sempre mite, può sembrare bizzarro che una signora della buona borghesia musulmana non più giovane (come la Amiry stessa si definisce) si imbarchi in un'impresa così stravagante, oltretutto pateticamente camuffata da uomo.
Basteranno invece poche pagine del bel libro di questa simpaticissima architetta residente a Ramallah, ossia nell'area della Palestina attribuita agli arabi da non so più quale accordo internazionale, per comprendere quale dramma vivono ogni giorno migliaia di giovani e meno giovani arabi di Cisgiordania che non riescono a lavorare né nella loro zona né al di là del Muro.
E già, amici lettori non avvezzi alla questione palestinese come me, nella storia recente dell'umanità non c'è stato solo il muro di Berlino: tra i passaggi più partecipati di Murad Murad c'è proprio la trasposizione metaforica di questo muro arabo-israeliano, in particolare della galleria che lo attraversa all'altezza della città di Petah Tikva, meta del viaggio dei giovani braccianti, compreso il protetto di Suad che dà il titolo al libro.
Storicamente il nostro Paese ha sempre mostrato una certa simpatia per i palestinesi, salvo negarla per ragioni diplomatiche ogni volta che questi ultimi hanno risposto ai missili israeliani con attentati e altre azioni terroristiche. Come già sottolineato, non ho abbastanza strumenti per prendere una posizione pro o contro qualcuno, ma non posso negare di essermi appuntata mentalmente i nomi dei villaggi e paesi palestinesi esistiti per secoli e secoli, in luogo dei quali oggi sorgono parchi naturali dai nomi affascinanti. D'altra parte, Suad Amiry è a capo di un'organizzazione che tutela il patrimonio architettonico di Ramallah, quindi è facilmente intuibile quanto sia sensibile ai mutamenti "urbanistici" impressi da Israele.
Il vero motivo per cui parlo di questo libro, in definitiva, è un altro e per nulla politico.
Suad Amiry ha un'ironia invidiabile: come tutte le persone intelligenti, la rivolge innanzitutto verso se stessa, dipingendosi come una culona in climaterio, prossima all'infarto dopo una corsa pazza cui la costringono i suoi giovani compagni di viaggio onde evitare i probabili spari della polizia israeliana; poi verso i suoi "big boys", i medesimi aspiranti braccianti, ai quali vorrebbe disperatamente assomigliare, ovviamente invano. Me la sono immaginata mentre cercava di ficcarsi i capelli nel berretto alla Jeanne Moreau di Jules e Jim, gli occhi vivaci, indagatori e la lingua sempre pronta alla battuta salace. Particolarmente spassoso è il resoconto dell'incontro con la famiglia di Murad, a inizio dell'avventura, quando continuano a offrirle cuscini per farla sentire a suo agio, con il risultato che le sembra di galleggiare su una barca. Prima di questo libro, che nonostante la prosa frizzante, affronta comunque un tema molto serio, so che la Amiry ha scritto Sharon e mia suocera, la politica israeliana sempre sullo sfondo, ma filtrata dalla forzata convivenza dell'autrice con la madre di suo marito. Voglio cercarlo, perché sono certa che leggerlo mi piacerà assai.
Un altro aspetto di questa straordinaria signora nata esattamente venti anni prima di me è che non si vergogna delle numerose lacrime versate lungo le diciotto ore da simil-transfuga. Sarà per via della menopausa che cita spesso, sarà per la fatica fisica accumulata durante svariati tratti a piedi, in ogni caso il suo corpo e le esigenze (anche intestinali!) che lo guidano restano sempre in primo piano. E se c'è da piangere, beh si piange.
Oggi sarei dovuta andare a Porto San Giorgio a correre dieci chilometri con alcune amiche della palestra: non so perché (anzi: lo so eccome), ma ho dato subito la mia adesione, pur nutrendo nel mio intimo più di un dubbio che ce l'avrei mai fatta ad arrivare fino alla fine. Nonostante il mio volontaristico super-io, comunque, un po' come in Murad Murad, sono stata sopraffatta dal mio corpo. Oltre al raffreddore che stanotte mi ha tormentato costringendomi a soffiarmi il naso di continuo, ieri mi sono pure slogata una caviglia. Insomma: la corsa proprio non si doveva fare e ho come l'impressione che l'indebolimento del mio ginnico micro (in centimenti, non in larghezza) corpo sia la conseguenza di un'alterazione della mia psiche. Sono pazza? Ma certamente. E però ditemi se non è strano che giusto ieri abbia incontrato una giovane danzaterapeuta di nome Lucia (dal cognome tipicamente fermano e dai morbidi lineamenti spagnoleggianti) esperta di bioenergetica.
Mi sono avvicinata con neutra curiosità al gazebo nel quale lei e altre persone facevano provare gratuitamente massaggi ai piedi, all'area cranio-sacrale e per l'appunto il trattamento che ho scelto io.
Giacché c'ero, mi sono detta, perché no?
Premendo qui e là il mio intestino perennemente colitico e il mio collo appesantito da troppo computer (e pensieri oziosi), Lucia si è ovviamente accorta che avevo un basso livello di energia (e figuriamoci: ero mezzo rintronata dal raffreddore). Però, ve l'assicuro, mi sono lasciata andare al tocco delle sue mani estremamente fiduciosa nelle sue capacità. Ogni tanto, ovvio, pensavo a quel che avrei dovuto prepararmi per cena e in generale alla nottata da single (temporanea) che mi attendeva. A un certo punto, il colpo di scena. "Hai problemi con un uomo", mi dice Lucia. Mi sono messa a ridere. Poi le ho spiegato che ieri ero sola perché mio marito era in via del tutto eccezionale fuori città e che si trattava di un fatto inedito per me (di solito sono io che parto). Ci aveva in sostanza abbastanza "inzertato", alla Montalbano maniera. Ancora più precisa è stata tuttavia un'altra osservazione: "Spesso usi la socialità per non sentire il dolore che hai dentro". Adesso: di che dolore si tratti io non lo so, né credo che il mio dolore sia più grande di quello che hanno dentro molti altri. Però è assolutamente vero che ancora troppo spesso mi nascondo dietro le chiacchiere da bar, devo averlo anche scritto quissù.
La frase insieme più divertente e inquietante però Lucia l'ha pronunciata per ultima, dopo aver avuto conferma che ho effettivamente una sorella. "Hai un problema con lei". Ah sì?, ho subito reagito, seguito dal logico In che senso? Lucia mi ha premuto in un altro punto del mio intestino sempre più in subbuglio e ha emesso la sentenza: "Riguarda la vostra infanzia e il rapporto con tuo padre".
Onestamente, lo giuro, non ho idea a che cosa si possa riferire. Certo: mia sorella ogni tanto mi prendeva in giro dicendomi che ero una trovatella e una volta mi ha fatto cascare da una giostrina (in generale voleva un fratellino e invece si è beccata questa biondina con gli occhi celesti e una faccia da madonnina infilzata, come mi chiamò un tempo l'acida nonna del mio primo fidanzato pisano). Mio padre, a sua volta, per errore mi spense una sigaretta sulla fronte: ho una fotografia di me in braccio a lui con il segno della bruciatura. Ho già avuto modo di dire, inoltre, che non escludo che davvero i miei volessero un maschietto come secondo figlio e invece è arrivato questo puffo pieno di nevrosi.
In tutti i casi, Lucia mi ha rassicurato precisando che nei prossimi giorni i punti energetici che mi ha sbloccato mi faranno agire in modo diverso dal solito. Non so se crederle. Vi dirò anzi che temo un po' i miei eccessi di energia: a differenza di Suad Amiry, è tanto che non mi lascio andare ai miei proverbiali pianti liberatori (oddio: mica vero... è che piango sempre di nascosto). E se significasse che potrei provare anch'io come lei a camuffarmi da maschio (soddisfacendo il molto presunto desiderio nascosto dei miei), credo proprio che pure in questo caso non ci crederebbe nessuno.
Tutto questo discorso sconclusionato ha una morale? Ma naturalmente no.
Con il passare degli anni, infatti, mi sono disabituata a dare troppo peso alle emozioni e alle bizzarre coincidenze. Non ho tuttavia smesso di tenere diari, nel neanche tanto inconsapevole bisogno di fissarne almeno qualcuna. Se amo scrivere e fotografare, insomma, qualche motivo ci sarà.
In questo specifico caso, forse mi occorreva incontrare Lucia per finire il post su Suad Amiry che avevo cominciato ieri. La foto che vedete sopra è mia: usarla dopo quattro anni in un contesto semi-pubblico sarà un segno di qualche cambiamento? Chissà che ne direbbe la fermano-spagnola.
In tutti i casi, bellezza bioenergetica, ti ringrazio per avermi costretta a stopparmi un attimo e a guardarmi dentro. Non posso promettere che smetterò di cedere alla socialità-camuffata come Suad durante il viaggio, ma ci proverò. In bocca al lupo a te per il tuo lavoro.
Uscendo dalla tenda, vedendola in canottiera, mi è venuto d'istinto fare la mamma: non prendere freddo, le ho detto. Chissà se avesse più tempo che cosa mi avrebbe detto di quest'altra mia trovata svia-attenzione dalla sottoscritta che ho sviluppato da quando non sono più una ragazza.
Non oso pensare a cosa mi inventerò quando diventerò una minuscola vecchina.